“Il cammino dello tzaddiq consiste nel perorare la causa degli ebrei presso il Potere divino, e persino quando a tale scopo egli sembra commettere qualche trasgressione, lo può fare nella misura in cui agisce per il bene di Israele e nel desiderio di recargli beneficio”
Tutte le agiografie su rabbi Elimelekh Weissblum (1717-1787) di Lizhensk, nella Galizia polacca, concordano nel ricordare che questo autorevole e ascetico rebbe portava un orologio. Segno di modernità? No, segno di santità. Infatti, spiega Martin Buber aprendo l’antologia di aneddoti e insegnamenti che lo riguardano nei suoi Racconti dei chassidim, rabbi Elimelekh talvolta mentre cantava il qiddush sbirciava l’orologio – cosa che apparirebbe ai più disdicevole – “ché in quel momento la sua anima minacciava di dissolversi per troppa beatitudine, e così guardando l’orologio si manteneva nel tempo e nel mondo”. Non è un incipit stravagante ma un sagace modo di introdurci a colui che Gershom Scholem considerava “il maggior teorico dell’originalità dello tzaddiq, il giusto” – ossia il rebbe – nella prassi mistica del chassidismo; infatti è solo con questo movimento, sorto nel solco della qabbalà di Itzchaq Luria (XVI secolo), che un leader religioso di un gruppo di chassidim o pii assurge al ruolo di vero e proprio mediatore tra i cieli superni e la terra, tra Iddio benedetto e gli stessi chassidim. Il rebbe in quanto tzaddiq, sintetizza Scholem, “apre le sorgenti da cui irrompe la corrente della vita o chiyyut e pertanto anche altri possono avvicinarsi a quelle sorgenti. L’imitazione del suo cammino li rende partecipi della sua originalità… Ogni tzaddiq trova il cammino che gli è proprio e si tramuta egli stesso in un cammino nel quale scorre dall’alto verso in basso l’influsso vitale”.
Bastano queste poche annotazioni per intuire che siamo dinanzi a un’elaborata mistica dello tzaddiq, che implica, anzi esige un atteggiamento di devozione e amore e persino di timore, che va oltre il semplice rispetto, nutrito dai chassidim verso i loro rebbe, i quali nel corso del XIX secolo organizzarono il movimento in forma di dinastie familiari, spesso strutturate in ‘corti’ e ‘riti’ degni di principi e re. Ma dietro atteggiamenti e ritualità ci sta una visione, un’idealità religiosa a cui, in modo sostanziale, contribuirono gli insegnamenti di rabbi Elimelekh di Lizhensk, che fu allievo del Grande Magghid di Metzrich, colui che, raccogliendo il carisma del Ba‘al Shem Tov (1700ca-1760), fissò l’architettura portante del chassidismo nel suo insieme. Ora, storicamente parlando, del rebbe di Lizhensk sappiamo relativamente poco, essendo stato avvolto sin dall’inizio da una cortina agiografica che lo associa spesso al fratello Zuzia, il mite Zuzia di Hanipol (1718-1800), e ritrae entrambi come rabbini-predicatori itineranti di villaggio in villaggio, secondo un modello diffuso nell’Europa orientale del XVIII secolo e nello spirito di molti maestri di qabbalà. Ma a differenza di reb Zuzia, rabbi Elimelekh raccolse attorno a sé molti brillanti studiosi che divennero, a loro volta, leader capodinastici e che diffusero le sue dottrine, e quelle del Grande Magghid, rafforzando il movimento chassidico sia sul piano dell’organizzazione sia sul piano delle dottrine, queste ultime spesso sottovalutate ma indispensabili per comprendere appunto l’originalità, la portata innovativa – paradossalmente ‘moderna’ – del chassidismo nel suo insiene (permettendoci di poterlo pensare come omogeneo, a dispetto della radicale diversità dei suoi maestri, quegli tzaddiqim che lo hanno reso così significativo per la storia di ebrei ed ebraismo).
Furono i figli e gli studenti di rabbi Elimelekh a pubblicare a Lwow, l’anno dopo la sua morte, una raccolta dei suoi insegnamenti (derashot e shi‘urim sulle parashot della Torà) con il titolo Naom Elimelekh, stampato con una serie di misteriosi asterischi e alcune missive che lo riguardavano, un’opera che entrò a far parte dei classici della spiritualità e del pensiero chassidici. È in quelle pagine che troviamo esposta, forse per la prima volta, una sistematica dottrina dello tzaddiq, termine che qui indica non più soltanto il giusto di biblica memoria – che pure era già considerato “pilastro del mondo” – ma, in modo quasi rivoluzionario per l’ebraismo, indica il mediatore tra Iddio benedetto e il chassid, l’ebreo devoto, un mediatore dotato di speciale illuminazione che lo rende capace di ‘ascendere’ alle più alte sfere celesti (talmudicamente pensate come semoventi, in una concezione tolemaica del cosmo) ma anche, mosso da grande chesed cioè compassione verso le altre creature, in specie verso i suoi chassidim, capace di ‘discendere’, se necessario, anche ai livelli più bassi del mondo materiale, là dove stanno i peccatori, al fine di riscattare le scintille divine che questi (ebrei) smarriti pur sempre contengono in sé.
Ovviamente vi è un filo che lega la figura del giusto nel Tanakh, passando attraverso l’idea del tiqqun della mistica di Luria, alla personalità dello tzaddiq chassidico, sempre proteso verso la devequt, l’unione mistica con il divino, e al quale è permessa una yeridà tzorekh ‘aliyà, ossia una “discesa al fine di una ascesa” [l’espressione deriva dal Talmud, Makkot 7b], un inabissarsi negli strati oscuri del mondo per far risalire le anime alla luce celeste. Cosa sia o come debba avvenire questa ‘discesa’ è oggetto di molte discussioni tra gli studiosi del chassidismo: ci si riferisce a un permesso di peccare (come era avvenuto con il mistico-eretico Shabbataj Zevi) o semplicemente a gesti di solidarietà e di avvicinamento a chi sbaglia per riportarlo sulla retta via? E ancora: come interpretare la risalita o ‘ascesa’ nei mondi superni: sono situazioni di trance psichica, oppure forme di contemplazione, o semplici esercizi spirituali a partire dalle Scritture sacre? Scrive rabbi Elimelekh: “Il cammino dello tzaddiq consiste nel perorare la causa degli ebrei presso il Potere divino, e persino quando a tale scopo egli sembra commettere qualche leggera trasgressione, lo può fare nella misura in cui agisce solo per il bene di Israele e nel desiderio di recargli beneficio”. Quest’insegnamento verrà poi ripreso e sviluppato da uno dei più famosi discepoli di rabbi Elimelekh ossia il Veggente di Lublino, Ya‘akov Itzchaq Horowitz (1745-1815), per il quale la devequt, l’unio mystica dello tzaddiq che avviene nell’alto dei cieli, è dialetticamente necessaria per far discendere sulla terra la Shekhinà, l’immanenza divina (e del resto, la discesa della Shekhinà è tema tipico della letteratura midrashica) e aiutare i propri seguaci nei loro bisogni sociali e materiali. Stringendosi, anche fisicamente, attorno al loro rebbe/tzaddiq i chassidim – specie durante il terzo pasto dello shabbat – partecipano così alla stessa santità che deriva dall’unio mystica del loro maestro.
Questa vicinanza dello tzaddiq ossia di un rebbe ai suoi chassidim è la sua raison d’être, la sua vocazione più profonda, e rabbi Elimelekh la espresse al meglio in quest’aforisma: “Non soltanto ricordo quando tutte le anime d’Israele stavano presso la montagna ardente del Sinai; ricordo anche quali anime stavano vicino a me!” (fonte: Martin Buber). Perciò, in fondo, non sorprende più di tanto che i chassidim considerino il proprio rebbe come una specie di figura messianica, nel senso talmudico del nome, degno di essere ‘visitato’ ossia omaggiato soprattutto di shabbat e nelle feste: lo tzaddiq, come il messia, consola e riempie di gioia e assicura benessere facendo vibrare e sentire nuova la Torà, e come lo shabbat, egli anticipa e fa pregustare l’olam ha-bà, il mondo futuro… Così, anche la devequt intesa come vicinanza con uno tzaddiq necessita di avere sempre un orologio a portata di mano.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma