Storia di una comunità ebraica lungo il percorso di una città che racconta di oggi e di un passato lontano
Parlare della comunità ebraica ferrarese significa parlare di Ferrara. E viceversa. Non si tratta qui solo di un passato in cui gli ebrei hanno dato forma alla vita culturale, scientifica ed economica della città, ma anche di un presente che li vede tuttora tra i protagonisti della vita locale. A differenza di altri luoghi, a Ferrara la vita ebraica è tutt’uno con quella della città, ben fiera di quanto gli ebrei hanno dato e ancora offrono a istituzioni e vita pubblica.
Al turista che non si accontenti del presente ma voglia guardare anche al passato non mancano comunque le possibilità di indagine. Parliamo qui di una storia iniziata già nel Medioevo, quando i primi ebrei si stabilirono in diverse parti della città fin dal XIII secolo. La svolta sarebbe arrivata nel Quattrocento, con l’istituzione effettiva della prima comunità. Che si installò alle spalle del Duomo, in quella zona che poi disgraziatamente, due secoli dopo, sarebbe stata chiusa e trasformata nel ghetto.
Prima, però, la vita ebraica aveva potuto svilupparsi in seno a quella cittadina, con evidente profitto reciproco. A favorire questo momento d’oro, che abbraccia la fine del XIV secolo e quasi tutto il XV, erano stati gli Estensi che, inizialmente con Ercole I, aprirono le porte della città agli ebrei sefarditi in fuga dalla Spagna prima e dal Portogallo poi. Questi gruppi immigrati si affiancarono ai cosiddetti antichi ebrei che già vivevano in città, spesso provenienti dal centro Italia e dalle regioni del nord Europa.
La convivenza con il resto degli abitanti cristiani era stata fino a quel momento relativamente pacifica, anche se non erano comunque mancati episodi di intolleranza e di violenza, perlopiù basati sullo scellerato pregiudizio del sangue che lo stesso duca d’Este aveva dovuto redimere. In ogni caso, con l’arrivo dei sefarditi, la comunità a fine Quattrocento aveva raggiunto la ragguardevole cifra di duemila unità su trentamila abitanti complessivi. Tra questi, vengono ricordati con legittimo orgoglio esponenti di spicco della cultura sefardita come Abraham Farissol e Abraham Sarfati, docenti all’università, la famiglia Abrabanel, da Napoli, dona Gracia Mendes e suo fratello Ariel de Luna, provenienti dal Portogallo.
Conosciuta anche come Grazia Nasi, la Mendes è una delle personalità ebraiche più importanti del Rinascimento che, costretta in patria a convertirsi al cattolicesimo, proprio a Ferrara aveva potuto riabbracciare la fede ebraica e fondare un importante salotto letterario. Erede dell’immensa fortuna del marito, Don Francisco Mendes, ne aveva raccolto anche la responsabilità nei confronti degli esuli portoghesi aiutando grazie alla sua influenza e ricchezza gli ebrei perseguitati di mezza Europa. Al nome di questa paladina della causa ebraica è legata anche l’opera di un altro importante ebreo ferrarese del tempo, il tipografo Abramo Usque, che nel 1555 realizzò la stampa della Bibbia di Ferrara in due edizioni, una per Ercole d’Este e l’altra, appunto, per la stessa Grazia Nasi.
Una copia della Bibla Espanola è oggi conservata insieme ad altri reperti della sezione Judaica, presso la Biblioteca Ariostea, in via delle Scienze 17, mentre chi fosse curioso di vedere dove abitasse questa donna straordinaria può recarsi in corso Giovecca 47. Qui sorge il cinquecentesco Palazzo Magnanini-Roverella , oggi di proprietà e sede del Circolo dei Negozianti, ma che in passato fu residenza di dona Gracia. Per approfondirne la storia e in generale quella dei rapporti tra gli ebrei di Ferrara e le comunità sefardite di Spagna e Portogallo non c’è niente di meglio invece che fare tappa in via Piangipane 81. Qui, in quello che un tempo era stato il carcere di Ferrara (dove tra l’altro Giorgio Bassani fu recluso per tre mesi durante il fascismo) sorge oggi la sede del Meis, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah.
Punto di riferimento per la cultura ebraica non solo locale ma anche italiana e internazionale grazie alla completezza dei suoi percorsi espositivi e narrativi, questa istituzione si è da poco arricchita di una nuova mostra dedicata a uno dei capitoli più cupi della storia ebraica quale è stato quello dei ghetti. Oltre il ghetto-Dentro e fuori si affianca alle precedenti esposizioni, ormai entrate a far parte della permanente, dedicate l’una ai primi mille anni dell’ebraismo in Italia e l’altra al periodo del Rinascimento. Accanto a queste non va dimenticata anche la mostra 1938, l’Umanità negata, dedicata al dramma delle leggi razziali, che completa il racconto di duemila anni di storia ebraica.
Fuori dalle moderne sedi del museo, parte di questa lunga storia è comunque rintracciabile anche percorrendo le vie di Ferrara. In particolare, tornando nel quartiere del ghetto, in quello che oggi viene considerato un luogo dell’anima per l’intera cittadinanza ma che per quasi due secoli ha rappresentato invece uno spazio di costrizione. Istituito nel 1627, con Ferrara ormai annessa allo Stato della Chiesa e non più protetta dagli Estensi, dopo che Cesare era morto nel 1597 senza lasciare figli maschi, il ghetto finì col chiudere l’area dove già si concentrava la vita ebraica dell’epoca, nei pressi del Duomo. Lo fece istallando cinque cancelli, due alle estremità di via dei Sabbioni (oggi via Mazzini), due agli incroci di via Vignatagliata con via Contrari da una parte e con via del Travaglio (oggi via San Romano) dall’altra e un ultimo all’incrocio dell’attuale via Vittoria (già via Gattamarcia) con via Ragno. Tolti e rimessi per due volte, seguendo le vicende dello stato papale, questi cancelli furono eliminati definitivamente nel 1848.
Le vie non hanno invece subito sostanziali cambiamenti, almeno dal punto di vita del tracciato. Per attraversare più di tre secoli di storia basta dunque percorrere via Mazzini, un tempo arteria principale del quartiere, e rivivere idealmente alcuni degli episodi cruciali della vita ebraica ferrarese. All’imbocco della via, ad esempio, alle spalle del Duomo, si trova l’oratorio di San Crispino, luogo nel quale da fine Seicento gli ebrei erano costretti ad assistere a prediche coatte che avrebbero dovuto portarli alla conversione al cristianesimo. Prima di allora, queste celebrazioni si tenevano più lontano dal ghetto, nella cappella ducale del palazzo comunale, accanto al castello. Le avrebbero poi spostate più all’interno per evitare agli ebrei le invettive del popolino che li aggrediva lungo il percorso.
La caratteristica vocazione commerciale della via, rimasta inalterata nei secoli, è ancora oggi evidenziata dall’infilata di negozi che si affacciano sulla strada pedonale e che un tempo comprendevano indirizzi di riferimento per la comunità come ad esempio la pizzicheria di Nuta Ascoli. Specializzata in delizie kosher come le buricche e il caviale del Po, la donna ha gestito la sua attività fino al 1941 ed è stata ricordata con il falso nome di Betsabea da Fano anche da Bassani in quella che può essere considerata la guida letteraria per eccellenza per la città, Il giardino dei Finzi-Contini.
Tornando ai palazzi della via, pare che questi nascondessero cunicoli e passaggi segreti che permettevano agli abitanti del ghetto di raggiungere la sinagoga senza scendere in strada. Il tempio si trovava presso l’edificio comunitario al 95 della stessa via Mazzini. Acquistato nel 1485 dal romano ser Shemuel Melli, comprendeva tre sinagoghe, quella di rito italiano, quella di rito tedesco e la Scola Fanese. Devastate da fascisti e nazisti, le tre sinagoghe hanno anche subito i danni del terremoto del 2012. Oggi la Scola Italiana (la cui descrizione si può trovare nel romanzo di Bassani) è stata convertita a uso sociale e conserva due preziosi aron. La Scola Tedesca è invece la più grande in uso. Vi si accede da un piccolo atrio ed è illuminata da cinque finestre. Sul lato sinistro si possono ammirare dei medaglioni a stucco con illustrazioni allegoriche tratte dal Levitico, realizzate da Gaetano Davia, lo stesso artista che ha firmato le decorazioni del Teatro Comunale. L’altra sinagoga in uso è la Scola Fanese, decorata con stucchi e illuminata da grandi finestre. Presenta un notevole pulpito ottocentesco e due troni di marmo.
Uscendo dall’edificio, due lapidi ricordano la tragedia della Shoah, con i nomi dei 96 ebrei ferraresi deportati nei campi di sterminio nazisti tra il 1943 e i 1945. Anche qui, è inevitabile il riferimento alle opere del già citato scrittore ferrarese, in questo caso del racconto La lapide di via Mazzini, in cui si parla di un ex deportato ormai creduto morto il cui nome è stato inciso nel marmo e il cui ritorno a casa suscita più insofferenza che gioia.
Sempre percorrendo le vie dell’ex ghetto, ci si può rendere conto del dramma della reclusione osservando il retro delle costruzioni di via Mazzini affacciate su una via che non fa parte del quartiere. Le finestre di questi palazzi non potevano aprirsi sulla strada esterna al ghetto, quindi erano state murate o comunque chiuse da inferriate come quelle della stessa sinagoga, all’altezza del 54 e del 56 di via Contrari.
Proseguendo la visita del centro storico, lasciando via Mazzini si imbocca via Vignatagliata, con la laterale via Vittoria, altra arteria fondamentale per il ghetto. Qui i palazzi in mattone non hanno botteghe al piano terra e vi si riconoscono diversi importanti edifici legati alla storia della comunità. Al numero 33 di via Vignatagliata si trova il luogo in cui aveva vissuto il rabbino Isacco Lampronti, a cui è intitolata poco più in là anche la piazzetta all’incrocio con via Vittoria. Proseguendo la passeggiata sull’acciottolato, al 79 si individua il punto in cui a metà Ottocento erano stati istituiti l’asilo e la scuola ebraica. Pure qui è inevitabile il pensiero a Giorgio Bassani, ex insegnante dell’istituto e qui ricordato da una targa. Prendendo invece via Vittoria, al 39 si può vedere dove sorgeva la casa di riposo per anziani intitolata ad Allegrina Cavalieri Sanguinetti, molto conosciuta all’interno del mondo ebraico per la sua gestione modello.
Uscendo dal ghetto, ma non dalle testimonianze ebraiche, è inevitabile la visita al Duomo. Davanti alla cattedrale, l’arco di accesso alla piazza del Municipio, noto come Volto del Cavallo, è ornato da due colonne con statue. Una di queste, detta di Borso d’Este, è chiamata anche colonna ebraica, per quanto gli ebrei avrebbero fatto volentieri a meno di fornire questo contributo ai monumenti locali. Risalente al 1452, la colonna fu danneggiata da un incendio e restaurata nel 1716 utilizzando come marmo antiche lapide trafugate dai cimiteri ebraici. Scoperta la cosa in tempi più recenti, la comunità si sarebbe offerta di occuparsi del rifacimento a proprie spese pur di recuperare le pietre, ma queste furono invece levigate e murate per sempre.
Poco distante, in corso Martiri della Libertà, sul muro che costeggia il Castello Estense si trovano invece quattro lapidi bene evidenti. Sono quelle che ricordano una pagina nera della storia ferrarese, l’eccidio fascista del 15 novembre 1943 in cui furono fucilati undici antifascisti tra cui quattro ebrei. L’episodio è stato ricordato da Bassani in un suo racconto, Una notte del ’43, poi ripreso dal regista Florestano Vancini nel film La lunga notte del ’43.
Ultima tappa del tour nella Ferrara ebraica non può che essere il cimitero di via delle Vigne. Acquisito ufficialmente dalla comunità nel 1626, ma probabilmente già in uso nel Quattrocento, si presenta ai visitatori con un portale di ingresso in granito realizzato nel 1911 su disegno dell’architetto Ciro Contini. Appartenente a un’antica famiglia della borghesia ebraica ferrarese, Contini è stato autore tra l’altro della prima redazione, tra il 1911 e il 1913, di un Piano regolatore e di ampliamento della città, oltre che di importanti edifici cittadini, privati e a uso industriale, caratterizzati da quello che era stato definito lo stile “floreale estense”.
Una volta all’interno del misterioso “orto”, vi si distingue una parte antica, caratterizzata da ampi prati e dalle poche lapidi superstiti dalle razzie dell’Inquisizione. La parte più moderna, con i settori dell’Otto e Novecento, presenta invece affascinanti tombe di famiglia di valore artistico, tra cui quella dei Magrini, modello per stessa ammissione di Bassani per i Finzi-Contini del romanzo. In questo cimitero, in una zona appartata, si trova infine anche il monumento che il Comune di Ferrara ha dedicato allo stesso scrittore, frutto della collaborazione tra l’architetto Piero Sartogo e lo scultore Arnaldo Pomodoro.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.