La recensione al libro edito da La nave di Teseo
“Io che conoscevo libri di poesie a memoria, ad Auschwitz non ne ricordavo neppure una. Mi sono scappate di mente tutte le cose belle, come non fossero mai esistite. Anche le canzoni ho dimenticato, ne sapevo tante, e le cantavo pure, cantavo sempre, o leggevo. La poesia, la bellezza deve avermi abbandonato di colpo, all’arrivo ad Auschwitz”. Così scrive Edith Bruck nella sua Lettera alla madre, appena uscita per La nave di Teseo. Un centinaio di pagine in cui Bruck ripercorre il suo rapporto con lei, il suo essere figlia, il suo essere orfana. Si sono separate alle camere a gas di Auschwitz, Edith è sopravvissuta insieme alla sorella Golda, giovanissime, poco più che ragazzine. E ora scrive alla madre, donna pia, credente, povera, poverissima, con tanti figli, poco cibo e niente soldi. Distratta, assente, dura, per niente materna, la rimproverava per quelle sue letture poetiche che forse ai suoi occhi la allontanavano da Dio, ma ora ascolta le parole della figlia. Che prende coraggio, che sceglie di raccontarsi proprio a lei, morta, senza memoria, senza presente, ma ancora presente nel suo cuore.
La lettera procede lungo piani temporali diversi, c’è un presente, più o meno dilatato, in cui Edith scrive, da Roma, dalla sua casa, c’è un passato lontano, di lei bambina, c’è Auschwitz, c’è il dopo. C’è l’incontro con Gabriele, con l’amore: “Quando conobbi Gabriele, non te la prendere, mamma, lo amavo già prima di sapere il suo nome, la sua religione poi! Per me poteva essere anche maomettano invece che un laico non battezzato, per me era perfetto così com’era. Era un uomo. Dall’aspetto ferito. Un poeta.
Gli era familiare anche Auschwitz. I poeti sono come i profeti”. E poi aggiunge: “Vivere con un non credente, mamma, al contrario di quello che pensi, e pensavo anch’io un tempo, era come vivere con un eremita. Un giusto. Un esempio morale. Un francescano che parlava anche con un topo smarrito nella nostra prima casa. Parlava anche con le formiche lungo il muro dello zucchero”.
C’è il mondo, prima della Shoah, quel tempo breve che l’ha preceduta, con l’interrogativo alla madre, terribile, senza scampo, su quello che sarebbe accaduto di lì a breve: ne aveva la consapevolezza? “I nostri ultimi anni a casa cos’erano se non l’anticamera di Auschwitz? Un altro po’ di propaganda fascista, un altro po’ di disprezzo della Chiesa e nessuno avrebbe salvato più quel povero vecchio Roth aggredito al ritorno dalla sinagoga da ragazzi poco tempo prima normali, carini, uguali agli altri, né amici né nemici”. A darle una visione di quel futuro che stava diventando presente è quella che veniva considerata la pazza: “Irma, la nostra pazza, mi aveva detto che ai morti Iddio strappava gli occhi per vedere meglio, lo stesso tremendo giorno mi aveva annunciato che per gli ebrei stava arrivando la fine del mondo, io mi sarei salvata ma tu no. […] Poi avevo dimenticato la sua previsione, come si dimentica ciò che dice la chiromante. […]
Possibile che non sapevate niente? Ve lo negavate, come hanno fatto i tedeschi dopo la guerra, che non sapevano cosa stava succedendo dietro l’angolo della loro casa, sotto la loro finestra, sotto i loro occhi!”
La vita scorre lungo queste pagine di riflessione profonda sulla fede, sull’ebraismo, su Dio, sui boia, sui loro figli, sulla sofferenza, sull’identità, sull’amore, sull’orgasmo, sulla vita e sulla morte. Per concludersi con la preghiera dedicata alla madre, che non c’è più: un kaddish. Sì, pronunciato da lei, figlia femmina, dopo una lunga preghiera laica, che in fondo è un modo per fare i conti con la propria storia. Uno spaccato denso, bellissimo, una radiografia, quasi, di Edith Bruk.
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.