La recensione al volume di Peter Schäfer, pubblicato dall’editore Donzelli
Il giorno della Memoria, recita il testo di legge del 31 luglio 2000, è istituito dalla Repubblica italiana, nella data in cui ricorre l’anniversario dell’abbattimento da parte dell’Armata Rossa dei cancelli di Aushwitz, “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. L’oggetto della ‘memoria’ è dunque definito in modo specifico. Nondimeno il riferimento “agli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte” pone il collegamento alle persecuzioni verso altre minoranze o verso oppositori politici laddove il richiamo alle “leggi razziali” richiama l’attenzione al preludio storico-giuridico della persecuzione fisica. Da una parte il problema di collocare – senza diluirne i tratti specifici – la persecuzione e lo sterminio della popolazione ebraica nel contesto specifico del nazifascismo imperante in Europa e, da qui, di rinnovare nella coscienza di ciascuno i principi fondativi delle democrazie che dalla fine del conflitto sorsero. Dall’altra il problema di collocare la Shoah nello specifico corso dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo.
Proprio da questo ultimo punto di vista è dunque di particolare interesse l’uscita per Donzelli del nuovo volume di Peter Schäfer Storia dell’antisemitismo. Occasione per elaborare una memoria di respiro più ampio. Soprattutto, occasione per uscire dall’idea, che può avere un risvolto consolatorio, secondo cui l’antisemitismo si determini solo da ignoranza, magari relegandolo a fenomeno del volgo. Certo, è di tutta evidenza che l’ignoranza non giovi, costituendo terreno fertile per il fiorire di superstizioni e la proiezione delle paure, proprie ad ogni essere umano, su un oggetto o entità se non ignota comunque differente. Tuttavia l’antigiudaismo e l’antisemitismo (vedremo perché per Schäfer i due termini vadano assieme) si è coniugato a determinate forme del pensiero, della cultura più elevata, della teologia più raffinata, venendo ad un tempo ad esprimersi e ad essere corroborato da una determinato modo di intendere la società, la sua architettura giuridica.
Di contro a chi, con certo buoni argomenti, tende a distinguere antigiudaismo (o antigiudaismi: da quello greco-romano a quello cristiano) e antisemitismo (dove l’asse del pregiudizio e dell’ostilità si sposta sul piano cosiddetto ‘razziale’), l’Autore individua nell’antigiudaismo di epoca ellenistica la matrice prima di quel fiume carsico che, alimentandosi nel corso delle sue riemersioni storiche di nuovi e differenti ragioni di ostilità, porterà alla pianificazione del genocidio del popolo ebraico per mano del fascismo tedesco. Elemento cardine di ciò che Schäfer definisce, sapendo con ciò di incorrere in un anacronismo, “antisemitismo” del mondo classico era la percezione degli ebrei come di un “popolo avverso alla grande ambizione dell’ellenismo di rappresentare l’intero mondo […] per mezzo della sua opera di civilizzazione […]. Gli ebrei non erano barbari ai margini e al di fuori dell’ecumene ellenistica: essi vivevano al cuore stesso dell’ecumene, eppure erano ‘diversi’”.
Balzano agli occhi alcuni elementi che non cesseranno di interessare l’antisemitismo. Anzitutto, la connotazione negativa di un elemento che, di per sé, è proprio all’ebraismo, ossia la rivendicazione – sullo sfondo della nozione universale del monoteismo – a mantenere una propria distinta identità. Volontà recepita, come mostrerà l’Autore con riferimento ad alcuni autori del mondo classico, come segno di “misantropia”, di odio verso la comune umanità. In secondo luogo la nostra attenzione è richiamata sul fatto che tale ostilità viene, per l’appunto, da popoli ed autori che sono stati alla base della cultura e della civiltà dell’Occidente. Manifestazione eclatante di tale aspetto si avrà con l’imperatore Adriano: figura raffinata della cultura latina, e che molti di noi hanno imparato ad apprezzare dalle righe di Yourcenar e che, pure, fu l’alfiere della più terribile repressione – politica, certo, ma al contempo culturale – nei territori della Giudea. Ciò che viene intesa come “l’opposizione degli ebrei” all’ “integrazione” – scrive l’Autore a partire da una riflessione sulla Meghillat Esther che, pur ambientata nel periodo persiano, è permeata “dal nuovo Zeitgeist ellenistico” presentandosi come “il documento più antico in grado di fornire spiegazioni sul tema dell’antisemitismo” – si presenta, agli occhi dei greci come dei romani, come rescissione del “patto sottoscritto dagli uomini nell’interesse della civile convivenza”, presentando così gli ebrei come “colpevoli di un crimine nei confronti dell’uomo”. Il crimine, appunto, di restare differenti o, diremmo oggi, di non assimilarsi. Distinzione incomprensibile, per gli alfieri della civiltà, che viene dunque presentata come espressione di superstizioni, di modi di vivere assurdi e irrazionali nonché – ad uno stesso tempo – come forma di ostilità verso il genere umano, come minaccia per la tenuta, l’unità e l’identità, dell’assetto politico e sociale.
Così, nelle riletture fornite dal sacerdote egizio Manetone e dallo storio greco Diodoro Siculo dell’Esodo degli ebrei dalla terra d’Egitto, gli ebrei sono esseri “impuri” che “diffondono malattie terribili come la peste”. Veicolo di “empietà, misantropia e xenofobia”, gli ebrei vengono percepiti, a partire dall’Egitto ellenistico fino alla Roma imperiale, come un pericolo tanto per il corpo fisico (nella siria-palestina seleucide l’accusa di misantropia si preciserà in quella di “sacrificare e mangiare uomini”) quanto per quello sociale. Così se Tacito nel suo Historiae descrive il modo di vivere degli ebrei come “assurdo e ignobile (absurdus sordidusque)”, riconoscendoli quali portatori di un “odio ostile (hostile odium)” nei confronti di “tutti gli altri uomini”, nel mondo latino si aggiunge un nuovo motivo di ostilità, dato dalla convinzione che gli ebrei costituirebbero una minaccia “alla stabilità dell’impero di Roma”.
È dunque nel periodo classico che si sarebbero cristallizzati gli elementi che forniranno l’impalcatura, scrive l’Autore, “dell’antisemitismo futuro”. Nondimeno, come noto, l’avvento del Cristianesimo, in particolare allorché divenne prima religione dell’Impero e poi religione egemone nell’Occidente, costituirà lo scenario inedito – in quanto interno alla cornice del monoteismo – per l’emergere di nuovi argomenti nella polemica, prima, e nell’ostilità, poi, verso il popolo ebraico; argomenti che, seppur differenti nella loro origine, finiranno gradualmente con il legarsi e fondersi con quell’ibrido di paura e ostilità che aveva reso la distinzione del popolo ebraico, la sua alterità, come inequivocabile segno di “misantropia”.
In effetti, nonostante il mutare della scena culturale e religiosa, il problema di fondo pare restare quello della distinzione e, potremmo osservare, della difficoltà a concepire la comune umanità non già attraverso l’identità ma facendo i conti con la pluralità, l’alterità. La divergenza di letture e approcci alla Torah viene via via a scavare una netta linea di demarcazione tra chi, i cristiani, attraverso il procedimento dell’allegoresi, saprebbero coglierne l’autentico senso, superando in nome dello ‘spirito’ i limiti della legge e aprendone il messaggio alle genti, e chi, gli ebrei, “figli delle tenebre” (Vangelo di Giovanni) si collocherebbero, a causa di un approccio ritenuto letterale e formalista, “al di fuori del patto condiviso dell’umanità civilizzata”, come Schäfer nota a commento delle posizioni del padre della Chiesa, Crisostomo. Se dunque in quest’ultimo, come in altri, “riecheggia la vecchia accusa degli autori pagani dell’antichità”, è tuttavia indubbio che nel Cristianesimo, a causa della sua genesi, il popolo ebraico rappresenta piuttosto una “spina nel fianco” andando così ad accentuare, sotto nuove luci teologiche, quel senso di alterità interna, di distinzione laddove si vorrebbe l’identico e l’uniforme. Un aspetto cui Agostino fornirà una risposta in qualche modo rivoluzionaria poiché portata a giustificare la persistenza del popolo ebraico quale “testimonianza” vivente della veridicità del messaggio cristiano. Giustificazione che, per sussistere, deve mantenere il popolo ebraico in una condizione di subalternità. Si intravede così il nesso tra aspetti ermeneutici, apparentemente astratti, e le fin troppo concrete norme che a partire dalla “legislazione ecclesiastica” verranno via via ad informare quella “statale” indicando, pur con contraccolpi, la via nell’ “allontanamento dalla vita pubblica e sociale” degli ebrei. Una via tracciata a partire da Teodosio e che con il Codex Justinianus, “base per tutta la successiva giurisprudenza in Europa”, si districherà lungo i secoli trovando un arresto – che si pensava, prima dell’avvento del nazismo, definitivo – solo con l’Emancipazione portata dalla Rivoluzione francese. Nel medioevo, dunque, “l’ebreo, andando oltre la consueta posizione di suddito, diventa proprietà del governante”, sotto sua tutela – nei casi migliori – comunque e sempre sotto sua dipendenza. Così Giovanni Senzaterra, “il quale nella Magna Carta fu costretto a garantire alla nobilita le libertà fondamentali, parla degli ebrei come di ‘nostra esclusiva proprietà’, o li definisce come ‘il nostro bene mobile”. L’accusa di voler rimanere distinti, altri – variamente permutata dall’ambito ellenistico a quello cristiano – viene così a risolversi sul piano giuridico, con apparente paradosso, nelle diverse forme di esclusione, limitazione o, comunque, subalternità al sovrano. Il paradosso, vorremo qui osservare, è appunto apparente dacché è la difficoltà a pensare il comune – la comune umanità o il convivere sociale – attraverso l’alterità e la pluralità a portare a inchiodare chi incarna questa alterità a una condizione di minorità giuridica. Ancora una volta, la difficoltà a fare i conti con un popolo che preserva la propria identità, pur sempre – come le fonti della Tradizione indicano – volendo partecipare al benessere della società in cui si trova e a rispettarne le norme, porta a percepire tale distinzione come espressione di “odio” verso la collettività e come incombente minaccia. Le accuse di epoca classica trovano così nuovo terreno per inverarsi. Gli ebrei vengono “ritenuti responsabili di ciò che non si può spiegare” in un processo di disumanizzazione che permette di accusarli di “avvelenare i pozzi”, di bramare il sangue di bambini cristiani o, come emerge dalle motivazioni arrecate all’editto di espulsione dalla Spagna cristiana del 1492, di costituire minaccia all’unità della nazione.
Mentre, secondo l’Autore, nel mondo arabo di dominazione islamica la condizione di ‘protetto’ (e quindi, comunque, di minorità giuridica) si accompagnerebbe a una maggiore capacità da parte della cultura egemone di convivere con la minoranza ebraica – un aspetto che pare anche eccessivamente accentuato dall’Autore, che non fa i conti, per non fare che un esempio, con le persecuzioni degli Almohadi nell’Andalusia – l’intersezione tra i motivi dell’antigiudaismo ellenistico e cristiano sembra compiersi con Lutero. Schäfer, in ultimo respingendo l’ipotesi che l’ostilità verso gli ebrei di Lutero fosse stata dettata dalla delusione per la mancata conversione alla nuova versione di cristianesimo da lui proposta, mette piuttosto in luce come in Lutero alla nuova accusa di tenore ermeneutico-teologico – ora gli ebrei sono accusati non già di tenere un approccio letterale al testo biblico, bensì di falsificarne la lettera – si aggiunga la ripresa esplicita della vecchia accusa della “presunta profonda misantropia ebraica” portando in auge un argomento che, al di là delle considerazioni storiche, sarà centrale nella retorica nazista, ossia l’idea che la loro stessa presenza costituisca un elemento parassitario, nocivo per il popolo. Così, come noto, nel suo famigerato libello, Lutero inviterà a bruciare le sinagoghe sentenziando che “anche le loro funzioni religiose sono da proibire, ‘pena la perdita del corpo e dell’anima”. Il processo così descritto non è, certo, lineare, e da più parti si è fatta presente l’importanza di non esaurire la storia ebraica in storia delle persecuzioni. Esempio paradigmatico, e analizzato nel volume, ne era stato il Rinascimento. Tuttavia, non fosse che per via dell’oggetto di studio del saggio, costituito appunto dal ricostruire l’antisemitismo, quale categoria ritenuta capace di render ragione di fenomeni storici tra loro disparati, l’attenzione andrà sugli elementi di attrito. Così la stessa Emancipazione portata dalla Rivoluzione francese, non metterà in ombra né la reiterazione presso i filosofi dell’Illuminismo dei diversi stigmi né il fatto che l’uguaglianza giuridica, l’accesso alla piena cittadinanza, si accompagnò alla richiesta di rinunciare al proprio carattere ‘nazionale’ distinto, sollecitando una difficile declinazione dell’ebraismo in ‘confessione’. Come che sia, è chiaro che fu, questa, un’inversione di rotta, sul piano giuridico nonché di percezione culturale, sino ad allora inedita nella storia, aprendo all’idea di una cittadinanza che non distingueva per origine e religione.
Un modello antitetico a quello che si sarebbe delineato nel pensiero, prima, e nella prassi, poi della futura Germania. Nel pensiero, a partire dalla definizione di Fichte del popolo ebraico come “Stato nemico dentro lo Stato” che oltre a costituire, come osserva Schäfer, il presupposto per il riaccendersi della mai del tutto sopita idea di un ‘complotto ebraico’, sembra restituire anche l’antitesi dell’idea di nazione fondata sull’uguaglianza di ciascun cittadino. L’antisemitismo si sarebbe vieppiù nutrito di quelle che erano, allora, idee variamente recepite in ambito accademico: dalla distinzione filologia tra lingue semitiche e ariane alla distinzione “pseudoscientifica” tra razze (in tema può esser utile rimandare al testo edito per Cortina nel 2012 La sacra causa di Darwin ove si mette in evidenza come ciò che oggi definiamo razzismo fosse penetrato in ambito scientifico). Nella prassi. Già nel 1912 Heinrich Claß avrebbe scritto che “a noi interessa salvare l’anima del popolo tedesco” laddove “per raggiungere l’obiettivo della guarigione del popolo tedesco e della sua liberazione dall’infiltrazione dell’elemento straniero ebraico” si poneva la necessità sottoporre gli ‘ebrei residenti’ alla ‘legislazione per stranieri’. L’antica accusa di costituire, in quanto gruppo distinto eppure interno e pienamente partecipe della società circostante, una minaccia all’identità di un impero o, infine, del genere umano come tale, viene reiterata nel contesto del nazionalismo tedesco individuando negli ebrei un fattore intrinsecamente distruttivo della coesione nazionale, vuoi in quanto lunga mano del bolscevismo o della finanza, vuoi in quanto presentati come intrinsecamente – biologicamente – nocivi al benessere di ciò che viene ormai definita razza ariana. Quelle che oggi appaiono come affermazioni grottesche sarebbero di lì a poco, nel cuore dell’Europa civilizzata, divenute matrici di normativa. Se Hitler poteva affermare che “la particolarità degli ‘ariani consiste nella spiccata consapevolezza di dover adempiere al proprio dovere e nel loro essere pronti a servire la comunità’” – dove a “contraltare di questa immagine radiosa dell’ariano” si poneva l’ebreo che “alla maniera di bacilli dannosi” si baserebbe sul “nudo istinto dall’autoconservazione dell’individuo” –, all’indomani dell’esautoramento di fatto del parlamento queste stesse righe avrebbero informato le cosiddette leggi di Norimberga del ’35. Si trattava della legge sulla cittadinanza del Reich e della legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco atta a distinguere “tra ‘cittadini’ con diritti minori e ‘cittadini del Reich a tutti gli effetti’”, dove “cittadino del Reich è soltanto l’appartenente allo stato di sangue tedesco o affine, il quale con il suo comportamento da prova di essere disposto e adatto a servire il popolo e il Reich tedesco”. Aggiunta, quest’ultima, che pare quasi richiamare all’Aktion T4 volta alla soppressione pianificata, in nome dell’‘igiene della razza’, di soggetti afflitti da diverse forme di malattie, mentali e non, o giudicati anormali. L’antisemitismo veniva così a saldarsi con un progetto totalitario che, in quanto tale, necessariamente tanto investiva la vita della popolazione ‘ariana’ – a partire dall’esaltazione della sua forza – quanto richiedeva di mortificare ed escludere dalla vita sociale la popolazione ebraica. Dalla persecuzione giuridica a quella fisica il passo sarebbe stato breve e il contesto bellico – a partire dall’invasione dell’Est Europa – avrebbe fatto il resto, sino alla programmazione dello sterminio dell’intera popolazione ebraica.
Solo l’avanzata dell’Armata Rossa, della guerra partigiana e degli Alleati avrebbe impedito il compiersi dello sterminio. La storia dell’antisemitismo, come illustra Schäfer, si protrae sino all’oggi, inserendosi nella retorica antisionista (le posizioni dell’Autore in merito sono discutibili, ma hanno il merito di non eludere la questione) e chiedendo del nostro dovere non solo rispetto alla riattivazione della memoria nel giorno a questa dedicato, ma anche delle lezioni da trarne nel quotidiano. Quasi a chiederci di fare i conti con due imperativi. Non dare una vittoria postuma a Hitler: l’esortazione del filosofo Fackenheim, di cui ha parlato Massimo Giuliani su queste pagine, e che si traduce nel dovere di restare ebrei, non solo di sopravvivere, ma di esistere come tali, dovere per il cui assolvimento la rinascita della sovranità ebraica con lo stato di Israele gioca un ruolo imprescindibile. Il dovere, come ebrei e cittadini, di custodire quel paradigma di cittadinanza che, erede ideale dell’uguaglianza inaugurata dalla Rivoluzione francese, pone dei limiti invalicabili al potere politico ricordando, con la prima parte dell’articolo 3 della Costituzione, che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione; attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.