Storia e interpretazione di una mitzvà particolare, la Netilat yadayim
Racconta il Talmud di quando rabbi Aqiva giaceva in prigione, detenuto dai romani. I suoi discepoli ogni giorno andavano a trovarlo, portandogli viveri e acqua. Ma un giorno la guardia della prigione fermò rabbi Yehoshua haGarsi, che stava portando il necessario per sopravvivere al maestro, lo perquisì e gli intimò di non introdurre tutta l’acqua che aveva portato per evitare il rischio che il prigioniero la usasse per cercare l’evasione ammorbidendo le pareti della cella. Così Yehoshua fu costretto a versare metà dell’acqua che aveva con sé. Quando entrò nella cella, rabbi Aqiva vide che aveva con sé poca acqua e lo rimproverò: “Yehoshua, non sai che sono vecchio e la mia vita dipende dalla tua? Nessuno oltre a te mi porta dell’acqua, se però tu stesso ne porti meno del necessario la mia vita è in pericolo”. Allora Yehoshua raccontò dell’ordine della guardia. Aqiva ascoltò e al termine si fece porgere la poca acqua e la usò per lavarsi le mani. Rabbi Yehoshua lo guardò con stupore: “L’acqua che ti ho portato non basta forse neanche per placare la sete, come può bastare se la usi anche per lavare le mani?”. E il maestro: “Non ho scelta. Se trasgredissi l’ordine dei saggi e mangiassi senza prima aver lavato le mani meriterei la pena di morte. In ogni caso è meglio morire di sete che trasgredire i dettami dei nostri predecessori, che stabilirono che ciascuno debba lavare le mani ogni volta che si accinge a consumare un pasto”.
La storia di rabbi Aqiva e rabbi Yehoshua sottolinea la centralità della mitzvà della netilat yadayim, l’obbligo cioè di lavare le mani più volte ogni giorno in momenti determinati a cominciare dal risveglio e prima dei pasti. È un’azione simbolica e insieme concretissima affermata non solo come pratica igienica – la cui validità comprendiamo oggi, dopo due anni di pandemia, forse meglio che in qualsiasi altro momento storico – ma come norma giuridico-religiosa. Nel racconto rabbi Aqiva porta questo obbligo alle estreme conseguenze, non volendo rinunciare a esso, a quanto sembra, addirittura a rischio della vita. Potrà dunque stupire, a questo punto, constatare che della mitzvà della netilat yadayim nella Torà non c’è menzione. Ma allora quando è stata introdotta? Da chi? E soprattutto perché?
È lo stesso Talmud, nel trattato Berakhot, a constatare l’assenza della mitzvà nella Torà secondo la massima della scuola di Hillel: “La netilat yadayim per l’alimentazione generica non deriva dalla Torà”. La tradizione rabbinica d’altra parte ha scandagliato la Torà alla ricerca, se non di chiari riferimenti, almeno di tracce e accenni al lavaggio delle mani. Un riferimento al lavaggio specifico delle mani e dei piedi è presente nel libro di Shemot/Esodo, in cui la pratica viene prescritta ai (soli) kohanim, i sacerdoti addetti al servizio quotidiano nel Tempio di Gerusalemme. Cenni alla pulizia delle mani sono rintracciabili nei salmi 26 (“laverò le mie mani affinché siano pulite e girerò intorno al tuo altare, o Signore”) e 73 (“ho mantenuto puro il mio cuore e mi sono lavato le mani perché fossero pure”). Nel Tanakh non c’è sostanzialmente altro. Va detto che il libro di Wayqrà/Levitico dedica ampio spazio all’impurità e alle norme di purità, dove però impurità e purità sono sempre riferite all’intero corpo e non alle sole mani. Quando si è impuri, spiega la Torà, si può recuperare la purità con l’immersione completa del corpo in un miqvè, una vasca dedicata allo scopo. Non meno importante, la Torà distingue diversi gradi di impurità, dove il più alto è rappresentato dal “padre dei padri dell’impurità”, il cadavere. Per quanto riguarda i cibi, la normativa distingue in base ai tre livelli di qodashim (cibi sacrificali), terumà (offerte) e chullin (cibi generici), connotati dalla richiesta di un grado di purità decrescente. I primi due livelli sono vincolati all’esistenza del Tempio e vengono meno dopo la sua distruzione.
L’impurità delle mani isolata da quella che riguarda il corpo nella sua interezza è quindi concetto sviluppato non nella Torà scritta, ma in quella orale. Emerge cioè nel secolare dibattito di cui sono protagonisti non i sacerdoti ma i rabbini sia in epoca ellenistica e del secondo Tempio, sia in quella delle accademie successiva alla sconfitta militare subita da parte romana prima nel 70 e poi nel 135 e.v. In questo dibattito sugli usi e le tradizioni – quello che viene abitualmente definito mishnà, legge orale – vengono introdotti elementi nuovi che riguardano la purità e l’impurità specifica delle mani. La Mishnà riporta le discussioni sui gradi di impurità da cui possono essere affette le mani anche quando il resto del corpo non è considerato impuro e stabilisce che le mani siano nella presunzione di un certo grado impurità anche quando il corpo non lo è. Per rabbi Yehoshua una mano impura basta a rendere automaticamente impura anche l’altra.
Dunque quando è stato introdotto l’obbligo della netilat yadayim? Certamente si è trattato di un processo lungo e difficile da ricostruire, di cui restano però tracce nel testo talmudico. Un passo lo riferisce all’epoca dei discepoli di Hillel e Shammai, negli anni di poco precedenti la sconfitta del 70 e.v. Una seconda opinione arretra invece la decisione di rendere obbligatorio per tutti il lavaggio delle mani agli stessi Hillel e Shammai (I secolo a.e.v.). Una terza opinione, quella di rabbi Yehuda a nome di rabbi Shemuel, riportata subito dopo il racconto sulla prigionia di rabbi Aqiva, arretra ancora, giungendo ad attribuire l’istituzione della netilat yadayim addirittura a re Salomone. Poi il Talmud, dopo aver presentato le tre opinioni, le unisce in una sintesi. Re Salomone avrebbe stabilito l’impurità delle mani – e quindi l’obbligo della netilat yadayim – per i cibi sacrificali (qodashim); molti secoli più tardi Hillel e Shammai estesero l’impurità alle offerte (terumà), ma la loro decisione non venne applicata fino alla generazione dei loro discepoli.
Perché introdurre un precetto specifico riferito al lavaggio delle mani? Perché attribuire proprio alle mani una impurità particolare? Qui la risposta del Talmud è tutto sommato chiara: le mani, spiega il trattato Shabbat, sono asqaniot, sono cioè occupate continuamente in tante faccende, in movimento e a contatto con ogni genere di cosa. Sono la superficie principale attraverso cui avviene la relazione tra il corpo umano e il mondo circostante, l’intermediario per eccellenza. Ancora una volta, non possiamo non pensare alle abitudini che abbiamo imparato ad adottare da quando, due anni or sono, una pandemia imprevista ha sconvolto le nostre vite. A questo la tradizione rabbinica attribuisce tanta importanza da farne una mitzvà speciale applicata non soltanto ai cibi della liturgia del Tempio di Gerusalemme, ma anche a quelli generici. Nel trattato Chullin del Talmud viene riportata l’opinione di rav Idi bar Aviv a nome di rav Yitzhak bar Ashiyan: “La netilat yadayim per i cibi generici (chullin) è per l’abitudine alla terumà (cioè la purificazione dei cibi offerti al Tempio) ed è per mitzvà”. La spiegazione standard del passo è quella presentata dall’autorevole commentatore medievale Rashi, secondo cui indica che, poiché è obbligatorio per i sacerdoti lavare le mani prima di mangiare terumà (offerte), per abituarli si impone l’obbligo del lavaggio delle mani anche per i cibi generici e lo si estende a tutto il popolo. La mitzvà dunque si estende in due direzioni, allargandosi a comprendere non i soli cibi legati ai culti sacrificali ma tutti e riguardando non i soli sacerdoti ma tutto il popolo. Lascia perplessi che la mitzvà prenda questa forma proprio nel periodo in cui, con la rovina del Tempio, vengono meno i sacrifici e i sacerdoti sostanzialmente scompaiono come gruppo separato. Se il precetto viene fissato in base a un principio di educazione, che senso ha farlo quando viene meno il rischio che i sacerdoti si confondano perché non c’è più il Tempio e i suoi riti?
Perché la netilat yadayim viene introdotta così tardi e, quando viene introdotta, con tanta decisione e precisione? Come abbiamo visto, secondo il Talmud neppure Hillel e Shammai, per una volta incredibilmente d’accordo sull’istituzione della mitzvà (anche se poi si dividono su molti dettagli applicativi), riescono a imporla e il precetto viene adottato solo dai loro discepoli qualche tempo dopo, nel I secolo e.v., a ridosso della distruzione del Tempio. Allo stesso tempo, i rabbini di epoca talmudica sottolineano con vigore l’importanza di questa mitzvà, come mostra il racconto esemplare su rabbi Aqiva e la minaccia di cherem (esclusione, cacciata) per chi osasse trascurare l’obbligo. Cherem che, stando al trattato Eduyiot, viene applicato contro un certo Elazar ben Chanoch, ritenuto colpevole di mancare di rispetto alla mitzvà. Secondo un’ipotesi condivisa tra gli altri dal rabbino Michael Ascoli, la netilat yadayim non solo non viene meno ma al contrario si impone in concomitanza con la fine del Tempio e dei suoi riti perché rimane una delle poche mitzvot di purificazione possibili per dare un senso di santità ai cibi di consumo quotidiano e, allo stesso tempo, mantenere il ricordo delle regole di purità ormai non più applicabili. Se accettiamo questa lettura, ci troviamo di fronte a un esempio di resilienza culturale con cui una collettività reagisce a un momento di sconvolgimento di tradizioni secolari. L’evento del pasto, nonostante la sua frequenza o forse proprio per questo, penetra in un ambito di santificazione. La parola stessa netilà, da cui netilat yadayim, indica in ebraico una elevazione. In assenza del Tempio e del suo establishment sacerdotale, sono manifestazioni della vita quotidiana di tutti, come i pasti, a venire innalzate. Dare un senso che richiami altro alle azioni che si ripetono più volte ogni giorno non riguarda più una minoranza privilegiata con il monopolio del culto ma l’intera collettività.