Ritratto di uno studioso settecentesco e della sua enciclopedica sintesi di musar, halakhà e qabbalà
Una recente, bella lezione del rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni, promossa dalla comunità ebraica di Milano, ha rilanciato l’originalità del pensiero di Moshè Chayim Luzzatto, noto anche con l’acrostico di Ramchal (1707-1746ca) e ne ha sottolineato l’importanza nella storia dell’ebraismo, italiano e non solo. Per molti aspetti la sua vita, sino ad oggi, è avvolta nella leggenda o nel mito, nel senso che è difficile ricostruirne i dettagli con esattezza. Ancor meno si sa della sua morte – sebbene si tramandi come data il 26 yiar 5506, probabilmente fissata per ragioni religiose – avvenuta in eretz Israel (c’è chi dice ad Akko, chi a Tiberiade) dovuta all’ondata epidemica, probabilmente colera (ma secondo alcuni fu peste), che travolse l’intera area mediorientale nel 1746-47. Ne perirono anche la moglie e i figli. Si sa che cominciò a leggere testi qabbalistici sin da adolescente, forse ‘sottratti’ alla biblioteca personale del suo maestro, rav Isaia Bassan, a Padova, e che organizzò un circolo giovanile con un preciso programma mistico consistente nella lectio diuturna continuata, a staffetta, della Mishnà e in altre pratiche qabbalistiche più tradizionali, cose che allarmarono il rabbinato veneziano (da cui Padova dipendeva), il quale, temendo derive di tipo shabbatiano – dal movimento pseudo-messianico di Shabbatj Zvi, sorto circa cinquant’anni prima – chiese a rav Bassan che scogliesse il circolo e mettesse le briglie al suo intraprendente pupillo.
Non pago di quegli ‘studi proibiti’, il giovane Moshè Chayim proclamò di ricevere persino dei messaggi da un magghid, che gli parlava e lo ispirava. Anche la storia del magghid, inteso come ‘messaggero celeste’, non era una novità tra i qabbalisti… ma contribuì ad accrescere i sospetti dell’establishment verso il Ramchal, che nel 1735 fu costretto, per così dire, a emigrare nella più tollerante Amsterdam (non va dimenticato, però, che i sefarditi di Amsterdam avevano rapporti assai stretti con la comunità veneziana, che inviava loro i suoi eruditissimi rabbini). Nella città olandese il Luzzatto trovò sia lavoro come intagliatore di gemme, forse nel mercato dei diamanti, sia la pace necessaria per scrivere e pubblicare libri, almeno fino alla decisione di salire in eretz Israel, obiettivo condiviso da molti ebrei in quel momento storico (ci provò anche il Ba‘al Shem Tov, suo coetaneo, ma senza successo).
La fama del Ramchal, che si diffuse da subito anche nell’Europa ashkenazita, è appunto legata alle sue opere e al loro stile, essendo scritte in un ebraico conciso e intenso, senza troppi fronzoli. In quei testi il Luzzatto riuscì a compiere un’eloquente sintesi di halakhà e virtù morali, di filosofia e idee qabbalistiche, riflesso di quello spirito sistematico che, nel secolo dei lumi, venne chiamato ‘enciclopedico’. Molti studiosi additano nel medico e halakhista ferrarese Isacco Lampronti (1679-1756) il modello, se non addirittura il maestro che insegnò al Ramchal tale approccio sistematico. È noto poi l’encomio che gli rivolse un’altra grande mente sistematica del suo tempo, rabbi Eliyahu ben Shlomò Zalman, il Gaon di Vilna (1720-1797), del quale ‘si dice’ che avesse detto che, se Moshè Chayim Luzzatto fosse stato ancora vivo, sarebbe andato a piedi dalla Lituania in Italia per ascoltare le sue parole di Torà…
Di questa sistematicità nel presentare il giudaismo fanno fede almeno tre grandi opere, scritte negli anni Trenta del quel diciottesimo secolo. Anzitutto il Derekh ha-Shem, o La via del Signore, che si presenta come un grande affresco delle credenze e della prassi del giudaismo rabbinico, diviso in quattro parti (Dio e uomo; dottrina della provvidenza divina; profezia ossia rivelazione e santa ispirazione; studio della Torà, mitzwot e preghiere). Qui è evidente lo sguardo sinottico e sintetico del suo autore: il testo include il rigore razionalista del Maimonide, specie del Sefer ha-madda‘ (il primo libro del Mishnè Torà), imperniato sul verbo ‘conoscere’, ma anche l’afflato di alcune dottrine mistiche popolari come la metempsicosi, ossia la trasmigrazione dell’anima in corpi diversi per diverse generazioni al fine di espiare le trasgressioni precedenti e raggiungere una perfezione tale da rendere non più necessario il reincarnarsi (cfr. II, cap.3). Una seconda grande opera, in cui si rivela il genio sistematico del Ramchal, è la sintesi di qabbalà luriana nota come Qelach pitchè chokhmà ovvero Le 138 porte della sapienza, una specie di mistica more geometrico demonstrata, della quale esiste una traduzione in italiano fatta da Elena Löwenthal e Giulio Busi nella loro antologia della tradizione segreta del giudaismo (Einaudi 1995): per metà lessico qabbalistico e per metà sistema teosofico, si tratta di un compendio a tratti oscuro delle tecniche teurgiche sviluppatesi nella mistica ebraica tra XVI e XVIII secolo.
Un terzo esempio dell’approccio sistematico, ma anche un po’ sincretistico, del maestro patavino è la Mesillat yesharim o Il sentiero dei giusti, che tradussi in italiano dall’ebraico or sono ventidue anni (San Paolo 2000), opera nella quale, sulla base di una baraità attribuita nel Talmud a Pinchas ben Yair, il Luzzatto costruisce un manuale di ascetica per giungere alla perfezione dell’anima attraverso dieci gradini, dieci tappe spirituali, che si dipanano in molteplici e concreti rimandi alle mitzwot e al modo di osservarle con la giusta kavvanà o disposizione d’animo. L’opera fu adottata da rabbi Israel Wolf Lipkin, noto come il Salanter (1810-1883), a guisa di testo classico del Musar, movimento che si proponeva il rinnovamento delle yeshivot in chiave di elevazione morale e spirituale. Infatti, secondo il Luzzatto, “gli uomini hanno bisogno di mezzi e di stratagemmi per conquistare la virtù, dato che non mancano gli ostacoli che li allontanano da tale conquista… ma vi sono pure rimedi che allontanano quegli stessi ostacoli” (dalla Prefazione dell’autore). Certamente la Mesillat yesharim non fu scritta per entrare nei curricula del Musar, ma il testo ben si offriva, e ancora si offre, come un cristallino manuale di pedagogia rabbinica, tradizionale nei contenuti ma moderno nella forma – a partire dello stile del suo ebraico – e attento alla psicologia individuale, senza rimandi a note erudite (e per alcuni questo è un limite delle opere del Ramchal, che mette a dura prova lo studioso che voglia risalire alle sue fonti).
In breve, Moshè Chayim Luzzatto è un maestro che ha tracciato una sua strada originale, muovendosi sì nel solco della tradizione ma con non poche libertà, tanto geniale quanto ricettivo del nuovo clima culturale del suo tempo. Non è un caso che dalla Serenissima abbia scelto di immigrare nella repubblica olandese e stabilirsi nella città in cui vissero René Descartes e Baruch de Spinoza. Del Ramchal altre opere ci restano: poemi d’occasione sempre in ebraico, un dialogo in stile platonico (il Da‘at tevunot) e un lessico di logica talmudica (il Sefer tevunot) il cui incipit evoca Aristotele. Probabilmente altro materiale è andato perduto nel corso delle sue peregrinazioni; non di meno, il mito e soprattutto il metodo ramchaliano, verificabile nelle opere sopra citate, continuano a ispirare molti settori dell’ebraismo mondiale. Solo l’ebraismo italiano sembra faticare ancora ad apprezzarlo, come potrebbe e dovrebbe. Ma non è questo il destino dei propri figli più geniali?
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma