Dialogo con l’auore di “La Resistenza spiegata a mia figlia”, un titolo controverso e forse difficile da rileggere oggi. Ma che pone (anche) l’attenzione su un’eredità preziosa: La Resistenza dei libri
Pubblicato per la prima volta nel 2005 dalla casa editrice L’ancora del mediterraneo, e subito al centro delle polemiche, il libro intitolato La Resistenza spiegata a mia figlia dell’autore poliedrico Alberto Cavaglion, storico, esperto di ebraismo e di letteratura contemporanea, ha avuto una nuova edizione nel 2015 da parte di Feltrinelli, ed è in quest’ultima versione che ancora viene stampato.
Chiediamo all’autore il motivo per cui il libro ha suscitato alcune polemiche:
L’editore, per esigenze di collana, aveva chiesto un libro “svelto”, ma doveva essere chiaro, e invece non era, che spiegare la Resistenza non è la stessa cosa che spiegare la Costituzione. Nemmeno storiche e storici brevissimi hanno saputo spiegare che cosa è stato davvero l’8 settembre, uno dei nodi più contorti della storia d’Italia, non solo del 900, da cui nasce la lotta di liberazione. L’editore si aspettava un libro di pura semplificazione, che non fosse privo di un pizzico di quell’apologia ideologica che ha caratterizzato larga parte della storiografia del secondo dopoguerra. Senza queste due cose il mio lavoro appariva e apparve monco, sbagliato, dunque cestinabile. Non parlai allora e non ne parlo nemmeno oggi come di una censura, ma di inerzia intellettuale sì. Non ero capace di scrivere né una cosa né l’altra, per indole e per i maestri cui devo tantissimo, che mi hanno insegnato a tenere lontana la ricerca dall’uso politico della storia contemporanea soprattutto quando si deve insegnare o parlare agli studenti o addirittura, nel mio caso, ai figli. Non appartenevo infine a nessuna squadra accademica e dunque fu un gioco da ragazzi estromettermi. Le cose però stavano velocemente cambiando, una nuova stagione, anche nella storia della Resistenza, stava affacciandosi all’orizzonte e fu così che il libro, passata quella fastidiosa tempesta mediatica, ha fatto la sua strada ed è arrivato oggi alla quinta edizione.
Il libro si apre con la “lettera per un compleanno” indirizzata alla figlia dell’autore Elisa, nata il 24 aprile 1989, e fin da subito Alberto Cavaglion scrive “questo piccolo libro mette in fila problemi complicati per un adulto, figuriamoci per un adolescente”. La difficoltà sta proprio nel parlare di Resistenza ad una generazione lontana da quei fatti sia cronologicamente che spiritualmente, e soprattutto l’autore decide di farlo in un periodo di revisionismi e negazionismi, andando, con la sua singolare scrittura, oltre ogni “impalcatura retorica”.
Chi scrive è nata nel 1991, appartenente alla stessa generazione di Elisa, distante nel tempo dalle questioni riguardanti la Seconda Guerra Mondiale, la Shoah, la Resistenza, conosciute troppo superficialmente solo attraverso la lettura di libri scuola e la visione di qualche film. Quindi troppo giovane e lontana dalle testimonianze dirette per poter comprendere il valore della guerra armata di Resistenza verso i regimi fascista e nazista. A meno che, come nel caso della sottoscritta, non vi sia un interesse particolare verso queste tematiche, interesse che è sopraggiunto durante gli studi universitari e che successivamente ha condotto ad un naturale approfondimento di tali argomenti.
Nel libro si parla di una memoria “imbalsamata” che l’ha portata ad avere l’esigenza di parlare di Resistenza sia a sua figlia sia a tutti i giovani della sua generazione. In che modo la storia della Resistenza andrebbe raccontata secondo lei?
Per chi, come me, s’è formato negli anni Settanta è difficile dimenticare il peso intollerabile che la politica ha esercitato sulla memoria partigiana, la lottizzazione delle lapidi, la monumentalizzazione, l’uso di parte del 25 aprile a seconda delle convenienze. La sera del 24 aprile, giorno del “nostro” compleanno, nella città dove sono nato e cresciuto si faceva una meravigliosa fiaccolata, poi si ascoltavano dal palco discorsi che tutto facevano fuorché spiegare perché la Resistenza fu una guerra “giusta”. Eppure, bastava avere occhi per guardare negli occhi i partigiani in carne ed ossa che stavano accanto a te nella fiaccolata. Non avevano bisogno di parlare, bastava guardare nei loro occhi per capire che erano stati protagonisti di una esperienza “alta”, unica. Pochi mesi fa è mancata Maria Cirlo, maestra elementare, anche di mio fratello. Una coraggiosa staffetta partigiana, che detestava i narcisismi e le pose tribunizie degli Eroi (ve ne erano tanti anche intorno a lei). La dura esperienza di donna in guerra (se farò una nuova edizione voglio ampliare con un suo ritratto il paragrafo sulla Resistenza femminile) sapeva trasmetterla anche ai bambini. In un certo senso, scrivendo il libro, pensavo a figure di questo genere, gente semplice, onesta, che sapeva esprimere una virtù rara nel nostro paese: la coerenza, la fedeltà alla parola data, il saper passare senza troppe parole dalle teorie ai fatti.
Alberto Cavaglion avverte subito sua figlia Elisa, e con lei mi sento “avvisata” anch’io, che quello che stiamo per leggere non è un libro facile, e infatti si leggerà di guerra per bande, di guerra giusta, guerra fratricida.
Che valore assume la Resistenza oggi (a settantasette anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale), considerando le guerre e le forme di Resistenza a cui stiamo assistendo attualmente?
Si fa molto parlare intorno alla categoria Resistenza. Capisco che vi sia tanta retorica in molti discorsi giornalistici che cercano di comprendere il groviglio ucraino. Però vi è in giro anche tanta sottigliezza avvocatesca, tanti sofismi per negare il nome di partigiano a coloro che combattono l’aggressore russo. Sottigliezze avvocatesche, sofismi che non avevo ascoltato quando la tessera di Partigiano era con grande liberalità e senza troppi distinguo concessa a chi combatteva o combatte l’imperialismo americano. I libri, come sempre, i grandi romanzi sulla Resistenza di cui per nostra fortuna la nostra letteratura è piena, aiutano a dissipare le nebbie. Sfido chiunque oggi apra Banditi di Pietro Chiodi a non provare la stessa tentazione che ho provato io riaprendo quel libro tenendo davanti accesa la televisione e ascoltando gli inviati in Ucraina. Non sono sempre uguali e sovrapponibili i pensieri di chi è aggredito, di chi vede la propria terra occupata dallo straniero?
Ancora, nell’edizione del 2015, l’autore avverte il lettore della necessità di superare l’idea secondo cui fino all’autunno del 1943 sia esistita un’Italia fascista in contrapposizione ad un’Italia buona, così come è impossibile equiparare le due parti, mentre è necessario collocare dalla parte giusta coloro che hanno combattuto per la civiltà. Con la stessa forza pone un’altra premessa, e cioè spiega come il giudizio sugli uomini sia più complicato di quello inerente le idee vista l’impossibilità di catalogare automaticamente gli uomini come buoni o cattivi a seconda dell’idea sposata. Un avvertimento che si traduce in un invito a riflettere su chi, “pur militando dalla parte giusta si sia macchiato di nefandezze”, e su quelli che “pur militando dalla parte sbagliata, si siano comportati bene, evitando inutili carneficine”. A cosa si riferisce nello specifico quando parla di un’Italia buona? Dopo la fine del conflitto come abbiamo interpretato e raccontato il ruolo dell’Italia in guerra?
Mi riferisco a una minoranza virtuosa, che sempre riesce a emergere nelle circostanze estreme ed è una delle componenti migliori della società italiana. L’eredità di quella che Mazzini chiamava, e con lui Meneghello, «la guerra per bande». Risorgimento e Resistenza sono stati i teatri in cui una minoranza virtuosa ha guidato il paese verso il progresso. Il guaio è che queste minoranze faticano a conservare la loro energia in tempo di pace, sono sopraffatte da vizi e difetti della maggioranza, che tende a emarginarli.
Il libro ripercorre episodi cruciali della nostra storia dall’8 settembre al 25 aprile, attraverso molte testimonianze di alcuni dei protagonisti di quella stagione, e infatti viene riservata grande attenzione ai libri, diari e romanzi che hanno permesso di riflettere sugli eventi che in essi erano narrati. I libri sono quindi inseriti come strumenti utili e insostituibili soprattutto per l’uso che ne dovrebbero fare professori di liceo o di scuole medie, quando si parla di Resistenza come “interruzione di normalità”.
Quali sono le caratteristiche degli autori a cui ha scelto di far riferimento?
Come per la deportazione, anche per la Resistenza la letteratura ha anticipato e colto in contropiede la storiografia. Calvino e Fenoglio usavano senza scandalizzarsi la parola «guerra civile», Meneghello si serviva del registro ironico per prevenire una ricostruzione favolistica della Resistenza come storia di puri eroi, immacolata e immune da violenze. La letteratura consente di guardare anche verso l’altra parte, la parte avversa senza i paraocchi dell’ideologia soprattutto in relazione al tema più controverso, quello della violenza. Anche Pavone nel suo libro sostiene la tesi di una differenza di violenza a seconda delle parti in guerra. Una questione privata di Fenoglio e ancora più il capolavoro di Meneghello possono aiutare un giovane a capire che in guerra la violenza è violenza, punto. La guerra trasforma l’uomo, soprattutto lo studioso, gli fa perdere l’innocenza e la capacità di provare sentimenti d’amore. La sera del primo scontro Meneghello guarda le sue mani insanguinate e si chiede se sono ancora le stesse che poche settimane prima maneggiavano i codici petrarcheschi.
C’è un aspetto che mi ha sempre colpito del suo libro, e cioè “la minoranza virtuosa” di uomini a cui fa riferimento, che presuppone una sua lettura della Resistenza come “il meglio di cui gli italiani fossero capaci”, e dove i fatti della Resistenza vengono narrati in una “modalità anti-eroica, senza aggettivi, ma ricca di colori”. Il libro, nell’edizione del 2005, si chiude con un riferimento a Dégioz: qui vengono in parte presentate le tappe della liberazione, che culminano con la liberazione di Milano, sede del Comitato di liberazione nazionale, da cui in qualche modo parte la condanna a morte di Mussolini. Alberto Cavaglion, in riferimento a questo ultimo fatto scrive: “Con questo avvenimento si conclude ogni narrazione sulla Resistenza”, passando poi a considerare la stessa anche come una stagione in cui “sono state scritte, pensate o salvate opere straordinarie”. Quanto c’è di straordinario nella minoranza virtuosa a cui accennavo e nel passaggio dalla Resistenza come lotta alla Resistenza come “laboratorio di idee”? Che valore assume la libertà?
Per comprendere che cosa vi sia di straordinario basta risalire alle scritture, ai diari, alle corrispondenze scritte mentre infuriava la guerra, sotto l’incubo dei rastrellamenti, nelle prigioni e nei campi di internamento. Penso, per la storia dell’ebraismo, a quel capolavoro assoluto, degno secondo me di stare accanto a Se questo è un uomo, che sono i Diari di Emanuele Artom o al Taccuino di Fossoli di Luigi Gasparotto. Dalla contingenza – e quale contingenza – scaturiscono pensieri e idee che riguardano la politica, la lotta tra fede e ragione, la condizione umana, il legame con il passato come nel caso di Chabod e delle sue carte portate in baita a Dégioz. La Resistenza dei libri è la grande eredità che ci è stata donata dai nostri padri partigiani.
Alberto Cavaglion, “La Resistenza spiegata a mia figlia”, Feltrinellli
Grazie x questo articolo ancora di più in questo drammatico momento storico
Sono la nipote di Maria Cirio e fin da piccola ho sentito racconti e ho respirato la Resistenza come qualcosa di reale e per questo umano e profondamente vero
Nonna Maria saprebbe da che parte stare ora, senza ombra di dubbio …. I “sofismi “ ,come dice Cavaglion, sono di chi può parlare dal suo comodo divano perché vive in una democrazia … democrazia che abbiamo Grazie ai partigiani e agli alleati
Buon 25 aprile