Cultura
Lavrov, Hitler, gli ebrei e le fake news di Stato

La discussa intervista al ministro russo non costituisce di per sé «un documento che fotografa la storia contemporanea» bensì una precisa manifestazione di quei processi di annichilimento della capacità di giudizio critico che accompagnano il pregiudizio antisemitico

Quando si fanno interviste a personaggi della vita pubblica sussistono problemi di ordine deontologico così come di ricaduta politica. Sul secondo aspetto c’è forse di meno da dire, posto che l’interrogato si assume la responsabilità piena di quanto va dicendo così come l’interrogante deve partire dal presupposto che quanto va chiedendo risponda ad un effettivo bisogno di conoscenza da parte dei destinatari della comunicazione e non piuttosto ad altro. A volte non è così ma il punto della riflessione che andiamo facendo non è questo. Poiché, ed è invece il primo aspetto del problema, sempre più spesso le interviste ai “potenti della terra” appaiono essere dei falsi scoop, che mascherano invece una sorta di compiacente scambio di riguardi tra il giornalista e il personaggio in questione. Quindi, tra la testata in oggetto e il potere da questi rappresentato. Il merito della compiacenza sta nel bisogno, richiamando ossessivamente la «libertà di espressione» e di informazione, di trasformare la cronaca in una qualche forma, più o meno morbosa, di spettacolo. Così come di avvolgere l’intera comunicazione dentro l’infotainment, un ibrido tra gioco e realtà, visione e comprensione, analisi critica e fruizione ludica. La guerra, in questo caso, scompare nella sua materiale tangibilità, trasmutandosi in una sorta di ballon d’essai, un insieme di effetti speciali che vengono sempre più spesso vissuti come immagini a sé, destinato come tale non tanto a documentare quanto a intrattenere lo spettatore.

Non è solo una questione di metodo e di galateo bensì di merito. Peraltro, aggredire l’interlocutore, per il gusto di creare parapiglia, non costituisce un esercizio di indagine critica ma solo un criterio per metterlo preventivamente alla berlina, riducendone le reazioni a pantomima di comunicazione Detto questo, rimane il quesito di fondo: è legittimo lasciare parlare apertamente un esponente delle istituzioni – quindi un individuo con delle responsabilità verso la collettività, in questo caso non esclusivamente del suo paese – quando ciò che va asserendo non solo è palesemente falso ma costituisce la reiterazioni demenziale di una visione del mondo basata su mistificazioni deliberate? L’oggetto, lo si sarà inteso, sono i deliri pubblici del ministro degli Esteri russo Sergej Viktorovič Lavrov, il quale – durante un’intervista, senza effettivo contraddittorio, resa ad una rete televisiva nazionale – si è potuto liberamente esercitare nel catalogo delle peggiori banalizzazioni antisemitiche.

Nel corso del monologo di fatto il politico (e oligarca) russo ha infatti accusato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky di avere organizzato un «genocidio» perpetrato dal suo regime «nazista» a danno delle minoranze russofone, aggiungendo che «anche Hitler aveva origini ebree». Una tesi, quest’ultima, che appartiene al vecchio armamentario antisemitico e che periodicamente ritorna come stereotipo pregiudizioso, vuoi per sostenere che i peggiori nemici degli ebrei sarebbero gli ebrei medesimi (che odierebbero se stessi, ovvero la propria natura ripugnante, al punto da spingersi contro i propri correligionari per mondarsi della colpa di esistere) vuoi per attenuare le responsabilità di Hitler, e dei suoi sodali, delle peggiori responsabilità in merito allo sterminio razzista. Se Hitler era un po’ ebreo, in fondo, perché gli ebrei si dipingono come vittime assolute quando, alla fine della fiera, tutti siamo  in qualche modo colpevoli di qualcosa?

A rigore di cronaca Lavrov si è così espresso: «Zelensky  fa il ragionamento: che tipo di nazificazione possono fare se lui è ebreo? Posso sbagliarmi, ma anche Hitler aveva sangue ebreo. Questo non significa assolutamente nulla. Gli ebrei saggi dicono che gli antisemiti più rabbiosi tendono a essere ebrei. “Non c’è famiglia senza un mostro”, come diciamo noi». La concatenazione di affermazioni è più sottile di quanto non sembri, informata com’è ad una falsa cautela di mera superficie. Per delegittimare il presidente ucraino (attraverso il rimando al fatto che Zelensky sia uguale a Hitler), infatti, il ministro degli Esteri riprende il leitmotiv di tutta la campagna ideologica russa, quello di un’«operazione speciale» necessitata dalla piega nazistoide assunta dal governo di Kyiv. In fondo, si tratterebbe di una cortesia rivolta agli stessi ebrei, liberandoli da un giogo criminale che li potrebbe distruggere. La presenza del supercitato «reggimento Azov», formazione ipernazionalista e con elementi neonazista, starebbe lì a dimostralo. Così come il «colpo di Stato» di Euromaidan. L’Ucraina, in altre parole, costituirebbe la cellula di una sorta di Quarto Reich. Per evitarne le metastasi, concionano da parte moscovita, occorre la chirurgia bellica messa in atto in queste drammatiche settimane.

Fin dal primo momento Putin e i suoi uomini si sono adoperati per recuperare e adeguare alle circostanze guerresche tutti i paradigmi mentali e le matrici sub-culturali che accompagnano la Federazione russa, depositaria, tra le altre, di tre tradizioni storiche, non necessariamente in opposizione tra di loro: quella della «grande guerra patriottica» contro l’invasore tedesco, quando le vittime furono rubricate e qualificate essenzialmente con l’indistinto riferimento al loro essere «cittadini sovietici» (posto che fino agli anni Novanta quasi nulla della specificità dello sterminio ebraico era riconosciuto come tale); quella del radicato antisemitismo russo, a partire dai «Protocolli dei savi anziani di Sion», vero e proprio handbook del pregiudizio antiebraico contemporaneo, avallato nel corso del tempo, sia pure con forme, intensità e modi tra di loro differenti, dalle autorità laiche e religiose che si sono susseguite in più di un secolo nel governo dell’Europa orientale; quella, infine, della «terza Roma», suggestione imperialista che ritorna ancora una volta nell’ideologia eurasica, quest’ultima tra le componenti della macchina propagandista di Mosca.

Beninteso, parte dell’Ucraina, elemento integrante dell’Est europeo (e a suo tempo dell’impero zarista come di quello sovietico), non è per nulla estranea alle suggestioni antisemitiche. Ma il punto non è questo, posto il disastroso conflitto che intercorre tra i due paesi. Semmai la nota dolente sulla quale soffermarsi è l’uso pubblico del ricorso alle immagini storiche che rimandano allo sterminio razzista degli ebrei in un’ottica completamente decontestualizzata. Per meglio intenderci, secondo un criterio strumentalizzante. Una condotta, quest’ultima, che entrambi i contendenti hanno assunto, sia pure con forme e intensità tra di loro molto diverse, e che ci impone un supplemento di riflessione.

Nel caso ucraino Zelensky ha più volte paragonato la condizione della popolazione del suo Paese a quella degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, evocando il «genocidio». In un enfatico e deludente discorso al parlamento israeliano ha cercato consensi tra gli astanti e gli interlocutori calcando le sue parole, e di molto, con paragoni assai poco verosimili, comunque inappropriati se non imbarazzanti. Commettendo inoltre un errore di comunicazione grossolano, quello per cui non ottieni più simpatia quando, nel momento in cui la domandi concretamente, ti metti sullo stesso piano delle vittime della Shoah e dei loro congiunti, nell’associarsi e nell’assimilare la tua condizione alla loro. Se si trattava di un esercizio di captatio benevolentiae, è stato mal riposto poiché incongruo quando non sgangherato.

Nel caso russo, invece, se Putin riprende, in chiave conservatrice e neoautoritaria, tutte le immagini e le suggestioni del nazismo come minaccia vitale all’esistenza della Russia, il suo ministro degli Esteri recupera e poi neutralizza l’ebraicità come fattore negativo, partendo dall’assunto per cui “i peggiori antisemiti sono gli stessi ebrei”, uno standard classico del rossobrunismo, laddove esso attiva il meccanismo della colpevolizzazione della vittima. In ragione di ciò, infatti, è come se Lavrov dicesse che non c’è alcun male a colpire un ebreo, posto che egli è il vero demiurgo dell’antisemitismo. Zelensky è ebreo, Hitler ha «origini ebraiche» (il «sangue»…) e se il primo è la copia del secondo allora il problema sta nella loro comune identità.Le dichiarazioni del plumbeo ministro putiniano sono state ampiamente riprese e criticate all’estero, in particolare in Israele, dove il governo ha convocato l’ambasciatore russo per avere chiarimenti, insieme alle scuse ufficiali da parte della Russia. Che non arriveranno, semmai adducendo un problema di equivoci e malintesi. Il primo ministro israeliano Naftali Bennett le ha definite «menzogne» mentre il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid le ha liquidate come «imperdonabili».

Nel nostro paese la polemica si è esacerbata non solo sul merito delle parole ma anche sull’opportunità di concedere, in prima serata, una quarantina di minuti di «comizio» (Mario Draghi), condito di affermazioni «oscene», ad un abile mestierante della politica russa ed internazionale, avendo anticipatamente concordato gli argomenti,  senza alcuna possibilità di replica. Soprattutto dinanzi alle ripetute falsificazioni propagandistiche che hanno puntellato molti dei passaggi del (quasi) monologo.  Ancora a tale riguardo, l’Unione delle comunità ebraiche italiane, per voce della sua presidente Noemi Di Segni, ha riscontrato che «la possibilità che è stata data al ministro degli Esteri russo Lavrov di esprimere la propria dottrina antisemita nell’ambito di uno spazio televisivo di approfondimento riporta ancora una volta al tema della responsabilità dei media. Così facendo, infatti, si dà legittimazione all’odio, non lo si contestualizza né lo si ripudia. La meschina propaganda di usare temi di dolorosa memoria ebraica e pregiudizio antisemita per rendere ancora più incendiaria la guerra già accesa è grave e non va sottovalutata».

La risposta che Mauro Crippa, direttore generale dell’informazione di Mediaset, ha fornito è stata invece di taglio ben diverso, sostenendo che «le deliranti affermazioni […] rivestono particolare importanza perché confermano chiaramente la mancanza di volontà da parte di Putin di arrivare ad una soluzione diplomatica della guerra dei russi contro l’Ucraina. E comunque la si pensi, oggi sappiamo qualcosa in più della Russia e di chi la governa. […] Quanto alle accuse e agli assurdi parallelismi di Lavrov su Hitler e gli ebrei, solo antisemiti viscerali possono ancora dare credito a quelle che appaiono come follie allo stato puro, oltre che a falsi storici già smentiti dai fatti. [..] L’intervista al ministro degli esteri russo è un documento che fotografa la storia contemporanea». Nel mondo dell’informazione si può dire di tutto, e di più, per giustificare l’esibizionismo osceno. Molto spesso il vero problema, in questo come in altri casi, non sta tanto in chi si esercita nello strologare ma in quanti ne amplificano, sotto il rimando al «diritto di cronaca», le espressioni per nulla eroiche dei loro lucidi deliri. Offrendogli comunque uno spazio di implicita legittimazione. Anche per questo la concione di Lavrov non costituisce di per sé «un documento che fotografa la storia contemporanea» bensì una precisa manifestazione di quei processi di banalizzazione e annichilimento della capacità di giudizio critico che costellano e accompagnano lo stesso pregiudizio antisemitico. Improbabile che il ministro degli Esteri russo non sappia queste cose, avendo semmai cercato, attraverso i suoi canali di propaganda, di trovare qualche pesce che abboccasse all’amo. In Italia gli è riuscito.

La reductio ad Hitlerum, quella postura comunicativa per la quale ogni male viene subito comparato ed associato alla radicalità criminale del nazionalsocialismo, diventa quindi l’indice di un’anestetizzazione dinanzi al vero dolore degli altri. È come se la storia, e con essa la cronaca, improvvisamente vivessero di fittizie equivalenze. Se Auschwitz può essere nulla (negazionismo), Auschwitz può anche diventare quel “tutto” in cui chiunque può nascondersi, dichiarandosi aprioristicamente privo di qualsiasi responsabilità civile, etica e quindi politica. Esattamente ciò che ha fatto Lavrov con l’avallo di volenterosi “operatori” dell’intrattenimento osceno, più che dell’informazione. Qualcosa che, peraltro, al netto delle stesse propagande in corso, ci viene scodellato ogni giorno come se si trattasse di un esercizio di coscienza collettiva.

 

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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