Oltre il conflitto militare c’è il conflitto delle rappresentazioni basato sulla demonizzazione dell’avversario con un incessante ricorso all’arsenale delle immagini del passato, a partire da quello nazista
Se il conflitto in corso tra Russia e Ucraina sta brutalmente mutando la quotidianità di quei paesi, e con essi il nostro stesso presente, non è meno vero che lo scontro che è in atto non sia esclusivamente militare, richiamando semmai anche considerazioni di ordine simbolico. Infatti, come c’è una guerra combattuta con le armi, così si dà, in quanto evento parallelo ma strettamente intersecato, uno scontro di ordine sia ideologico che rappresentativo, in quest’ultimo caso relativo al modo di raffigurare ciò che sta succedendo dinanzi ad un’ampia Guerra Russia Ucraina, le ombre del passato e la platea di osservatori. I criteri, gli strumenti, gli schemi con cui si rende di comune conoscenza un qualsiasi evento, sono peraltro determinanti nella costruzione del giudizio collettivo che verrà poi formulato. Da questo punto di vista affermare, come sostiene un adagio popolare assai diffuso, che le opinioni vadano sempre separate dai “fatti”, non è cosa poi così agevole. Le une, infatti, spesso si confondono con gli altri (e viceversa), in un gioco di reciproca influenza rispetto al modo in cui si osserva la disposizione delle cose.
Anche se non si deve cadere nella trappola opposta, quella relativista, per la quale la realtà della vita sarebbe solo una questione di immagini intercambiabili, di versioni differenti ma tra di loro equivalenti, quindi da sostituire all’occorrenza, magari in base ai gusti del momento. Esiste semmai un conflitto di interpretazioni che si lega al confronto tra interessi contrapposti. Gli interessi non sono mai qualcosa di aleatorio. Costituiscono parte integrante dei differenziali di potere, ovvero del riscontro che le persone, e con esse le comunità umane, non sono costituite da individui e da gruppi collocati sullo stesso piano, con le medesime risorse, con le stesse opportunità.
Il conflitto delle rappresentazioni non è comunque una prerogativa in esclusiva di questa guerra. Da che nella storia umana i gruppi si sono contrapposti fisicamente e materialmente, anche i criteri con i quali vengono raccontate – e quindi giustificate o censurate – le violenze reciproche, si sono immediatamente accompagnati ad esse, in quanto corredo inevitabile dei concreti atti di forza e sopraffazione. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi? Non proprio, poiché se sussiste un cliché che si ripete con inesorabile costanza (coprire i fatti con una spessa coltre di rappresentazioni, fino a disorientare gli osservatori, indirizzandoli propagandisticamente verso i propri interessi), non di meno nella guerra in corso si sta dando una forsennata rincorsa verso una demonizzazione dell’avversario sulla scorta del continuo ricorso all’arsenale delle immagini del passato, a partire da quello nazista. Alla «denazificazione» rivendicata da Putin si è risposto con l’accostamento di quest’ultimo a Hitler. All’accusa di «genocidio», mossa dagli ucraini ai russi, Mosca ha controbattuto parlando di vero e propria pulizia etnica ai danni dell’importante minoranza russofona. Alla presenza di milizie paramilitari ultranazionaliste e filonaziste, inserite poi nell’organico del proprio esercito di Kyiv, si contrappone l’ombra del gruppo Wagner, vera e propria agenzia internazionale del mercenariato più cupo e brutale, con base in Russia ma operante un po’ in tutti i conflitti afro-asiatici. E così via.
Si può stare certi che le vicende, altrimenti in sé abbastanza nebulose e comunque cupe, della “resistenza” (anche questa è una parola dai molti significati, fortemente evocativa) del reggimento Azov nel complesso acciaieristico Azovstal, saranno a breve la fonte genealogica di un lungo racconto mitologizzante, destinato a ripetersi nel tempo, sull’eroismo senza prospettiva dei «legionari» ipernazionalisti. I dannati di Mariupol del 2022 al pari della Waffen SS a Berlino nel 1945? In fondo, se allora a combattere contro gli ultimi reparti nazisti (composti anche da diversi non tedeschi) c’erano le truppe sovietiche, oggi a contrastare i «criminali di guerra» (così Mosca), ucraini e non, ci sono i soldati russi. Se la storia non si ripete, alcune analogie – a volte – invece sì. Ed oggi le analogie sembrano surriscaldare gli animi. La reductio ad Hitlerum (così Leo Strauss) sembra essere divenuta la cifra dell’immaginario che ammorba il conflitto, altrimenti combattuto – sulle strade e nelle case dell’Ucraina orientale e meridionale occupata dai russi – con scarsi riscontri effettivi rispetto al concreto passato della Seconda guerra mondiale.
C’è tuttavia una ragione da tenere in considerazione: le guerre di questi ultimi decenni, soprattutto laddove hanno visto la partecipazione di truppe mercenarie e di “volontari”, coinvolgendo i civili come bersaglio diretto, costituiscono il bacino di coltura prediletto dal neonazismo, la cui vocazione bellica e mortifera è pari solo a quella del radicalismo islamista. In alcuni casi, i radicalismi di diversa matrice si sono incontrati, soprattutto tra i Balcani e la Cecenia. In altri si sono contrapposti, come per ciò che riguarda la guerra in corso (dove l’Ucraina evoca le ragioni della «democrazia» mentre la Russia autocratica utilizza le milizie cecene, di osservanza islamista ma di fedeltà moscovita). Sempre e comunque le guerre a media (e bassa) intensità, tali non per il grado di violenza applicatovi ma perché protrattesi nel tempo e destinate quindi a martellare costantemente la popolazione civile indifesa, hanno costituito e quindi rafforzato l’humus ideale per la distruzione dei già fragili tentativi di mediazione, alimentando scenari economici, politici e sociali nei quali i radicalismi, e con essi le milizie armate, si muovono con loro massimo agio. Un esempio paradigmatico al riguardo è lo sconsolante panorama della Somalia, ovvero della sua permanente scomposizione in feudalità claniche dove il collante unitario, se di ciò si può dire, è il perenne frazionamento dei poteri sul territorio, il loro esercizio discrezionale da parte di gruppi corporati, il frantumarsi e il ricomporsi di alleanze e sodalizi d’interesse, il ricatto permanente nei confronti della popolazione, di fatto ostaggio – nonché preda – dei mutevoli rapporti di forza esercitati dai singoli potentati.
Ma non è solo quest’ultimo il punto su cui riflettere. Il riferimento alla tragica storia europea della prima metà degli anni Quaranta, laddove quest’ultima costituì il precipitato di tutte le contraddizioni secolari che avevano accompagnato l’evoluzione del Continente nei tempi precedenti, lo si può trovare agevolmente nelle parole di Vladimir Putin quando, nel suo discorso del 24 febbraio, ufficializzò l’aggressione contro Kyiv affermando: «l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia o, per essere più precisi, dalla Russia bolscevica e comunista. Questo processo iniziò praticamente subito dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e i suoi soci lo fecero in un modo che fu estremamente duro per la Russia – separando, dividendo quella che è storicamente terra russa. Nessuno ha chiesto ai milioni di persone che vivevano lì cosa ne pensassero.
Poi, sia prima che dopo la Grande guerra patriottica [la Seconda guerra mondiale, ndr], Stalin incorporò nell’URSS e trasferì all’Ucraina alcune terre che prima appartenevano a Polonia, Romania e Ungheria. Nel processo, diede alla Polonia parte di ciò che era tradizionalmente terra tedesca come compensazione, e nel 1954, Krusciov tolse la Crimea dalla Russia per qualche motivo e la diede anche all’Ucraina. In effetti, è così che si è formato il territorio della moderna Ucraina. […] Allo stesso tempo, le autorità ucraine – tengo a sottolinearlo – hanno iniziato costruendo la loro statualità sulla negazione di tutto ciò che ci univa, cercando di stravolgere la mentalità e la memoria storica di milioni di persone, di intere generazioni che vivono in Ucraina.
Non sorprende che la società ucraina abbia dovuto affrontare l’ascesa del nazionalismo di estrema destra, che si è rapidamente trasformato in russofobia e neonazismo aggressivi. Ciò ha portato alla partecipazione di nazionalisti ucraini e neonazisti ai gruppi terroristici nel Caucaso settentrionale e le sempre più forti rivendicazioni territoriali nei confronti della Russia. […] Va notato che l’Ucraina in realtà non ha mai avuto stabili tradizioni di Stato sovrano. E, quindi, nel 1991 ha optato per emulare sconsideratamente modelli stranieri, che non hanno alcun rapporto con la storia o la realtà ucraina. Le istituzioni del governo politico furono riadattate molte volte ai clan in rapida crescita e ai loro interessi egoistici, che non avevano nulla a che fare con gli interessi del popolo ucraino. In sostanza, la cosiddetta scelta di civiltà filo-occidentale operata dalle autorità oligarchiche ucraine non era e non mira a creare condizioni migliori nell’interesse del benessere delle persone ma a trattenere i miliardi di dollari che gli oligarchi hanno sottratto agli ucraini, i quali tengono i loro conti in banche occidentali mentre assecondano con riverenza i rivali geopolitici della Russia. […] Uno Stato stabile non si è mai sviluppato in Ucraina; le sue procedure elettorali e politiche servono solo da copertura, da schermo per la ridistribuzione del potere e della proprietà tra i vari clan oligarchici». La lunga citazione è non solo utile ma necessaria poiché contiene in filigrana tutto gli elementi delle querelle ideologica che incornicia e cristallizza la lettura dei malesseri del presente all’interno di uno schema precostituito che rimanda al passato, quel passato così pesante da non transitare mai, corroborato dalla ripetizione della storia in chiave accusatoria nei riguardi della controparte.
Il lascito della Seconda guerra mondiale è tanto conteso dalle due parti in guerra quanto letto in chiave vicendevolmente oppositiva. A Mosca l’eredità della «Grande guerra patriottica» serve essenzialmente per sostenere l’immagine di un’Ucraina come quinta colonna dell’«Occidente», una sorta di falange avanzata che intenderebbe minare la solidità e la continuità della Russia, così come nel 1941 cercò di fare Hitler invadendone i territori, fino ad arrivare in prossimità della capitale dell’allora Unione Sovietica. Putin lascia intendere che insieme alla preservazione dell’unitarietà della Federazione russa, intimamente slava e asiatica, la sua azione militare deve al medesimo tempo tutelare le minoranze oppresse (così come l’Urss avrebbe fatto con gli ebrei durante l’invasione nazista) e contenere i danni, potenzialmente incalcolabili, di una guerra fuori controllo (i continui rimandi all’arsenale nucleare e al fantasma di una «terza guerra mondiale»). Mosca, dinanzi alla corruzione morale e alla dissoluzione civile dei poteri ucraini, si è adoperata in tutti i modi per evitare le violenze, così come era accaduto con l’Urss nel 1941. Dopo di che, a fronte delle continue provocazioni (al pari della trascorsa «minaccia nazista», reiteratasi ora con Zelensky e la sua “cricca”) non ha potuto fare altro che dare corso ad una «operazione speciale» per «denazificare» gli spazi russofoni ad occidente dei suoi confini.
Dal momento della sua ascesa al potere Vladimir Putin si è attivamente impegnato ad amplificare il già corposo culto della «Grande guerra patriottica», incessantemente coltivato dalla Russia di Stalin e arrivato fino ai giorni nostri. Il fuoco di questa narrazione è costituito dalla convinzione che solo Mosca possa rivendicare a pieno titolo la legittimità di società antifascista, posto che il «fascismo» medesimo sarebbe un prodotto tipicamente eurocentrico e antislavo. Il fatto che l’attuale élite dirigente russa intrattenga continui rapporti di affari con la galassia nera, non solo nei paesi Nato ma anche negli Stati Uniti, alimentandone e foraggiandone lo sviluppo, non è peraltro vissuto come un elemento di contraddizione.
I movimenti che guardano con simpatia – e calcolo di interessi – al Cremlino sono visti come antidoti nazionalisti alla degenerazione delle classi dirigenti occidentali, colpevoli di un cosmopolitismo deteriore e antipatriottico, di cui la globalizzazione dei mercati sarebbe il suggello più belluino. Al pari di Stalin, Putin gradisce ricordare a piè sospinto che «il popolo sovietico […] ha liberato i paesi europei dalla peste bruna», così come il fatto che «il nostro paese […] ha offerto la libertà ai popoli del mondo». In sostanza, il patriottismo slavo continuerebbe nella sua lunga tradizione storica, quella non solo dell’auto-preservazione ma anche della liberazione delle altre comunità nazionali dal giogo della brutalità di cui nazismo ne costituisce, ad oggi, la quintessenza ideologica.
Dietro questa copertura di superficie nell’argomentare putiniano, tuttavia si nasconde un discorso sottile, ma per questo ancora più pervicace, che induce ad attribuire ad un generico «Occidente» europeo e americano la macchia indelebile di un capitalismo senza freni, destinato a divorare le società civili nel nome degli interessi di pochi gruppi di potere. Per Putin, padrino e patron dell’oligarchia, autocrate miliardario ed egli stesso leader populista, è fondamentale coniugare nella sua persona l’immagine di nume tutelare degli interessi di «popoli» altrimenti abbandonati al loro triste destino da tecnocrazie insensibili se non addirittura inclementi verso le proprie collettività. È un dato, quest’ultimo, tanto interessante quanto importante poiché segnala il fatto, ancora una volta, che la rappresentanza formale degli interessi di chi si sente colpito dalle trasformazioni dell’economia mondiale è rivendicata più che mai da chi invece in realtà ne beneficia individualmente: il nazional-populismo, nella sua essenza, annovera nelle sue leadership esponenti proprio di quelle classi affluenti che ricavano un surplus di privilegi dallo stato presente delle cose, ponendosi nella logica di rappresentare gli esclusi o i marginalizzati dal momento in cui cercano di capitalizzare a proprio riscontro e rafforzamento il malessere di questi ultimi.
In Ucraina la memoria della Seconda guerra mondiale ha assunto da subito una tonalità diversa da quella russa. Paese di pesante occupazione tedesca, tra il 1941 e il 1944, in parte colluso con essa per via della compromissione collaborazionista di diverse componenti nazionaliste autoctone (salvo poi dovere misurare sulla propria pelle la ferocia belluina del nazismo, perdendo sette milioni di connazionali, a fronte di una cifra pressoché doppia tra i russi), quindi epicentro per eccellenza – insieme alla Bielorussia, alla Polonia, ai Paesi baltici e all’Ungheria – dello sterminio degli ebrei, da sempre ha subito la presenza sovietica (declinata anche come dominio russo) come una specie di servitù ai limiti del paraschiavismo. La contrapposizione tra Mosca a Kyiv, non databile alle sole vicende del 1917-1921, e alla feroce guerra civile che ne insanguinò le lande, si è pertanto riprodotta nelle successive evoluzioni storiche, passando per l’espropriazione delle campagne nei primi anni Trenta. Dal 1991, con lo scioglimento dell’Unione Sovietica, si è quindi verificato un lungo processo di riscrittura della memoria collettiva. «Le strade sono state ribattezzate con nuovi nomi, le bandiere comuniste bandite e i monumenti demoliti. Un disegno di legge del 2015, approvato dal parlamento, ha messo fuori legge un lungo elenco di elementi di propaganda dell’era sovietica. Il ricordo dell’era sovietica di una Seconda guerra mondiale combattuta dall’Armata Rossa e guidata dalla Russia avrebbe dovuto scomparire dalla vista del pubblico» (così Ian Garner su Foreign Policy). Lo stesso Volodymyr Zelensky ha tuttavia dato fiato e corpo ad un immaginario ucraino che recupera a piene mani nella memoria del passato. Il rimando, che si trasforma in alcuni accenni in aperta accusa, sull’abbandono dell’Ucraina dinanzi all’orso russo, riprende e ricalca aspetti della vecchia propaganda sovietica, laddove questa accusava l’Occidente, ed in particolare gli Stati Uniti, di avere lasciato a sé la Russia dinanzi all’aggressione tedesca del 1941, nella tacita speranza di indebolirne il potenziale ideologico internazionale.
Peraltro, a Kyiv il richiamo all’affratellamento con l’Europa occidentale ha faticato a prendere corpo, almeno fino all’invasione di febbraio. Sottolinea ancora Garner che «la memoria della Seconda guerra mondiale occupa uno spazio ambivalente nella coscienza ucraina post-sovietica: è divisiva, è vista come qualcosa di imperiale, da dimenticare, ma è sempre presente, essenziale in qualche modo». Il fulcro di questa differenziazione è il rifiuto della lettura russo-centrica dei conflitti combattuti dall’Urss dal 1922 in poi. Se da una parte molti ucraini ricordano bene quale sia stato il timbro (e il peso) della presenza tedesca, dall’altra rigettano il presunto diritto di Mosca di attribuirsi il merito esclusivo della resistenza contro l’occupante. Un atteggiamento che si inserisce nel più generale antisovietismo e nell’anticomunismo che accompagna l’intero Paese da ben prima dell’indipendenza. Un effetto dell’aggressione putiniana si misura tuttavia già da adesso, non solo con l’inattesa resistenza popolare (insieme all’accelerazione dei processi di identificazione con la Nato e l’Unione europea) ma anche con l’attivazione di un difficile e necessario percorso di ricostruzione dell’identità nazionale, per troppo tempo sospesa tra sudditanza nei confronti della Russia, nazionalismo reazionario e fascistoide nonché visione statica del proprio ruolo di mediazione tra Europa e territori asiatici. È troppo presto per pronunciarsi al riguardo e tuttavia qualcosa ne dovrà pur derivare, fermo restando che questa guerra – di armi, proiettili, bombe ma anche di immagini – non si risolverà di certo a breve e lascerà comunque molti strascichi, difficilmente ricomponibili.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.