Il patrimonio di storie da cui Bin Gorion attinge e che rielabora è un prodotto largamente diasporico. Qualcosa, cioè, che si sviluppa dopo la perdita dell’autonomia politica da parte dell’ebraismo antico
Suo intento è di “costruire raccolte popolari nello spirito degli antichi”. Così fin dalle prime righe della prefazione. Bin Gorion, Micha Yosef Berdichevsky all’anagrafe, è giornalista, polemista e scrittore a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nato in Ucraina nel 1865 in una famiglia chassidica e sposatosi a soli diciotto anni, rompe presto con la famiglia della moglie per i suoi interessi che fin da subito vanno oltre i limiti imposti dall’educazione tradizionalista. Frequenta tuttavia la yeshivà di Volozhin e a venticinque anni si trasferisce in Germania, dove prosegue gli studi rabbinici e contemporaneamente legge Schopenhauer e Nietzsche. Già è chiaro che la sua è una figura di confine, di sintesi tra mondi per tanti aspetti lontani. Profondamente influenzato dalla filosofia tedesca e da Nietzsche in particolare, pubblica una raccolta di saggi intitolata Shinui arachim, cioè cambiamento o trasvalutazione dei valori.
Suo tentativo è proiettare la filosofia di Nietzsche nel contesto dei valori della tradizione e della storia ebraica. Nel 1899 adotta lo pseudonimo, che sarà come noto lo stesso scelto dal più importante leader sionista negli anni della fondazione dello stato di Israele. Negli anni successivi pubblica articoli e racconti e comincia a raccogliere storie e leggende rabbiniche, che confluiranno in un’opera imponente in più volumi. Cittadino russo in Germania, è sconvolto dall’infuriare della prima guerra mondiale e dalla contemporanea ondata di violenze antisemite in Europa orientale (in uno dei tanti pogrom viene ucciso il padre). Muore nel 1921 a Berlino.
Nella cura di Vincenzo Pinto viene pubblicata oggi per la prima volta in italiano la raccolta di storie, fiabe e leggende di Bin Gorion. Si intitola Fons Judae, la sorgente di Giuda, ed è composta di sei volumi di cui i primi due già usciti, gli altri attesi nei prossimi mesi. Quella voluta a tutti i costi da Pinto è un’iniziativa editoriale e culturale che mette finalmente a disposizione anche del lettore italiano testi di un autore pressoché sconosciuto, sul quale non si ha contezza fino a oggi di studi nella nostra lingua. Ciascun volume è diviso in sezioni precedute da una breve introduzione e dall’elenco delle fonti principali. In conclusione a ogni tomo il glossario e l’indice dei nomi, utile per un uso di consultazione.
Le fonti alle quali attinge Bin Gorion sono vaste e varie. Il Talmud babilonese e quello di Gerusalemme innanzitutto, che insieme alle raccolte di midrashim costituiscono quella che l’autore definisce “culla delle leggende”, e poi le antologie dal tardo medioevo al primo Novecento, e ancora testi mistici. Bin Gorion non compie però un lavoro di semplice raccolta di materiali eterogenei; al contrario, rielabora e riplasma i racconti a partire dalle fonti. Diversamente da quegli abilissimi copiatori analfabeti che negli scriptoria dei monasteri medievali riproducevano testi che non erano in grado di leggere, Bin Gorion riorganizza i materiali in una vasta antologia ragionata e divisa per temi. In questo modo al centro non abbiamo più la fonte di origine, che è servita soprattutto da stimolo, bensì una serie di motivi determinanti per la costruzione dell’immaginario ebraico. Il risultato rispecchia l’obiettivo dell’autore, che vuole mostrare più che dimostrare.
I sei volumi dell’opera sono intitolati Dell’amore e della fedeltà, Della retta via, Storielle e insegnamenti, Saggezza e stoltezza, Racconti popolari, Storie cabalistiche. Il primo volume, Dell’amore e della fedeltà, raccoglie storie risalenti al periodo del Secondo tempio, a quello successivo di composizione del Talmud (molti racconti vedono protagonista rabbi Akivà, che la tradizione descrive come un modello di coerenza e rigore fino alle estreme conseguenze della morte sotto tortura subita da parte romana) e leggende medievali intrise di elementi magici e meravigliosi. Il secondo volume, appena pubblicato, prende spunto dalla halakhà, il cammino corretto che l’uomo e l’ebreo in particolare deve seguire, il comportamento dunque.
Ma quello che interessa a Bin Gorion non è la halakhà con le sue mitzvot in quanto tali, bensì il racconto come dimora identitaria. Leggiamo qui le storie dei rabbini protagonisti delle discussioni del Talmud, figure nella maggior parte dei casi senza alcuna aura di santità e che, al contrario, si muovono nella quotidianità di un mondo del tutto umano. Ci sono poi storie esemplari ispirate al rispetto delle dieci parole, i dieci comandamenti ricevuti sul Sinai, e relative alla ricompensa futura. Leggende sul profeta Elia, legato dalla tradizione alla speranza messianica. Storie di contenuto etico che derivano dai Pirkè Avot, le massime dei padri. E infine le vicende del rabbino apostata Elishà ben Abuyà, colui che perde la fede nella vita dopo la morte quando vede un ragazzo che, nel compiere una mitzvà, precipita da una scala e muore. “Per il bene fatto non c’è alcuna ricompensa”, le sue terribili parole. Elishà ben Abuyà non riesce a capire dove sia Dio se c’è il male, e allora esce dalla comunità ebraica. Ciononostante il Talmud riporta le sue azioni e le sue opinioni.
Il patrimonio di storie da cui Bin Gorion attinge e che rielabora è un prodotto largamente diasporico. Qualcosa, cioè, che si sviluppa dopo la perdita dell’autonomia politica da parte dell’ebraismo antico in seguito al disastroso esito delle guerre antiromane del I e del II secolo e.v. La civiltà rabbinica, che esisteva già in età ellenistica e durante il primo impero romano, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e la scomparsa dei sacerdoti come classe coesa con il monopolio del culto si afferma come l’unica in grado di riassestare l’ebraismo su basi nuove – dunque trasformarlo in nuove direzioni. Per questa civiltà senza autonomia politica, senza un centro irradiatore e anzi multicentrica, diventa essenziale l’edificazione di un patrimonio di memorie, storie e regole comuni. Cioè di midrashim e halakhot. Ma perché le storie vivano è indispensabile la ripetizione, che le rende un patrimonio essenzialmente orale. Ascoltate e riascoltate, narrate e rinarrate, queste storie rifiutano di cristallizzarsi in uno scritto, sfuggono in ogni direzione.
Il Talmud e le raccolte di midrashim ne restituiscono una selezione, una scelta di frammenti e di varianti plurali che trasmettono grazie alla messa per iscritto. Ma il Talmud e il midrash, se scelgono lo scritto per esigenze di diffusione e trasmissione, rimangono essenzialmente prodotti dell’oralità. La prassi orale fa sì che il racconto cambi nel tempo: a ogni nuova riproposizione viene arricchito con nuovi dettagli, perde qualcosa e guadagna altro. In questo senso rappresenta una pratica di traduzione, che etimologicamente indica l’azione di condurre oltre, portare fuori qualcosa superando un confine, trans ducere in latino. Il racconto vive dunque nella traduzione, cioè nella trasformazione. Se viene eternizzato in una forma fissa perde la sua caratteristica fondamentale. Bin Gorion si pone nel grande alveo di questa tradizione-traduzione, in altre parole dà un contributo a tramandare (quindi rielaborare) il patrimonio di una civiltà.
I racconti normativi o omiletici della civiltà rabbinica, alla base della tradizione ebraica medievale e moderna, hanno spesso intento apologetico, un aspetto perfettamente comprensibile per una civiltà senza autonomia politica stretta tra alte culture non di rado ostili come quelle delle chiese cristiane in età tardoantica, ma anche quella persiana e più tardi quella araboislamica. Abbiamo così storie come quella del pagano e della giovenca devota, che racconta di una mucca venduta da un ebreo a un pagano che, abituata a riposare il settimo giorno, di Shabbat rifiuta di muoversi nonostante le nerbate. Il pagano protesta allora con l’ebreo, che sussurra nell’orecchio della mucca le novità, cioè il cambio di padrone e dunque il dovere dell’animale di lavorare sette giorni su sette. La mucca capisce e ricomincia a tirare l’aratro. Ma il pagano è tanto colpito da quello che ha visto da decidere di convertirsi all’ebraismo. Con una tipica argomentazione della logica ermeneutica rabbinica, “se una mucca priva di ragione e coscienza ha riconosciuto il suo creatore”, dice, “io, che sono stato creato a immagine e somiglianza di Dio e sono stato dotato da lui di ragione e coscienza, dovrei misconoscerlo?”. Prese il nome di Chaninà ben Tortà, divenne un giusto e ancora oggi sono insegnate norme che portano il suo nome.
Negli stessi anni in cui Martin Buber raccoglie i racconti dei chassidim e Louis Ginzberg pubblica le Leggende degli ebrei, anche Bin Gorion partecipa alla riscoperta e alla divulgazione delle tradizioni del suo popolo. Tra Ottocento e Novecento il dibattito su che cosa sia l’ebraismo conduce in direzioni spesso opposte. Una religione? Un corpus normativo? Una nazione (nazione senza stato però, e per alcuni, come i primi sionisti, uno stato dovrebbe invece averlo)? Un afflato etico universalistico, magari sulla scorta degli antichi profeti? Un’avanguardia del cambiamento e del progresso, anche rivoluzionario se necessario? Tutto questo e molto altro indubbiamente. Per il Bin Gorion autore di Fons Judae è una memoria condivisa.