La Russia di Putin incassa un duro colpo che indica quanto sia assai poco credibile quando trasforma le sue già scarsamente encomiabili gesta belliche in un esercizio di “liberazione” dall’altrui «nazismo»
Nella guerra parallela delle delegittimazioni reciproche la Russia di Putin incassa un duro colpo che indica quanto sia assai poco credibile quando trasforma le sue già scarsamente encomiabili gesta belliche in un esercizio di “liberazione” dall’altrui «nazismo».
La notizia oramai è di dominio pubblico: Pinchas Goldschmidt, autorevole rabbino capo della comunità ebraica di Mosca dal 1993, due settimane dopo l’avvio dell’«operazione speciale» del febbraio scorso ha lasciato silenziosamente il Paese, per trasferirsi prima in Ungheria e poi in Israele. Il motivo di quella che è stata una fuga verso la libertà è stato esplicitato dagli stessi famigliari, a cose concluse: evitare le pressioni che le autorità governative andavano incrementando affinché il Rav prendesse posizione a favore della guerra putiniana.
Goldschmidt vanta peraltro un significativo curriculum, essendo a tutt’oggi anche presidente della Conferenza dei rabbini europei, la principale alleanza rabbinica ortodossa in Europa, che raccoglie più di settecento leader religiosi delle principali comunità continentali. Già nel 2005 il rabbino era stato espulso dalla Russia, per poi rientrarvi, dopo un’intensa campagna internazionale a suo favore. Anche a seguito di ciò, alcuni anni dopo aveva ricevuto, per volontà dell’allora presidente Dmitri Medvedev, la cittadinanza russa. Evidentemente ci si aspettava un’acquiescenza e una condiscendenza che non ha in alcun modo dimostrato.
Per fortuna, anche se la comunità moscovita rimane senza il suo leader spirituale. Ora, al netto dell’evento in sé, che rivela comunque quale sia la situazione che va determinandosi in Russia, laddove le minoranze vengono obbligate ad allinearsi alla linea politica del governo, il punto non è di misurare quale sia il tasso di neofascismo e di neonazismo presente nei due contendenti, per poi eventualmente prendere partito o posizione. Sarebbe altrimenti come fare il gioco dell’aggressore. Semmai il problema è il ridondante uso (e abuso) della storia al quale il putinismo, in quanto ideologia di riferimento nell’attuale fase autocratica di quel Paese, sta facendo ricorso pressoché quotidianamente. Ed è questo un passaggio nel cui merito vale la pena di battere il tasto, poiché una guerra di aggressione quale quella che è in atto viene motivata come risposta ai fantasmi del passato di cui l’aggredito, l’Ucraina, sarebbe la materiale trasposizione nel presente. Erodere analiticamente questo collante tante surreale quanto fidelizzante, è forse il lavoro di chi alla critica delle armi preferisce il ricorso alle armi della critica.
L’unica cosa che, nella nostra inesorabile impotenza, ci è possibile fare dinanzi alle immagini di strazio che ci giungono ogni giorno. Anche se in fondo non è poi così poco, trattandosi di un impegno contro la lotta per il dominio del campo delle rappresentazioni ideologiche, sul quale Putin sta invece facendo da tempo grandi investimenti.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.