Se ne contendono i natali Russia e Ucraina, mentre l’America ne ha fatto una ricetta cult. Storie di barbabietole, sedani dei prati e panna acida. E una versione estiva da cucinare
Quando l’Unesco, alla fine dello scorso giugno, ha dichiarato il borshch ucraino Patrimonio dell’Umanità, la Russia non l’ha presa tanto bene. Ne ha prontamente rivendicato le origini e ha ricordato quanto la zuppa di barbabietole sia comunque diffusa ben oltre i confini ucraini. Sulla questione si dibatteva da ben prima dello scoppio della guerra. Già nel 2019 l’Ucraina aveva chiesto di iscrivere il suo piatto identitario tra i Patrimoni dell’Umanità e la decisione finale sarebbe stata presa anche a causa del dramma vissuto dagli ucraini negli ultimi mesi. Se un popolo è costretto ad abbandonare la propria terra, le sue coltivazioni e le sue abitudini quotidiane, i suoi piatti tipici sono destinati a scomparire e quindi vanno tutelati. Più o meno è stata questa la risposta dell’agenzia delle Nazioni Unite alle critiche nonché la motivazione per legittimare la protezione ufficiale della pietanza.
Quello che più conta non è chi abbia inventato la zuppa nota in tutto l’Est Europa come borshch (o con nomi simili), ma preservarne la versione tipica di una cultura ritenuta ad alto rischio di dispersione. Se è vero che esistono tanti borshch quante sono le nonne dell’Europa orientale, e che questa pietanza appartiene alla gastronomia di tantissimi paesi, è anche vero che è la versione ucraina a essere al momento in pericolo. Ma c’è di più. Secondo quanto riporta Gil Marks nella sua Encyclopedia of Jewish Food, pare che la versione del borshch alle barbabietole fosse un tempo indicata dagli stessi russi con l’appellativo di malorossisky, dal nome della regione, la Malorossiya, Piccola Russia, che anticamente coincideva con l’Ucraina.
Poi, certo, quella curiosa preparazione dal colore fluo ha una diffusione che accomuna non solo mezzo continente, ma anche gli ebrei ashkenaziti da una parte all’altra dell’Oceano. Tutto merito degli emigranti dell’Est Europa che, giunti negli Stati Uniti a fine Ottocento, vi hanno introdotto le proprie abitudini alimentari. Per capire però come il borshch (o borscht) sia diventato un piatto tipico non solo di tutto l’Est Europa ma anche degli ebrei provenienti da questi luoghi ne vanno indagate le origini. Che con la barbabietola hanno ben poco a che fare.
Le prime zuppe chiamate borshch erano preparate con la radice biancastra di una pianta selvatica che cresceva nei territori più freddi della Polonia e dei paesi baltici. Conosciuta da noi come spondilio, pastinaca di mucca o sedano dei prati, era chiamata borsh (o brsh, secondo la traslitterazione proposta da Marks) presso gli antichi popoli slavi.
Siamo in epoca altomedievale e il primo luogo in cui presumibilmente si comincia a raccogliere foglie e fittoni di queste piante spontanee è la Lituania. I contadini usavano in primavera le parti alte dello spondilio e ne conservavano le radici per l’autunno e l’inverno, stagioni interminabili e particolarmente avare di prodotti vegetali.
Nei casi più fortunati, il borsh andava a rinforzare uno stufato di carne preparato con tutti i tagli e gli ossi che il cuoco riusciva a racimolare, insieme ai vegetali disponibili in quel momento. Tra i più poveri, il gusto asprigno della radice compensava quello piatto e noioso delle zuppe di pane e cereali che imperavano al nord.
L’ingrediente che oggi contraddistingue la preparazione, la barbabietola, sarebbe arrivato solo verso la metà del Cinquecento. Non è sicuro se i primi a coltivare tale ortaggio furono gli italiani o i tedeschi, ma è un fatto che in breve le popolazioni dell’Est Europa ne individuarono i vantaggi. Facile da coltivare ed economica, quella radice dal brillante colore rosso-violaceo sostituì in fretta il sedano dei prati nel borshch, che mantenne comunque il nome originario così come gli altri ingredienti. La rivoluzione era comunque iniziata e, come si è visto, ci sono buone probabilità che sia avvenuta nell’attuale Ucraina.
La storia ebraica di questo piatto si intreccia di necessità con quella ucraina e russa. Così come il gusto acidulo che fin dagli albori distingue il borshch si adatta perfettamente alla tradizione gastronomica ashkenazita, che tanto ama l’agrodolce. Dal punto di vista geografico, sarebbero stati soprattutto gli ebrei ucraini e del sud-est della Polonia ad adottare la zuppa di barbabietole come piatto tipico, relativamente snobbati da quanti vivevano più a nord o più a ovest, come i tedeschi, che prendevano le distanze dai cibi dell’est in genere.
Nell’acquisire le pratiche gastronomiche slave, gli ebrei orientali furono costretti a modificarne i dettagli. Un conto era aggiungere la carne e gli ossi alla zuppa di barbabietole per renderla più ricca, un altro unirvi anche la panna acida… Se oggi esiste un borscht vegetariano lo si deve probabilmente soprattutto agli ebrei, poco disposti a rinunciare all’abbinata tra barbabietola e smetana, variante russa della crème fraiche ottenuta dalla fermentazione naturale della panna.
Volendo invece conservare la carne, per dare acidità alla zuppa si poteva ricorrere all’aceto, al succo di limone o alla stessa barbabietola fermentata, più facilmente reperibile ed economica rispetto agli altri due ingredienti. Con l’arrivo delle prime raffinerie di barbabietola da zucchero il borscht vegetariano ebraico avrebbe assunto caratteristiche tipicamente agrodolci e, spesso e volentieri, anche temperature più fredde.
La sua variante forse più diffusa in occasione delle feste di Pesach e Shavuot nonché per Shabbat prevede un delicato equilibrio tra la dolcezza della barbabietola, spesso accentuata da generose dosi di zucchero, l’acidità del succo di limone o dell’aceto e la cremosità della panna. Per completare il piatto, da metà Ottocento sarebbe arrivata anche una patata lessata e a volte, per dargli cremosità, dell’uovo. Restando nel campo degli elementi acidi, diverse versioni del borscht ebraico prevedono l’impiego di cipolle sott’aceto o di altri vegetali fermentati, ma in generale aggiunte e varianti sono tutt’uno con l’identità stessa della portata.
Che l’abbiano inventata gli ucraini o i russi, questa zuppa dalle tonalità squillanti è riuscita a guadagnarsi lo statuto di piatto tipico non solo del suo probabile paese di origine, ma della gastronomia dell’Europa orientale in genere. Per quanto riguarda gli ebrei, la sua presenza nei menu delle feste ne ha fatto una pietanza dall’alto valore simbolico nonostante la relativa povertà dei suoi ingredienti nonché la sua trasformazione nel Novecento in un piatto tanto popolare da essere venduto persino in barattolo.
Prova della sua diffusione già nell’America del secolo scorso è stata la cosiddetta Borscht Belt, meta di vacanze per i newyorkesi sulle relativamente vicine Catskill Mountains. Affibbiatogli da Abel Green, storico direttore della rivista Variety, il nome deriva dalle tantissime pensioni a conduzione ebraica della zona. Si trattava di strutture destinate a ospitare quelle famiglie scacciate altrove a causa dell’antisemitismo dell’epoca. In origine, erano tutte fattorie, gestite fin dagli anni Venti dell’Ottocento da immigrati ebrei e organizzate come una sorta di kibbutz.
Con l’arrivo dei primi turisti intorno al 1870, alcuni contadini pensarono bene di convertire la propria attività e trasformarsi in albergatori. Il boom sarebbe arrivato negli anni Trenta del Novecento, con i tanti che in macchina raggiungevano le alture in fuga dalla calura di New York. Negli hotel gestiti da ebrei e rivolti a ebrei si sarebbe sviluppata quella cultura che solo in un secondo tempo avrebbe conquistato anche la città e la vita americana. Musicisti, attori e intrattenitori ebrei trovavano lavoro presso le centinaia di pensioni e di hotel gestiti dagli ex contadini della Borscht Belt mostrando quei talenti che non potevano esprimere in un ambiente ancora dominato dall’antisemitismo.
Sul fronte alimentare, il cibo servito in questi locali era kosher o kosher style. Condotti perlopiù da ebrei originari dell’Europa dell’Est, i ristoranti di hotel e resort proponevano piatti tipici della cucina ashkenazita, tra blintz, gefilte fish, kugel e, naturalmente, borscht. Servita 356 giorni all’anno, in versione calda o fredda, questa umile zuppa veniva ormai preparata anche dai cuochi non ebrei, pronti poi a importarla nel resto del Paese e a diffonderla in quanto simbolo della cultura gastronomica dell’Europa Orientale.
Borscht freddo vegetariano
Ingredienti
1 kg di barbabietole
250 ml di panna acida
1 limone
6 patate medie (facoltative)
zucchero
1 ciuffo di aneto
sale
pepe in grani
Procedimento
Pulire, sbucciare e lavare le barbabietole, poi tagliarle a dadini, se sono giovani e tenere. Se sono invece più dure, tagliarle a metà e sbollentarle in acqua prima di tagliarle a cubetti.
Riunire le barbabietole preparate in una casseruola con 2 litri di acqua, insaporirle con una presa di sale e una macinata di pepe e cuocerle per almeno 1 ora o, comunque, fino a quando saranno molto tenere. Coprire la zuppa, farla raffreddare a temperatura ambiente, quindi trasferirla in frigo e lasciarla riposare per circa 8 ore.
Aggiungere alla zuppa fredda il succo del limone e 2 cucchiai o più di zucchero, a piacere, poi mescolare per sciogliere lo zucchero e amalgamare i sapori. Prelevare eventualmente alcuni pezzi di barbabietola con un mestolo forato e utilizzarli per una insalata.
A piacere, cuocere le patate in acqua inizialmente fredda, spellarle e disporne una in ogni piatto di zuppa. Completare con un filo di panna acida aggiunta all’ultimo, un ciuffetto di aneto, una macinata di pepe a piacere e servire.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.