Identità, individuo e comunità
Riceviamo questo articolo e volentieri lo pubblichiamo perché solleva una serie di questioni interessanti. Si parla di identità individuale e collettiva, delle relazioni umane, di inclusione e di esclusione. I fatti narrati parlano di un graditissimo Mazal tov inviato attraverso le pagine del giornale Toscana ebraica alla collaboratrice non ebrea (e autrice di questo articolo) Sara Natale Sforni per la nascita della sua secondogenita (come già fatto in precedenza per l’arrivo del primo figlio) e di fatti analoghi accaduti una decina di anni fa, commentati in un lungo articolo su Kolot. Chi osa fare gli auguri ai non ebrei? si chiede l’autrice nel titolo del suo articolo, per poi specificare meglio il tema: Una risposta a distanza sulla questione degli auguri ai non ebrei
La “distanza” del titolo non è, come si potrebbe pensare di questi tempi, una distanza fisica, ma temporale, perché l’articolo Auguri a chi? (apparso su «Kolòt») è stato pubblicato da Sandro Servi quasi dieci anni fa.
L’attualità non è data solo dalla questione in sé, ma anche dal fatto, ovviamente marginale, che qualche mese fa la sottoscritta (non ebrea di origini ebraiche, madre di due figli avuti da un non ebreo) ha ricevuto un graditissimo Mazal tov nella rubrica Auguri (distinta dalla rubrica Anagrafe, in cui – a quanto capisco – si dà notizia dei nuovi nati nelle Comunità toscane, ovvero dei neonati aventi diritto all’iscrizione) del numero 6 di «Toscana ebraica. Bimestrale di notizie e cultura ebraica», in occasione della nascita di mia figlia Miriam (analoghi auguri, nella medesima rubrica del numero 6 del 2019, mi erano stati fatti per la nascita del mio primogenito, Noè), in qualità di «amica e collaboratrice di Toscana ebraica» (firmataria di otto articoli dal 2017 a oggi).
Nell’articolo succitato Servi prende spunto dagli auguri pubblicati su un anonimo «giornaletto» comunitario e rivolti a due famiglie “miste” per la nascita di bambini figli di padre ebreo e madre non ebrea (e dunque non ebrei, visto che la pratica del ghiur qatan è stata abbandonata già da qualche decennio nel mondo ortodosso italiano) per rivolgere a ventiquattro (!) rabbini italiani (tenuti anonimi nell’articolo) la seguente domanda: «Nel caso della nascita di un/a bambino/a in un matrimonio misto, in cui il padre è iscritto alla Comunità e la madre non lo è (in quanto non ebrea) e in cui non sia stato fatto un ghiur (conversione) al/la bambino/a, come giudicate l’iniziativa di pubblicare [sul “periodico di una Comunità Ebraica Italiana” (n.d.r.)] gli auguri per tale nascita? (per es. “doverosa, opportuna, irrilevante, inopportuna, proibita ecc”)».
Dalle opinioni riassunte o citate dall’autore si evince che per quasi tutti i rabbini interpellati – diciotto su diciannove (cinque si erano sottratti al quesito, tre con il silenzio e due invitando Servi a rivolgersi al rabbino della Comunità interessata) – congratularsi per la nascita di un non ebreo dalle colonne di un periodico “comunitario” è come minimo inopportuno.
Il fatto è che la domanda è posta, a mio parere, alle persone sbagliate, perché i rabbini sono portati a giudicare della bontà alachica di un comportamento, ma «Toscana ebraica» non è espressione di un’assemblea rabbinica (tanto è vero che vi scrivono anche dei non ebrei), bensì di una comunità ebraica (in fertile osmosi con la società circostante), o meglio di quattro (Livorno, Pisa e Siena, oltre a Firenze), e non è il giornale parrocchiale bisognoso della preventiva approvazione del prete che sembra avere in mente Servi quando si chiede «se il rabbino di quella Comunità fosse informato della notizia, se ne fosse il promotore o se l’avesse convalidata».
Già, ma che cos’è una comunità ebraica? Si potrebbe pensarla come una corporazione (questo era nei secoli passati la universitas judaeorum, la “nazione ebrea”), ovvero un corpo. Il cuore è forse la Torà e la cultura ebraica, cioè il rispetto delle mitzvot e la conoscenza della cultura ebraica in tutti i suoi aspetti, dai più elevati ai più quotidiani (filosofici, storici, linguistici, musicali, gastronomici etc.) e le membra sono forse tenute in vita da quel cuore antico in costante divenire, ma di certo il liquido che le irrora, la famosa “identità”, può anche non provenire da quel cuore (e non c’è da meravigliarsi che la complessità del concetto faccia venire meno la semplificazione metaforica). L’identità ebraica può essere indipendente tanto dalla religione quanto dalla cultura, cioè dal livello di osservanza e di istruzione: il grado minimo dell’identità è l’identità in negativo, quella stabilita dal giudizio, spesso superficiale e denigratorio, dei non ebrei, che accomuna e include tutti, volenti o nolenti; nel mezzo ci sono identità varie quanto le persone.
Questa indipendenza e questa varietà garantiscono o dovrebbero garantire la laicità, che non è antitetica alla “religione” (anche perché il giudaismo non è una religione nel senso in cui lo sono le altre, piuttosto una tradizione variamente interpretata, cioè a cui si appartiene per vie e in modi diversi, per nascita o, eccezionalmente, per conversione, con o senza adesione ai precetti religiosi, con o senza consapevolezza culturale, spesso appunto per semplice vissuto), rappresenta il miglior antidoto al fanatismo (che è una forma degenerata di moralismo) e da sempre contraddistingue l’ebraismo italiano, in cui gli ebrei “buoni” dal punto di vista dei rabbini non sono mai abbondati (ma certamente aumenteranno percentualmente con il diminuire degli ebrei, nel senso che gli ebrei diminuiranno non solo a causa dell’assimilazione, ma anche per l’aumento del grado di osservanza richiesto dai rabbini a chi intende convertirsi), e non certo per colpa della laicità di cui sopra, semmai per ignoranza (che è un ottimo terreno di coltura del fanatismo).
Purtroppo, però, l’esistenza di un’identità ebraica non religiosa è spesso misconosciuta, per esempio da “Rav 17”, come lo chiama Servi, che afferma (i corsivi sono miei): «Una comunità non è da considerarsi ‘aperta’ se non ha regole e non ha identità, bensì è aperta se coloro che la compongono non svendono la propria identità ma in nome di essa sanno accogliere ed aiutare coloro che vivono uno status ebraico confusionario e vorrebbero comunque far parte della comunità stessa. Accogliere vuol dire aiutare gli altri a costruirsi o ri-costruirsi una reale identità ebraica e non annullare la nostra storia tradizionale e halachica per avvicinare. Posso avvicinare se ho una forte identità altrimenti farò solo danni, ma avere una forte identità significa anche saper avvicinare nel giusto modo». Negando la pari dignità delle identità ebraiche, cioè liquidando come false e deboli le identità non religiose, si nega automaticamente il principio, laico, che i responsabili dell’anonimo «giornaletto» non sono tenuti a essere buoni ebrei (come non lo sono i rappresentanti istituzionali di una Comunità che non sia costituita solo da religiosi). Denunciando – come fa Servi collocandosi in un filone ormai secolare – il rischio che l’assimilazione trasformi le comunità ebraiche in «agglomerati informi di persone dallo status sempre più confuso e incerto», «senza identità, senza valori, senza dignità» (come se la sola identità possibile fosse quella religiosa, la sola vera e dignitosa, e le altre, false, creassero degenerazione morale) si attua il paradigma classico e antistorico di un’originaria purezza progressivamente perduta (e rievocata con un rimpianto colmo di riprovazione per il tempo presente), senza curarsi delle frequenti smentite che provengono da un passato già “confuso”, o meglio complesso, periodicamente soggetto a irrigidimenti e recuperi ideologici.
Infine, anche se naturalmente la conclusione avrebbe potuto essere la stessa (“Non c’è un altro lato!” tuona il celebre violinista sul tetto dopo aver cercato un “altro lato” della questione che lo tormenta, per l’appunto il matrimonio della figlia con un goy), credo che l’autore dell’articolo avrebbe potuto cercare davvero un’altra prospettiva, per esempio ponendo la domanda a un ebreo osservante e colto che non fosse un rabbino. Peraltro, proprio per l’intrinseca laicità dell’ebraismo (quanto meno di quello “buono”, non cattolicizzato) credo che anche un venticinquesimo rabbino avrebbe potuto fornire una risposta diversa dalle precedenti, in linea con questo articolo.
A mio parere i motivi per fare quegli auguri non stanno, come ipotizza Servi, «nel voler dimostrare che la Comunità è aperta, accettante, che essa vuole avvicinare chiunque», cioè in una patetica dimostrazione di inclusività, ma in un prezioso esercizio di laicità.
Postilla
Colgo l’occasione per notare che, a quanto si è letto sui giornali, entrambe le vittime dei recenti episodi di antisemitismo accaduti in provincia di Livorno e a Firenze sono state offese dai loro aggressori pur non essendo alachicamente ebree, nel senso che entrambi gli adolescenti aggrediti in quanto ritenuti ebrei sono figli di matrimoni misti. Il che dimostra che gli antisemiti sono molto “inclusivi” e che la condivisione, voluta o meno, della storia e del destino del popolo ebraico da parte dei non ebrei discendenti di ebrei è una forma di appartenenza de facto di cui i tribunali rabbinici dovrebbero forse tener conto perché è purtroppo sancita da fatti di cronaca che, anche per ragioni demografiche, non potranno che aumentare (in mancanza di ebrei, gli antisemiti, loro sì lungimiranti, si accontenteranno dei discendenti).
Sara Natale Sforni