Cultura
Ebraismo e cultura italiana: apologia della complessità

Nel suo ultimo libro di Alberto Cavaglion affronta il rapporto mutevole fra ebrei e cultura italiana in un arco cronologico inconsueto: dalla Restaurazione al cinquantenario delle leggi razziali

Nella traiettoria degli studi ebraici e sugli ebrei italiani (le due declinazioni non necessariamente coincidono, trattandosi sia di oggetti di riflessione che di sguardi riflessivi tra di loro intersecati ma non omologhi) un posto di rilievo, in questi ultimi trent’anni, lo ha conquistato Alberto Cavaglion. In tutta plausibilità, oltre all’arguta intelligenza che informa le sue riflessioni, alla garbata acribia e alla piemontesità che traspare nei suoi stessi scritti, è la misura della sua scrittura, informata sempre ad un calco morale, a risultare compatibile con il ruolo di esegeta – non altrimenti lo si potrebbe definire – dell’ebraismo peninsulare. Del quale, nella sua garbata e calcolata capacità di analisi, che parte dall’impronta letteraria per arrivare ad altri traguardi, è al medesimo tempo parte interna e compagno di viaggio. Quindi, osservato ed osservatore al medesimo tempo.

Non è facile e gratuita apologia affermare che nelle sue pagine traspare una tradizione molto radicata nell’ebraismo italiano, che trova nel Risorgimento e nelle sue innumerevoli diramazioni un passaggio fondamentale in termini di identità. Ripetendosi poi nel lascito della guerra di Liberazione. L’autore sfugge a qualsiasi facile dicotomia, non nascondendosi tuttavia che nei momenti dei difficili transiti bisogna sapere scegliere da che parte stare. Il racconto che Cavaglion fa di una minoranza nazionale soprattutto attraverso l’analisi dei suoi quadri intellettuali, è quindi la trasposizione in sedicesimo della narrazione di un’intera nazione, della quale l’ebraismo è al medesimo tempo proiezione e sintesi. Proiezione nella misura in cui, attraverso la sua comprensione, rivela il suo essere anche uno specchio immediato della maggioranza non ebraica; sintesi in quanto l’ebraismo peninsulare è il precipitato di una nazione che fatica a tutt’oggi nel riconoscersi tale.

La dialettica tra minoranze e maggioranza in Italia ci restituisce il senso dei processi di elaborazione attraverso i quali le prime debbono rigenerare le ragioni della loro integrazione nel tessuto collettivo non di meno di quanto quest’ultimo risulti al contempo fragile e sostanzialmente indefinito. C’è quindi ancora molto da riflettere sul rapporto tra una piccola minoranza qualificata come «tradizionalista» sul piano identitario – che però non a caso trova nel rapporto con la componente “rivoluzionaria” valdese un’affinità che va oltre il sodalizio di circostanza – e la sua storica e solidissima collocazione su di un territorio che ha conosciuto la Controriforma (ma non la Riforma), la presenza secolare di uno Stato pontificio e il sistematico spezzettamento di domini e feudalità, lealtà e sudditanze tanto articolate quanto pervicaci.

In un’epoca che ha bisogno di modelli prima ancora che di eroi e martiri, Alberto Cavaglion sembra vestire i medesimi panni di Primo Levi. E questo non perché ne sia in qualche misura l’obbligato continuatore ma per via di quelle virtù quotidiane di cui entrambi, non importa in quale misura e proporzione personali, si sono rivelati essere titolari. D’altro canto, dietro l’amabile compitezza, entrambi, in epoche diverse, hanno manifestato una parte del proprio io assai più rupestre, fatta del senso delle asperità che l’amore per la montagna porta sempre con sé. Il maglione e gli scarponcini, in buona sostanza, sono gli stessi, al netto dell’urbanità e della finezza delle loro scritture.

Esaurito l’esergo che non intende essere panegirico ma fotografia che inchioda il biografato più a responsabilità che non a meriti, rimane il ricorso al suo lavoro intellettuale. Che è una tessitura di oramai lungo periodo, basata com’è sul binomio tra letteratura e personaggi del panorama intellettuale. Cavaglion anche nella sua ultima opera, La misura dell’inatteso. Ebraismo e cultura italiana (1815-1988), pubblicato per i tipi di Viella (Roma 2022, pp. 271, euro 28), continua l’opera di scavo dei rapporti tra italianità ed ebraicità. In questo lavoro si rivela essere  un’inesauribile e immarcescibile talpa nel laboratorio della letteratura. Diciannove capitoli, che corrispondono ad altrettanti saggi, costituiscono questo nuovo volume, che è anche il riordino di materiali raccolti nel tempo. Si parte dall’anno della Restaurazione, il 1815, per arrivare al 1988, cinquantenario dell’emanazioni delle leggi razziali. Non è un caso poiché le dinamiche raccolte e raccontate nei diversi testi trovano nel ripetersi di aperture e chiusure (libertà e costrizione, integrazione e persecuzione, dialogo e rigetto) il loro fuoco dialettico.

Le scritture raccoltevi ruotano intorno ad alcuni poli di riferimento: il liberalismo borghese del XIX secolo e i suoi (molti) limiti, il dialogo tra culture diverse di contro sia agli assimilazionismi che ai separazionismi identitari, il dialogo ebraico-italiano tra primo sionismo (di cui l’autore è grande conoscitore e scandagliatore) e tensioni intestine al mondo ebraico, il fenomeno socioculturale del «modernismo», le molte declinazioni dell’antifascismo coltivato anche come religione civile e impronta etica, la libertà di coscienza e di conoscenza in una società a forte prevalenza cattolica ed in accelerata evoluzione, il «fare i conti con il fascismo» (che poi implica l’imparare a fare di conto con la democrazia). Nel suo complesso il lettore non troverà una raccolta di medaglioni sulle figure più insigni, trattandosi semmai di un lavoro dedicato ai margini, quindi sui personaggi minori ma fortemente radicati nel tempo e nei luoghi d’origine. Anche per questo in Cavaglion l’attenzione per le figure eccentriche, tali poiché letteralmente fuori dal centro istituzionale dell’ebraismo, liberi battitori e cani sciolti (come si sarebbe detto un tempo) è il principale binario di scorrimento delle sue riflessioni. Poiché gli permettono non una “contro-storia dell’ebraismo” (immaginiamo sia un pensiero che rifiuti a priori, dal momento stesso che manca ancora una storia compiuta del medesimo, al netto di Momigliano ed altri ancora) bensì una raccolta di immagini e di momenti da ricostruire come parti di un più complesso collage. Per Alberto Cavaglion, d’altro canto, la vita è anche un insieme di carte da decifrare. Qualcosa, al medesimo tempo, di saviamente laico e intimamente ebraico.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


1 Commento:

  1. Articolo di grande raffinatezza e complessità .Presuppone una conoscenza accurata dellacultura ebraica nelle sue articolazioni.Esprime anche senso critico e inizia a sviluppare concetti di antropologia culturale della contemporaneità applicati all’opera.Ho già avuto modo di apprezzare Vercelli in altre occasioni nei suoi articoli e gli rinnovo la mia stima.


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