Per comprendere la grandiosità della Sinagoga Centrale di Sofia è necessario fare un passo indietro nella storia bulgara. E tornare ai primi anni del Novecento, quando gli ebrei, nella capitale, così come nel resto del paese, ricoprivano un ruolo fondamentale sia nella vita sociale sia in quella economica
Pochi conoscono davvero gli ebrei bulgari. C’è chi crede che siano ashkenaziti e che quanti sono rimasti (o tornati) a vivere nel paese balcanico siano i discendenti dei pochi sopravvissuti all’Olocausto. Ci si potrebbe perfino immaginare una piccola comunità chiusa e particolarmente religiosa.
Quasi niente di tutto questo è vero. In Bulgaria la comunità ebraica conta poche migliaia di appartenenti (le stime sono vaghe e ondeggiano tra le 2.000 e 6.000 anime), perlopiù raccolti intorno all’organizzazione Shalom, affiliata al World Jewish Congress , e concentrati nella capitare Sofia. Qui si trova anche una delle uniche due sinagoghe ancora attive del paese (l’altra è a Plovdiv), ma anche la terza per grandezza di tutta Europa, superata solo da quella Budapest e di Amsterdam. Con una capacità di più di un migliaio di fedeli, la Sinagoga Centrale di Sofia ne accoglie regolarmente appena una cinquantina, il che la dice lunga non solo sull’esiguità della comunità locale, perlopiù anziana o assimilata, ma soprattutto sulla scarsa affezione alle celebrazioni religiose.
L’altro pregiudizio che facilmente viene eliminato è sul rito seguito al tempio e, in generale, sull’appartenenza degli ebrei locali. Che sono prevalentemente sefarditi. Per quanto riguarda i loro piccoli numeri, che pure hanno ricominciato a crescere negli ultimi anni, portando in particolare nuovi allievi alle scuole ebraiche cittadine, questi sono dovuti al fatto che la quasi totalità della ricchissima comunità precedente l’Olocausto nel dopoguerra si è trasferita quasi interamente in Israele. Tanto per farsi un’idea, il censimento del 1920 contava a Sofia 16.196 ebrei, numero che avrebbe toccato i 25mila nel 1943 per poi scendere precipitosamente a 5.259 nel 1951 e via via diminuendo fino ai 3.000 del 2004.
Come già detto, gli ebrei bulgari si salvarono dai campi di sterminio e tra i grandi orgogli nazionali ci sarebbero proprio quelle 48mila vite strappate dalle mani dei nazisti. Poi, purtroppo, a questa narrazione si affianca quella riguardante la quasi totalità degli ebrei che nello stesso periodo vivevano nei territori occupati dalla Bulgaria in Jugoslavia e in Grecia. Qui i funzionari del governo filonazista deportarono 11.343 persone (7.122 dalla Macedonia e 4.221 dalla Tracia) nel campo di Treblinka, in Polonia. Di queste, se ne salvarono appena 12.
Le cose in patria andarono in maniera diversa, per quanto gli ebrei che risiedevano in Bulgaria a partire dal 1939 subirono una serie di legislazioni antisemite che li depredarono sia dei beni sia dei più elementari diritti civili. Con l’entrata in vigore della Legge per la protezione della nazione del gennaio del 1941 gli ebrei cominciarono a essere trattati come dei sovversivi, costretti ai lavori forzati e privati via via di tutte le cariche e mansioni che avevano precedentemente ricoperto anche all’interno dell’esercito. L’escalation di follia avrebbe toccato il vertice nel 1943, anno in cui quasi tutti gli ebrei erano ormai chiusi in prigioni, campi e ghetti. Il passo successivo avrebbe dovuto essere la loro espulsione, con deportazione e sterminio. Ma a quel punto parte del governo, della élite culturale e della stessa popolazione, affiancati dalle autorità religiose, si opposero all’estrema barbarie. Lo stesso zar Boris III, messo di fronte alla scelta tra deportare immediatamente 48mila persone nei campi o trasferire inizialmente gli ebrei di Sofia a lavorare nelle campagne, preferì la seconda opzione, accendendo al tempo stesso la miccia dell’opinione pubblica, che vide in quelle deportazioni il primo passo verso quella definitiva. Su chi sia stato il vero salvatore di tutte queste vite non è ancora dato sapere, tanto che gli storici si dividono tra quanti attribuiscono il merito allo zar, quelli che ringraziano la chiesa, chi i politici più illuminati, primo tra tutti Dimitar Peshev, e chi la popolazione. In ogni caso, il cosiddetto Salvataggio degli ebrei bulgari rientra tra i punti fermi della cultura popolare bulgara, ancora oggi fiera dell’opposizione del paese agli ordini del regime.
Salvata dallo sterminio, la comunità non sarebbe comunque più tornata ai numeri che avevano preceduto la guerra preferendo proseguire quel processo iniziato nel 1919 con le prime migrazioni in Palestina e che avrebbe portato circa 7.000 persone a lasciare la Bulgaria da lì alla fondazione di Israele. La più grande ondata di aliyah sarebbe avvenuta comunque tra il 1949 e il 1951, quando oltre 44mila ebrei emigrarono in Israele, spinti sia dall’estrema povertà in cui versavano in patria, nonostante una legge del 1945 avesse imposto la restituzione di tutti i diritti e i beni sottratti durante la guerra, sia dall’impoverimento della stessa vita religiosa dovuta all’assimilazione, particolarmente sentita in Bulgaria, e all’avvento del comunismo.
Per spiegarsi la grandiosità della Sinagoga Centrale di Sofia è dunque necessario fare ben più di un passo indietro nella storia bulgara. E tornare a un’epoca, quella dei primi anni del Novecento, in cui gli ebrei della capitale così come nel resto del paese ricoprivano un ruolo fondamentale sia nella vita sociale sia in quella economica. Erano, come si è detto, perlopiù sefarditi, discendenti degli spagnoli scacciati dalla Spagna a fine Quattrocento. Questa ondata migratoria si era andata a sommare a quelle che nei secoli precedenti aveva visto approdare nel paese balcanico prima gli ashkenaziti provenienti dall’Ungheria, dopo l’espulsione del 1376, e poi quelli della Baviera, dalla quale furono banditi nel 1470.
Prima di allora, la Bulgaria era comunque già stata meta di ebrei in fuga, come quelli che dal 681 vi giungevano per salvarsi dalle persecuzioni dell’Impero Bizantino. I romanioti costituirono per secoli la base della comunità bulgara, che nel XIV secolo vide accanto allo zar Ivan Alexander anche una ebrea convertitasi al cristianesimo, Sarah, sposatasi al sovrano con il nome di Theodora e poi venerata dal popolo come una santa. In generale i romanioti sarebbero rimasti i principali componenti della comunità bulgara almeno fino al XV secolo, con una sinagoga, la Kahal de los Griegos, la Sinagoga Greca, rimasta in piedi fino al 1898. Dal 1640 le tre comunità di Sofia si erano comunque già raccolte intorno a un solo rabbino e sotto l’unico culto sefardita, i cui rappresentanti, più numerosi, colti e prosperi, erano diventati predominanti sin dal XVI secolo. Per quanto integratisi con i sefarditi, gli ashkenaziti della prima ora avevano a loro volta mantenuto una propria sinagoga, chiamata la Kehillat Ashkenazim per distinguerla da quella dei nuovi ashkenaziti, che provenivano da Russia, Romania, Ungheria, Germania e Galizia.
Dal punto di vista economico e sociale, tra il Cinque e il Seicento gli ebrei di Sofia si erano distinti in città come artigiani e uomini d’affari. Le attività commerciali erano favorite dal fatto che Sofia fosse un centro di transito per le merci che venivano inviate da Salonicco a Bucarest, Belgrado e altre città. Nel corso del XVII secolo, in particolare, dopo una fallita ribellione contro il dominio turco, i mercanti di Dubrovnik, che occupavano un posto importante nella vita economica di Sofia, si trovarono a cedere la loro posizione ai rivali ebrei, che controllavano ormai l’intero commercio. Era un’epoca in cui la comunità cittadina contava ormai 2.000 anime, comunicava prevalentemente in ladino e aveva da tempo abbandonato l’yiddish, che già nel XVI secolo non si sentiva più parlare per le strade di Sofia.
Quando nei primi anni del Novecento la comunità di Sofia iniziò a raccogliere donazioni per la costruzione di una nuova, imponente sinagoga degna dei grossi numeri della capitale, non tutti furono comunque d’accordo con il progetto. I rappresentanti del sionismo, che cominciava a radicarsi nella comunità bulgara, non vedevano il senso di un tempio tanto grande, visto che l’obiettivo era trasferirsi in Terra Santa, altri ritenevano la spesa in conflitto con le altre esigenze della comunità, dalla costruzione di scuole al sostegno dei più bisognosi. Nonostante le riserve, comunque, il progetto andò in porto, coinvolgendo nella progettazione l’importante architetto viennese Friedrich Grünanger. Questi in pochi anni portò all’inaugurazione, il 9 settembre 1909, di un tempio che per lo stile neo moresco con elementi della Secessione per certi versi ricorda la sinagoga Tempelgasse di Vienna, distrutta dai nazisti nel 1938. La celebrazione avvenne alla presenza dello zar bulgaro Ferdinando, di sua moglie Eleonore e dei principali rappresentanti del mondo politico e della Chiesa Ortodossa.
Oggi, nonostante i restauri resi necessari dai danni subiti durante la guerra, il tempio in Exarch Joseph St. 16 avrebbe ancora bisogno di qualche intervento di manutenzione, ma questo non oscura la magnificenza sia della facciata sia dei suoi interni riccamente affrescati e decorati con mosaici veneziani policromi, colonne di marmo e intagli. L’edificio si presenta a pianta rettangolare con cupola centrale e portico, mentre il santuario è ottagonale, con quattro semicupole agli angoli separati da spazi rettangolari. Preceduto da un ampio cortile come vuole la tradizione sefardita, l’ingresso conduce a una sala di preghiera da 1.170 posti a sedere sovrastata da una cupola ottagonale. Da qui pende un enorme lampadario di 1.700 chili realizzato in ottone, a Vienna, su progetto di Friedrich Grünanger. La sala principale ha un diametro di 20 metri e la sua altezza totale è di 31 metri. Oltre a costituire il principale luogo di preghiera della città, fin dall’epoca della sua costruzione la sinagoga sefardita era stata presentata come un dono che la sua comunità ebraica offriva alla città di Sofia, a testimonianza del forte legame con il popolo bulgaro.
Dal 1992, l’edificio della sinagoga ospita anche un piccolo museo di storia ebraica. Voluto e curato dall’organizzazione Shalom, costituisce la naturale prosecuzione della mostra permanente “La salvezza degli ebrei bulgari 1941-1944”, qui organizzata dal 1968 al 1990. Dedicato alla localizzazione, alla conservazione, allo studio e alla divulgazione del patrimonio storico e culturale ebraico in Bulgaria, comprende oggi due esposizioni permanenti: “Comunità ebraiche in Bulgaria”, che ripercorre la storia dell’insediamento ebraico e della loro pacifica convivenza secolare con i bulgari dai tempi antichi fino alla aliyah dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, e “L’Olocausto e la salvezza degli ebrei bulgari”. Vi si trovano esposte foto documentarie e collezioni di edizioni a stampa, oggetti rituali e legati alla tradizione, al costume, alla vita quotidiana e alla cultura giudaica.
Un altro luogo che ricorda l’importanza sia numerica sia sociale della comunità ebraica bulgara è il suo cimitero, che occupa una sezione di 50mila metri quadrati all’interno del Cimitero Centrale di Sofia in Zavodskya St. 14 e comprende circa 7.000 lapidi. Per la maggior parte purtroppo rovesciate o rotte, queste sono realizzate in granito, marmo e pietra calcarea e incise in bulgaro, ebraico e ladino; risalgono perlopiù al XX secolo e riportano l’immagine fotografica del defunto. Il cimitero, che è murato, recintato e custodito, contiene anche diversi ohalim e una tomba commemorativa per gli ebrei uccisi dai fascisti. Più ancora della Sinagoga Centrale avrebbe bisogno di fondi e donazioni per la sua manutenzione, che il Consiglio Spirituale Israelitico Centrale può solo in parte provvedere a fornire.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.