Cultura
Grano e sangue: l’ebraismo bielorusso tra Ottocento e Novecento

Analisi approfondita della presenza ebraica in un territorio dove il radicamento ebraico, al pari di quanto avvenuto in altri territori dell’Est, è di antica radice

In una guerra, quella di invasione russa dell’Ucraina, che oramai sta sullo sfondo opaco delle nostre quotidiane priorità (a proposito, se un anno fa ci stracciavamo le vesti per l’Afghanistan, c’è qualcuno che abbia cognizione e memoria della drammatica situazione in cui versa quel paese, stretto com’è tra la morsa delle inondazioni e una crisi alimentare senza fine?), quel che in un primo tempo procura sconcerto e scandalo con il tempo diventa invece parte di una sorta di abituale panorama. Ci si adatta a molto, quasi a tutto. A partire dai rumori di fondo del cannone. Soprattutto se i suoi proiettili colpiscono qualcun altro. Peraltro, in tempo di elezioni si vocifera molto delle influenze russe su forze politiche europee. Tuttavia, si parla di meno degli storici alleati di Mosca. Tra questi svetta la Bielorussia di Aleksandr Grigor’evič Lukašenko (in bielorusso Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnka), che governa ininterrottamente dal 1994. Si tratta di un paese di poco meno di dieci milioni di abitanti, per 207mila chilometri quadrati, senza sbocco sul mare, spesso confuso con la stessa Federazione russa poiché storicamente sospeso -e compresso – tra la presenza dei tre Stati baltici, la Polonia, l’Ucraina e la Russia medesima. Sulla direttrice che dall’Europa occidentale porta direttamente a Mosca, come ben sapevano i tedeschi quando nel 1941 lo invasero, con l’obiettivo di distruggere il più velocemente possibile l’Unione Sovietica di Stalin ma anche l’ebraismo nazionale.

Ad oggi Lukašenko è l’alleato più fedele di Putin. Vocato, al pari del suo omologo moscovita, all’autocrazia – anch’egli cresciuto negli ambienti del comunismo sovietico degli anni Ottanta, durante le trasformazioni e le lacerazioni che si stavano producendo in esso, fino al crollo dell’Unione Sovietica – di fatto si deve confrontare con un’economia debole e subalterna, costretta ad un rapporto pressoché unidirezionale con Mosca. La quale ha sostenuto, già nel passato, Lukašenko dinanzi alle montanti proteste di piazza, aiutandolo a sedarne la carica conflittuale. La presenza ebraica è attualmente di scarso rilievo, stimata nell’ordine dello 0,1% della popolazione, ossia meno di diecimila individui. Tuttavia il radicamento ebraico, al pari di quanto era avvenuto in altri territori dell’Est, è di antica radice.

Nell’ampio spazio geo-antropico compreso tra i fiumi Bug, Njemen, Dniepr e Pripjat, gli ebrei risiedono da almeno il XIV secolo. La formazione e il consolidamento del Granducato di Lituania (che comprendeva anche i territori dell’attuale Bielorussia nell’arco di tempo compreso tra il 1236 e il 1569) si accompagnò infatti alla concessione di diritti di libertà ed emancipazione che favorirono l’insediamento e lo sviluppo di robuste e fiorenti comunità locali. L’immigrazione nel Granducato era in tale senso favorita. Senza ripercorrere tutte le tappe di questa integrazione secolare, si può ricordare che fino alla fine del XVII secolo, ed anche per il cinquantennio successivo, sia pure con crescenti limitazioni, le comunità ebraiche conobbero un lungo periodo di sostanziale sviluppo, godendo non solo di un regime di solide protezioni ma anche di un buon grado di autonomia. Di fatto questi elementi concorsero a stabilizzare la presenza ebraica ad Est, facendo dell’insediamento aschenazita il fuoco dominante dell’ebraismo in età moderna.

Più che la tolleranza religiosa – che conobbe comunque anche periodi intermittenti, per le fratture generatesi nel tempo con il clero cattolico – contava la presenza nel tessuto economico e nelle relazioni sociali: in entrambi i casi l’ebraismo era parte integrante della stabilità dei territori nei quali risiedeva. Tale condizione era riconosciuta (e incentivata) dalle autorità politiche. In quella che poi sarebbe divenuta l’attuale Bielorussia non a caso si trasferirono non pochi ebrei che nell’Europa occidentale, invece attraversata dai conflitti in corso tra protestanti e cattolici, non potevano trovare alcuna tutela. La stessa etimologia dei cognomi testimonia delle origini olandesi, francesi, tedesche se non addirittura inglesi di una parte dei nuclei famigliari.

Questa sequenza relativamente fortunata si interruppe una prima volta a metà del 1600, a seguito delle sollevazioni cosacche e delle guerre contadine che infiammarono una parte dei territori. Non di meno, va ricordato che il territorio bielorusso fu nel 1700 il teatro della nascita e dell’espansione del movimento mistico chassidico, al quale si contrappone l’osservanza dei mitnagdim tradizionalisti. Con la fine del  XVIII secolo gli ebrei della regione vennero incorporati nell’Impero russo. In quelle terre nacque la cosiddetta «zona di residenza», che si estendeva dal Baltico fino al Caspio, arrivando infine a comprendere circa cinque milioni di membri delle comunità locali. Si trattava di un’ampia area, abitata da ebrei e non, che nelle intenzioni delle autorità zariste doveva costituire un vero e proprio cuscinetto tra il cuore dell’Impero e le società occidentali. La mobilità al suo interno e, soprattutto, al suo esterno, era fortemente vincolata dalle autorità. Di fatto la gigantesca concentrazione di ebrei, tra cui quelli residenti nei futuri territori bielorussi, era obbligata ad uno stile di vita dove l’elemento prevalente era l’estrema povertà. Le numerose interdizioni giuridiche, tra cui quelle che vincolavano il possesso di terreni, il lavoro agricolo, la possibilità di affittare a terzi le proprietà, incidevano radicalmente nella marginalità della componente ebraica. La quale, tuttavia, secondo il censimento imperiale del 1897 in Bielorussia ammontava oramai a 725.558 elementi, costituendovene una parte significativa della popolazione, pari al 14 per cento complessivo. A seconda dei governatorati e dei distretti presi in considerazione le misure indicavano comunque una forte incidenza: a Vilna, su 1.591.207 abitanti 204.686 erano ebrei (12,8%); a Vitebsk, dei 1.489.246 elementi, gli ebrei erano 175.629 (11,8%); a Grodno, la presenza era di 280.489 su 1.603.409 (17,5%); a Minsk, dei 2.147.621 soggetti 345.015 erano ebrei (16%); a Mogilev, infine, il rapporto era di 203.946 su 1.686.764 censiti (12,1%).

Ad attività economiche perlopiù di auto-sostentamento se non di mera sopravvivenza, orientate perlopiù al commercio e all’artigianato, si affiancavano gli impegni nello studio delle Scritture e nella reiterazione di un patrimonio di saperi non scalfito dal confronto con l’evoluzione dei tempi. Dominava quindi la dimensione comunitaria, l’«yiddishkeit», intesa come organizzazione sociale totalizzante, in grado di impegnare l’individuo, assorbendolo in quelle che erano le sue pratiche quotidiane: la sinagoga (shul oshtibl, «scuola» o «piccola stanza»), il mercato e la scuola talmudica erano i luoghi nei quali si vivevano i momenti di socialità. Nessun spazio era offerto all’individuo in quanto tale, di contro all’ebraismo occidentale che, invece, stava conoscendo un forte sviluppo della dimensione individualista. La famiglia allargata, costituita da più generazioni coresidenti nella stessa abitazione, era l’unità sociale di base. Lo status era determinato tanto dai beni posseduti quanto dal numero di antenati illustri presenti nel proprio albero genealogico. La mendicità era un dato cronico. Agli ebrei, di fatto, era interdetta l’attività agricola, cosa che obbligava le locali comunità ad optare per lavori di intermediazione commerciale e artigianale, connotati tutti da una profonda modestia.

La povertà e la marginalità degli ebrei non impediva alle altre popolazioni, tuttavia, di alimentare l’avversione nei loro confronti, stigmatizzati sia sulla scorta degli antichi pregiudizi che in ragione della politica perseguita dal potere centrale zarista, interessato ad alimentare l’antisemitismo di Stato. La separazione conflittuale e le ostilità erano consapevolmente alimentate da Mosca, che se da un lato si adoperava per tenere divise le nazionalità, dall’altro temeva le potenzialità “disgregatrici” che la crescita demografica dell’ebraismo autoctono avrebbe  potuto generare, qualora non fosse stato contenuto in uno spazio sociale e geografico ristretto. In questo senso erano volti i ripetuti tentativi di “russificarne” la cultura e le abitudini, operati dai sovrani che si succedettero alla guida del paese dalla prima metà dell’Ottocento in poi. In sostanza, si trattava di recidere ogni aspetto della tradizione comunitaria giudaica mantenendo, però, lo stato di soggezione dei singoli. I quali, soprattutto con l’obbligo al servizio militare maschile e con la pratica delle conversioni coatte, erano sottoposti a continue vessazioni.

Le successive agevolazioni, peraltro assai timide, introdotte dallo zar Alessandro II (e ben presto revocate), non incidendo nel merito dei problemi, di fatto mantennero gli ebrei in uno stato di totale sudditanza. Pur offrendo alle famiglie più agiate alcune libertà, tra cui quella di abitare al di fuori della zone di residenza, e garantendo ai figli di queste occasioni di promozione sociale, non sanarono le spaccature presenti nel corpo del paese. Semmai, per certi aspetti, le accentuarono. Si creò cosi una nuova borghesia ebraica, del pari a un ceto intellettuale, quantitativamente minoritari ma culturalmente vivaci l’una e l’altro, che potendo accedere agli studi e ai luoghi di formazione e comunicazione delle opinioni, fecero proprie le idee liberali provenienti dall’Occidente. L’idea che l’aprirsi alla cultura non costituisse un rischio era tuttavia appannaggio di quei pochi che avevano l’istruzione, la sensibilità e i mezzi per vivere diversamente dai loro correligionari. Non una questione di masse, quindi, ma di piccoli gruppi. L’effetto ultimo fu quello di ingenerare un’ulteriore divisione tra quanti, scegliendo la città e l’educazione russa, vivevano tale forma di “moderata” emancipazione come un affrancamento dall’oscurantismo religioso e il resto della popolazione ebraica, consegnata ad ataviche servitù, intimamente convinta che una concezione ed una pratica tradizionaliste, oramai completamente estranee all’evoluzione dei tempi, fossero comunque l’unica garanzia di sopravvivenza in un paese altrimenti minacciosamente ostile.

Alla cruenta morte di Alessandro II, nel 1881, seguì un turbolento periodo. L’Impero zarista era attraversata dalle rivendicazioni di cambiamento sociale e politico. Le istanze populiste e socialiste si contrapponevano al panslavismo degli uomini di corte e degli ambienti reazionari. In questo contesto, l’accusa rivolta ai liberali era di adoperarsi per l’indebolimento del paese. Gli ebrei – dal canto loro – erano presentati come gli ispiratori dei movimenti riformisti non meno che di quelli rivoluzionari, accusati di volere disgregare la società russa sulla scorta di oscuri disegni. È in questo periodo che l’antisemitismo conobbe una rinnovata fortuna, alimentandosi dei cliché che venivano propagandati dalla polizia politica zarista. Dopo il 1881 anche i territori bielorussi furono così luogo di violenze e saccheggi ai danni delle comunità ebraiche. Il fenomeno dei «pogrom» (in russo «distruzione»), azioni collettive contro gli insediamenti rurali e urbani in cui vivevano da secoli ebrei, nel corso dei quali non pochi di essi venivano uccisi, nella sua apparente spontaneità era ampiamente tollerato se non guidato dalle autorità. La sua diffusione capillare in tutti i luoghi in cui esistevano comunità ebraiche causò, nel volgere di poco tempo, una situazione insostenibile per i più. I quali, avendo perso casa, averi e lavoro, si trovarono nella condizione di essere sfollati dai luoghi d’origine, senza mezzi per la propria sussistenza e senza una qualche prospettiva futura. Le città delle zone di residenza, già affollate da un grande numero di persone alla ricerca di occupazione, divennero così ancora più invivibili. A molti ebrei di fatto era proibito avere di che sopravvivere se non attraverso la mendicità.

Alla fine dell’Ottocento, le ulteriori restrizioni che, tra l’altro, avevano reintrodotto il numero chiuso nelle università e obbligato gli ebrei moscoviti ad abbandonare la città per risiedere coattivamente nella Zona di residenza, facevano sì che queste ultime fossero delle grosse enclavi giudaiche dove chi vi era obbligato non aveva altra opportunità che quella di cercare di sopravvivere alla meno peggio. Circa 650 tra leggi e norme amministrative  vincolavano la vita collettiva. Una corposa ondata di migranti, a partire dal 1881, rivolta verso l’Europa continentale, gli Stati Uniti e, in minore misura, la Palestina ottomana, trasformò di lì a non molto il destino di parte dell’ebraismo aschenazita. E con esso, ovviamente, di quello bielorusso.

La regione, tuttavia, per tutto il XIX secolo era stata il centro della vita culturale, spirituale e dell’istruzione ebraica. Povertà e alfabetizzazione si accompagnavano, in un’insolita miscela, sconosciuta perlopiù dalle altre minoranze. Le accademie talmudiche di Minsk, Volozhin, Mir, Slutsk, Ivje erano universalmente conosciute come luoghi di produzione del sapere. Si trattava di una commistione tra tradizionalismo e intellettualità che si rifletteva non solo sulle comunità ebraiche maggiormente vincolate dal rispetto dell’osservanza religiosa. La Rivoluzione del febbraio 1917, nel mentre, segnò la conclusione del dominio zarista. Le vicende dell’ottobre successivo, con il colpo di mano bolscevico e l’ulteriore sovvertimento di ciò che residuava dell’arcaico e feudale sistema dei poteri pubblici, decretarono l’estinzione di ogni vincolo o costrizione legale nei confronti dell’ebraismo locale. Nel 1919 la nascita della Repubblica socialista sovietica della Bielorussia, integrata nell’Urss dal 1922, comportò per l’ebraismo l’adeguamento al nuovo regime.

Le autorità bolsceviche da un lato reclamavano la parità più assoluta dei nuovi cittadini dinanzi alle leggi e l’abrogazione di qualsiasi privilegio pregresso. La decadenza delle interdizioni formali, che avevano invece suggellato per tutto l’Ottocento la diseguaglianza legale nell’accesso ai diritti, dischiudeva un mondo di opportunità che venivano ora garantite a tutti, indistintamente. Dall’altro lato, nel tentativo di forgiare una sorta di «cittadinanza sovietica», basata sulla fedeltà nei confronti dei nuovi poteri – ancora molto deboli a livello locale – si moltiplicavano le misure che erano volte a cancellare ogni forma di autonomia comunitaria come anche politica. Con i primi anni Venti, mentre le organizzazioni politiche e sindacali ebraiche, insieme a quelle sioniste, furono costrette alla clandestinità (oppure letteralmente omologate, e successivamente disintegrate, dentro il partito unico), iniziò un parallelo processo di dispersione dell’ebraismo bielorusso nella campagne. Dentro la cornice di un fittizio percorso di emancipazione attraverso l’accesso al lavoro, gli «shtetlekh», i villaggi rurali ebraici, furono trasformati in fattorie collettive e in unità di produzione. Questo progetto funzionò tuttavia solo in misura minore. Se nel 1926 a Minsk la popolazione era per il 40,8% composta da ebrei (53.686 elementi), nel 1939 costituiva ancora il 30% (70.998 soggetti). Inoltre, come in parte già era avvenuto in epoca zarista, anche in età bolscevica, ed almeno fino all’inizio degli anni Trenta, lo yiddish costituì una delle quattro lingue nazionali (insieme al bielorusso, al russo e al polacco) comunemente utilizzate nelle relazioni sociali. Molta della cultura ebraica era diffusa attraverso il ricorso all’idioma ebraico mentre l’Accademia bielorussa delle scienze aveva a sua volta una sezione yiddish. Il problema, dal punto di vista stalinista, non era tanto la persistenza dell’ebraismo come tale ma il suo costituire una entità non inquadrabile, né tanto meno gestibile, con gli abituali strumenti della cosiddetta «politica delle nazionalità» poiché trasversale a molti dei gruppi nazionali dell’Est europeo.

Con il 1939 e l’occupazione germano-sovietica della Polonia, l’annessione della Bielorussia occidentale all’Unione Sovietica comportò il raddoppio della popolazione e, con essa, del numero di ebrei che vi risiedevano. All’epoca si arrivò a circa 9 milioni di abitanti, dei quali circa il 10,5% erano ebrei. Quando nel giugno del 1941 la Germania nazista invase l’Urss, penetrando ben presto anche in Bielorussia, nel territorio occidentale risiedevano 670mila ebrei e in quello orientale 405mila. Il numero era lievitato anche in ragione della fuga di una parte dell’ebraismo polacco ad Oriente. Ed è in questo frangente che si avvia la grande catastrofe della società ebraica dell’Europa orientale.

Continua

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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