Contrariamente a quanto avvenne in Bielorussia e in parte dell’Ucraina, molte famiglie cercarono di mettersi in salvo da subito, temendo prima ancora che le violenze tedesche quelle dei loro connazionali
Quando le truppe tedesche, nelle prime ore del 22 giugno 1941, varcarono le linee di confine con l’Unione Sovietica, invadendone gli immensi territori, nelle repubbliche baltiche la popolazione ebraica cercò da subito di aggregarsi alle truppe russe in veloce ritirata. La fragile posizione dei tre paesi era evidente e chiunque osservasse una cartina: quand’anche l’avanzata nazista non fosse stata così veloce, come poi invece si rivelò nei fatti, l’occupazione delle terre settentrionali si sarebbe senz’altro compiuta in tempi comunque rapidi. La loro difesa, da parte sovietica, era impensabile. I nazionalisti locali, d’altro canto, fremevano per l’arrivo degli invasori, ritenendo l’incorporazione dei tre stati nell’Urss, avvenuta un anno prima, non solo un atto privo di qualsiasi legittimità ma anche una delle peggiori calamità incorsegli. L’attribuzione di colpa agli ebrei valeva anche in questo caso, essendo denunciati come i grandi burattinai dell’annessione sovietica. Peraltro, il «bolscevismo» era visto dalla quasi totalità delle classi medie come una sorta di fantasma, destinato a produrre impoverimento e miseria attraverso le politiche di esproprio, nazionalizzazione, centralizzazione, pianificazione e così via. L’equazione con l’ebraismo faceva sì che il «giudaismo internazionale» fosse indicato come il vero problema per i nazionalisti dell’Est.
Le tensioni erano quindi evidenti e, contrariamente a quanto avvenne in Bielorussia e in parte dell’Ucraina, molte famiglie cercarono di mettersi in salvo da subito, temendo – a piena ragione – prima ancora che le violenze tedesche quelle dei loro connazionali. In realtà, a fronte di una popolazione ebraica originaria di 350mila soggetti, a parte quanti erano stati deportati ad Est nelle settimane precedenti all’invasione, poiché identificati dagli stessi sovietici come soggetti pericolosi o «nemici di classe» (e quindi, per puro paradosso, sottratti alla furia omicida nazista), solo 25mila fuggitivi riuscirono concretamente nel loro intento di salvarsi raggiungendo le regioni controllate dai sovietici. Di essi, quasi la metà – ossia tutti i maschi considerati in grado di combattere anche solo reggendo in mano un fucile – fu ben presto incorporata nell’Armata rossa, andando ad integrare i reparti di origine baltica che cercavano di contrastare l’avanzata tedesca.
La Wehrmacht impiegò quindi poco tempo per garantirsi il pieno controllo dei territori. In diverse località, l’intermezzo che si andò creando tra l’abbandono dei sovietici e l’ingresso dei nazisti fu impegnato dall’azione di bande miste, composte da militanti dei gruppi nazionalisti così come da criminali comuni, questi ultimi liberati dalle prigioni (nelle quali, intanto, i sovietici avevano provveduto ad eliminare una parte dei prigionieri politici), insieme ad esponenti delle istituzioni locali, tra cui anche il clero, che non si erano lasciati assoggettare ai disegni annessionisti di Mosca. L’obiettivo dichiarato era quello di fare piazza pulita della residua presenza comunista. In realtà, ciò che avvenne fu una brutale successione di sanguinosi pogrom, dove ad assassinii, stupri, atti vandalici di ogni genere e tipo, così come rapine e quant’altro, si accompagnava una sorta di rivalsa nei confronti della presenza ebraica, giudicata tout court come una quinta colonna non solo sovietica ma “straniera”.
La ferocia di queste esecuzioni, quasi tutte consumate in pubblico, molto spesso dinanzi ad una folla assenziente, se non in tripudio, avrebbe spiazzato e disgustato gli stessi tedeschi, poco propensi a portare a termine i loro compiti criminali trasformandoli in un qualche spettacolo ad uso e consumo degli astanti. D’altro canto, al netto del ribrezzo per le modalità materiali con le quali i carnefici si adoperavano nel loro compito omicida, questo risultava comunque gradito ai nuovi occupanti, vincolando e fidelizzando le componenti nazionaliste locali – ed una parte della stessa società civile – al proprio disegno di assoggettamento dei baltici. Il quale si basava su un principio, apertamente teorizzato dalla dirigenza nazista, ossia che non c’è modo migliore di garantire a sé qualcuno vincolandolo attraverso una sorta di patto di sangue: ti lascio commettere un omicidio e, così facendo, ti rendo ricattabile, quindi assoggettato per sempre al mio volere.
Su un piano più strettamente operativo, le autorità tedesche avevano previsto che dal momento in cui fosse avviata l’invasione dell’Unione Sovietica, i gruppi nazionalisti, non solo nei Paesi baltici, si sarebbero mossi per cercare di garantirsi un autonomo spazio di azione. L’idea che muoveva una parte di questi ultimi, infatti, era che i nazisti avrebbero voluto (o dovuto) confidare sulla presenza di forze locali leali, disponibili ad appoggiarli nell’opera di controllo dei territori. Un’altra parte, invece, avrebbe senz’altro cercato di seguire la via dell’indipendenza. Nel qual caso, aveva postulato Berlino, ci si sarebbe comportati di conseguenza, neutralizzandone la potenzialità offensiva (come poi avvenne, ad esempio, in Ucraina, con l’eliminazione fisica degli esponenti e dei militanti un tempo filotedeschi). Più in generale la Germania considerava, ponderava e calcolava, sia pure con tutte le cautele dettate dalle circostanze, il coinvolgimento dei gruppi anticomunisti – come anche della popolazione locale – negli attacchi agli ebrei. Si trattava non solo di delegare ad altri una parte dei compiti più sporchi ma di diffondere il convincimento che l’unica soluzione del “problema” del rapporto tra ebrei e non ebrei consistesse nella scomparsa fisica dei primi. In altre parole, si trattava di un’opera di socializzazione allo sterminio. La qual cosa non consisteva necessariamente nel partecipare direttamente alle attività delle unità tedesche ma nell’accettare da subito la radicalizzazione del clima antisemitico.
L’ipotesi più accreditata era quella di fare sì che le esecuzioni di massa – anticipate dai pogrom “popolari”, presentati come una dolorosa ma necessaria resa dei conti contro il «giudeo-bolscevismo» – ancorché eseguite dalle truppe di occupazione, a partire dalle SS, venissero giudicate come l’adempimento di un compito a favore delle popolazioni locali. La responsabilità criminale nazista ne sarebbe uscita di molto diminuita, nel qual caso. Dopo di che, va anche sottolineato che, malgrado le mistificazioni e le falsificazioni dei gruppi nazionalisti, la quasi totalità delle loro vittime non era in alcun modo responsabile di quanto era avvenuto nell’anno di dominio sovietico. Quanti ne erano rimasti coinvolti, come correi, erano semmai fuggiti per tempo insieme alle truppe in ritirata. Ad essere aggrediti, vessati e spesso assassinati erano invece coloro che, pur temendo l’evoluzione delle cose, non avevano abbandonato le terre d’origine, vuoi perché confidavano in una sorte migliore di quella che effettivamente gli toccò vuoi perché materialmente impediti.
Pur con diverse similitudini, tuttavia la Shoah nei Paesi baltici seguì tempi e modi anche differenti, in base soprattutto ad alcune variabile, tra le quali il numero di ebrei residenti, il rapporto (non del tutto omogeneo) tra nazionalismo locale e antisemitismo, le politiche di occupazione, l’atteggiamento prevalente tra la popolazione locale, le modalità con le quali i tedeschi trattavano le popolazioni baltiche, classificate secondo criteri anch’essi razziali. Vale quindi la pena entrare nello specifico della riflessione, caso per caso.
In Lituana, su circa 220mila ebrei residenti (per altre fonti 250mila) almeno 196mila furono eliminati (anche qui, tuttavia, c’è chi incrementa il numero fino a 254mila, mentre altre stime lo riducono a 164mila). Una cifra di tale genere tiene in considerazione coloro che riuscirono ad abbandonare il paese prima e durante l’invasione, quanti poterono fuggire dai ghetti di Kaunas e Vilnius (tra i 1.500 e i 2.000 soggetti), i sopravvissuti dai campi di lavoro coatto e di concentramento liberati dalle truppe sovietiche (un esiguo minoranza, composta da 2mila elementi). Poiché la Lituania fu uno dei luoghi di deportazione di ebrei stranieri, concentrati per esservi poi eliminati, l’attribuzione della nazionalità dei morti è a volte incerta. In questo computo, sia pure non definitivo, si può comunque ritenere che il 95% della popolazione ebraica venne assassinata in un arco di tempo compreso tra il giugno 1941 e i primi giorni di marzo del 1945. Il periodo più tragico fu quello compreso tra il giugno e il dicembre del 1941. L’oscillazione sui numeri dipende da molti fattori, tra i quali l’oggettiva difficoltà nel computare con assoluta precisione i morti, i differenziali di calcolo rispetto alle serie statistiche sui residenti disponibili all’epoca (fonti ufficiali lituane si spinsero a sostenere che gli ebrei erano circa un milione), la mobilità da un territorio all’altro di una parte della popolazione ebraica (ad esempio, quando i tedeschi il 15 marzo 1939 annessero la città lituana di Klaipėda/Memel, 8mila ebrei si trasferirono forzatamente in Lituania), così come il repentino mutamento degli stessi confini sovrani, ed infine il problema dell’auto-definizione o dell’etero-nomenclazione di ebreo e di lituano. Ad esempio, alcune fonti accreditano la presenza di diverse decine di migliaia di ebrei lituani (dai 60mila agli 80mila) nell’esercito polacco antecedentemente all’invasione tedesca. Ma non vi è, in quest’ultimo caso tanto più, l’assoluta certezza sui dati. Mentre c’è senz’altro la consapevolezza che il paese, essendo al confine con la Prussia orientale tedesca, abbia costituito un nodo fondamentale nei progetti di colonizzazione dell’Europa orientale.
Lo sterminio degli ebrei era quindi un passaggio ritenuto indispensabile da parte di Berlino. La Lituania era peraltro una regione di storico insediamento ebraico, risalente all’VIII secolo dell’era volgare. Costituiva il vero e proprio cuore dei misnagidim (gli «oppositori», traslitterati anche come mitnagdim, mitnaggedim o mitnaggĕdīm), movimento costituito da ortodossi, noti come fine studiosi talmudisti, che si erano opposti alla diffusione del moderno chassidismo nell’Europa orientale del XVIII secolo. L’arrivo dei tedeschi, già alla fine di giugno del 1941, si accompagnò al fragile tentativo di dare corso ad una sorta di autonomia nazionale che, tuttavia, già nel tardo agosto venne impedita con lo scioglimento delle organizzazioni indipendentiste locali.
La Shoah in Lituania, in quel contesto tumultuoso, conobbe tre fasi distinte, la prima delle quali si consumò entro la fine del 1941, la seconda terminò con il marzo del 1943 e la terza, infine, proseguì fino alla conclusione dell’occupazione nazista. La maggioranza delle vittime comunque morì entro il dicembre del primo anno di occupazione. Affinché ciò si verificasse congiurarono più fattori. Il primo di essi fu l’operato dei già ricordati gruppi nazionalisti che, organizzatisi come formazioni paramilitari, diedero corso ai pogrom (in parte estesi anche a cittadini polacchi), come nel caso di Kaunas, causando un alto numero di morti. Il secondo elemento, ancora più significativo, è l’operato dell’Einsatzgruppe A, che fin dal primo giorno dell’invasione iniziò la sua macabra opera di genocidio. In un tale quadro, come stava avvenendo anche in Bielorussia, se alla fine di ottobre del 1941 i morti erano già 80mila, due mesi dopo arrivavano all’iperbolica cifra di 175mila.
Un grande numero di ebrei lituani non venne raccolta in ghetti né in lager ma fucilata o comunque uccisa in altro modo, ossia in loco, come nel Nono forte della fortezza di Kaunas o nella foresta di Paneriai (conosciuta anche con il nome polacco di Ponary) in prossimità di Vilnius. Si trattava di veri e propri epicentri della morte di massa che precedevano la creazione di Vernichtungslager, come avvenne poi dal tardo autunno di quell’anno per lo sterminio dell’ebraismo polacco e dell’Europa occidentale. I sopravvissuti, circa 45mila individui, furono poi rinchiusi nei campi di concentramento e nei ghetti. Dal 1942, anche in ragione del mutamento progressivo dello scenario bellico, non più così favorevole alla Germania, l’uccisione di massa conobbe un relativo rallentamento: le vittime occorrevano per la produzione di guerra. Con la primavera del 1943, infine, il rullo compressore dello sterminio riprese forza e vigore, decretando la liquidazione definitiva di ghetti e lager, come di fatto avvenne.
Nel suo complesso, se il collaborazionismo lituano ebbe un ruolo non secondario nella legittimazione dello sterminio (non solo prendendovi parte ma dando corso, almeno nei primi tempi dell’occupazione, a veri e propri massacri in pubblico), per ciò che concerne i tedeschi l’elemento che prevalse sul piano operativo fu la sistematicità e la continuità degli omicidi di massa. Le due cose, ossia spontaneità ed organizzazione, peraltro si tengono assieme, non costituendo l’una la negazione dell’altra. Ben presto i gruppi paramilitari collaborazionisti furono riorganizzati in funzione di manovalanza dei più generali obiettivi di realizzazione dell’assassinio collettivo. Nel mentre le truppe naziste avanzavano nei territori del paese, ossia il 24 giugno, era già stata istituita una polizia di sicurezza lituana (Lietuvos saugumo policija), che avrebbe poi operato con le sue unità non solo alle strette dipendenze delle autorità di occupazione ma rivelando una diligenza criminale che sorprendeva costantemente queste ultime.
Il coinvolgimento dei nazionalisti lituani fu diffuso e costante, manifestando la volenterosa disponibilità a prestarsi ai peggiori crimini. Al tradizionale antisemitismo si coniugava un viscerale antibolscevismo, ricondotto e riannodato all’avversione contro gli ebrei. Inoltre, in accordo con quanto stava avvenendo anche in altre parti dell’Europa occupata, la presenza tedesca incentivò la fascistizzazione della società locale, con il radicamento di formazioni collaborazioniste, o comunque non ostili, come i Lupi di ferro (Geležinis vilkas) o la crepuscolare Forza di difesa territoriale lituana (Lietuvos vietinė rinktinė). In generale, la diffusa presenza di baltici nelle Waffen SS è fatto storicamente noto (ad esempio con la diciannovesima divisione lettone e la ventesima estone); tuttavia non riuscì a Berlino la medesima operazione con Vilnius, che sembravano essere più impegnata nell’anticomunismo e nella lotta per l’indipendenza, come testimonierebbe l’opposizione selettiva ai tedeschi del Fronte attivista lituano. Condotta a sé è poi quella di una parte della società civile, dove, al pari di quanto avveniva in Ucraina, Bielorussia e Polonia, non furono pochi coloro che si adoperarono per aiutare le vittime. L’elevato numero di lituani nel novero dei Giusti tra le nazioni (quasi un migliaio) lo testimonia, così come lo comprova anche il riscontro che la minoranza polacca, a sua vota odiata dai nazionalisti, spesso si adoperasse, quando ciò era possibile, per aiutare gli ebrei.
Più in generale, a guerra conclusa, le autorità sovietiche si impegnarono per fare sì che la specificità della Shoah, in Lituania come negli altri paesi dell’Est occupati dalle armate tedesche, venisse offuscata dentro un più generale discorso pubblico ispirato alla retorica delle vittime della «grande guerra patriottica». La necessità di impedire ai nazionalisti lituani di coltivare la loro opposizione (armata), così come l’obiettivo più generale di sovietizzare la società, aiutò a mettere la sordina ad ogni manifestazione autonoma. Storiograficamente, ci si è confrontati con l’ipotesi che la «soluzione finale della questione ebraica», intesa nei suoi termini ultimativi, ossia lo sterminio fisico, abbia avuto avvio proprio con l’invasione dei Paesi baltici, quando si decise di eliminare non solo gli ebrei maschi adulti ma anche le intere famiglie. Non è tuttavia possibile retrodatare con certezza una tale decisione che, per così dire, dal punto di vista nazista si impose nei fatti, dopo i mesi iniziali dell’Operazione Barbarossa, quando le operazioni al fronte contro Mosca persero di vigore. Più in generale, rispetto al giudizio da formulare sulla Lituania tra il 1941 e il 1945, si riscontrano a tutt’oggi diffuse resistenze ad assumere le responsabilità laddove queste sussistano. Il diffuso sistema di complicità del tempo continua ad essere celato sotto la corposa tendenza a enfatizzare i nazionalisti antisovietici, offuscando qualsiasi visuale priva di omaggi ideologici e di omissioni interessate. La stessa intenzione, di stampo non solo revisionista ma anche negazionista, si riscontra nella volontà di dare corso a dispositivi di legge che certifichino l’estraneità completa del Paese rispetto alle responsabilità nello sterminio degli ebrei tra il 1941 e il 1945.
In Lettonia la presenza ebraica risale alla metà del XVI secolo. L’insediamento, come gli altri in quelle regioni, era perlopiù di cultura tedesca, usando come lingua vernacolare lo yiddish. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale gli ebrei erano circa 95mila (più prudentemente altre fonti ne contano 74mila), metà dei quali presenti nella capitale Riga. L’antisemitismo, di contro alla Lituania, era meno diffuso e il Paese si presentava come terra di rifugio per quanti fuggivano dalle nazioni confinanti. Durante l’occupazione tedesca, tuttavia, 66mila ebrei lettoni furono assassinati, insieme a 19mila ebrei tedeschi, cechi e austriaci deportativi. A questi vanno aggiunti un numero imprecisato di ebrei degli altri due Paesi baltici, soprattutto lituani, insieme a vittime come i disabili e i membri delle comunità gitane. L’occupazione nazista fu quasi immediata, dal momento in cui iniziò l’invasione dell’Unione Sovietica. Riga fu raggiunta il 1° luglio 1941. Ad operare stabilmente contro i «nemici del Reich» fu chiamato l’Einsatzgruppe A, ed in particolare le unità operative 1a, 1b, 2 e 3, poi parzialmente sostituite dalle Polizie di sicurezza e dell’ordine tedesche. Amministrativamente la Lettonia, insieme alla Lituania, all’Estonia e a segmenti della Bielorussia, era divenuta parte del Reichskommissariat Ostland. I massacri si avviarono fin dai primi giorni di occupazione, nel mentre i tedeschi si adoperavano per assoldare come ausiliari (Selbstschutzen) le formazioni nazionaliste disponibili al collaborazionismo, come nel caso dell’organizzazione di estrema destra Pērkonkrusts. Significativa, anche in questo caso, la presenza di studenti universitari, già organizzati in corporazioni e fratellanze ed animati non solo da un profondo anticomunismo ma anche da un viscerale antiebraismo.
I sopravvissuti ai primi, brutali, gratuiti massacri, seguendo un copione già scritto e recitato in altri luoghi, perdevano tutti i diritti di cui avevano goduto fino ad allora come liberi cittadini lettoni. Le misure di discriminazione, che erano state adottate in Germania e in buona parte dei territori occupati, venivano ora imposte in un’unica soluzione, insieme alla confisca e alla rapina dei beni privati. Nell’estate del 1941 si susseguirono quindi altri massacri, quasi sempre fucilazioni di massa, eseguite nei boschi e nelle foreste poste in prossimità dei luoghi abitati. Parallelamente a ciò unità di tedeschi e lettoni si adoperavano per distruggere sinagoghe, cimiteri e luoghi di socialità ebraici. Già con la fine di luglio del 1941 le autorità tedesche avevano comunque deliberato per la creazione di ghetti dove concentrare, in qualità di potenziale manodopera coatta, i sopravvissuti. Il conflitto tra le amministrazioni civili, a partire dal Reichskommissariat Ostland, favorevole a quest’ultima soluzione, e le unità operative delle SS e della polizia, invece intenzionate a concludere quanto prima le «azioni speciali» con l’eliminazione fisica di tutti gli ebrei (nel frattempo quasi la metà era stata già uccisa), si risolse a favore delle prime. Nacquero così i quartieri ebraici separati, a Riga come in altre città, dove furono deportati temporaneamente anche ebrei tedeschi, austriaci e cechi. Il destino dei ghetti era comunque segnato, trattandosi solo di questione di tempo. A Riga (come poi a Dvinsk e Liepaja), tra il 30 novembre e l’8 dicembre 1941 ben 25mila persone furono assassinate nella foresta di Rumbula da parte di unità dell’Einsatzgruppe A e dal Commando Arājs (Sonderkommando Arājs), un’organizzazione ausiliaria di polizia lettone (Lettische Hilfspolizei), guidata dall’SS-Sturmbannführer Viktors Arājs. Un destino simile toccò ai circa metà dei 4mila rom residenti nel Paese, per il quali si era stabilito di adottare il medesimo trattamento riservato agli ebrei. La Lettonia fu in grande misura riassicurata all’Unione Sovietica già nella seconda metà del 1944, quando i tedeschi vennero intrappolati in quella che verrà poi conosciuta come sacca di Curlandia. Il trattamento memorialistico della Shoah seguito al 1945 fino alla fine dell’Urss, nel 1991, fu il medesimo di quello adottato dagli altri Paesi baltici, basandosi sullo scambio tra omissione dell’origine delle vittime e rimozione della compromissione dei carnefici locali, a parte quanti erano stati nel mentre arrestati e processati. Negli anni Settanta la comunità ebraica lettone era tornata a contare 36mila elementi, che tuttavia sarebbero poi in grande numero emigrati all’estero.
L’Estonia, in questo quadro cupo e mortifero, rappresenta una storia a sé stante. L’insediamento ebraico era recente (poiché risalente al XIX secolo, posto che il suo territorio era stato fino ad allora precluso a presenze di gruppo), con la nascita della comunità ebraica di Tallin nel 1830. Nei decenni successivi si costituirono altri insediamenti, come a Tartu (1867), Pärnu (1869), Valga (1871), Viljandi (1876). I rivolgimenti della prima metà del XX secolo arrisero alla popolazione ebraica, che poté godere di una legislazione avanzata nei confronti delle minoranze nazionali e di una scarsa diffusione dell’antisemitismo. Il numero di ebrei aveva raggiunto e superato le 4.300 unità, in un paese molto piccola ma unito. Nel 1940, con la temporanea annessione sovietica, un decimo della popolazione ebraica fu deportata in Urss. All’atto dell’invasione tedesca, tre quarti degli ebrei restanti ebbero comunque il tempo di fuggire insieme alle truppe sovietiche. Coloro che non lo fecero (si calcola 930 persone) furono pressoché eliminati completamente dall’Einsatzgruppe A, ed in particolare dall’Einsatzkommando (Sonderkommando) 1a e dai collaborazionisti locali, insieme ad un imprecisato numero di rom, a 15mila prigionieri di guerra sovietici, ad ebrei stranieri deportati nei campi di lavoro in terra estone. L’Estonia fu dichiarata Judenfrei, cioè «libera da ebrei», durante la conferenza nazista di Wannsee, nel gennaio 1942. In tutta probabilità, all’epoca non più di una dozzina di persone erano sopravvissute. Il Paese fu anche utilizzato come stazione terminale per assassinare 10mila ebrei non autoctoni, insieme all’edificazione di una ventina di campi di concentramento e di lavoro schiavistico nei quali furono imprigionati 20mila lettoni e lituani, nella quasi totalità maschi, posto che donne e bambini venivano immediatamente uccisi al loro arrivo. Sorte simile toccò per trasporti provenienti dall’Europa centrale (Terezin e Berlino), con la fucilazione in massa sulle spiagge del mar Baltico. Complessivamente si calcola che sul territorio estone persero la vita 35mila indifesi. Tra di essi, molti ebrei.
Il collaborazionismo locale costituì a lungo una spina nel fianco. Decine di migliaia di cittadini estoni furono reclutati e incorporati nelle Waffen SS (la ventesima divisione granatieri, la terza brigata volontari SS, la Legione estone) e nella stessa Wehrmacht. A queste unità si affiancavano, confondendosi nei ruoli di repressione e sterminio, i reparti dell’Eesti Omakaitse (Guardia nazionale estone, poco più di un migliaio di uomini) e di altre organizzazioni al servizio dei tedeschi. La traccia di quelle compromissioni non si è del tutto estinta neanche oggi. A fronte di società che si sono aperte all’Europa, rimane un sottobosco tetro e fosco, dove alcuni baltici celebrano il nazionalismo collaborazionista, e la partecipazione dei loro connazionali di quei tempi alle imprese naziste, come un vanto da manifestare pubblicamente.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.