Analisi del romanzo premio Pulitzer per la narrativa 2022
«E questo era tutto, in linea di massima. Il resto della conversazione riguardò la logistica, seguito dal tentativo del dottor Morse di pronunciare il nome del candidato e dal mio affanno a capirlo; io sentivo Banjo Nataniele, Benzina Nakamoto, Pensione Nappa Miao… Immaginavo l’ultimo dei mohicani ricoperto di pece e di piume che prendeva fuoco…». Così nella prima evocazione di quello che per i lettori, sicuramente attratti dal titolo, è invece il rimando ad un tema ricorrente nella lettura ebraica, ovvero quello dell’identità. «I Netanyahu», ossia la famiglia in quanto tale, non sono propriamente l’oggetto del romanzo che porta il loro nome ma il medium che collega l’autore alla propria identità, quindi l’individuale al collettivo e, con esso, il passato al presente. Benché il tempo reale del testo sia assorbito e risolto in due giornate, già dal titolo il richiamo ad un tempo lungo, che si fa storia, è immediatamente implicato. Beninteso, alle pagine di Joshua Cohen non vanno conferiti significati troppo mediati. E neanche troppo meditati, benché la sua scrittura abbondi di margini riflessivi e autoriflessivi, come avviene nel più consolidato standard della letteratura ebraica. Ancora una volta, anche per questo, ci si trova dinanzi ad un’opera che tende a fagocitare il lettore, divorandolo oppure rifiutandolo. Non ci sono vie di mezzo e ciò ricollega Cohen a quegli scrittori della grande vulgata ebraico-americana che oramai vanta diverse generazioni. Lo stesso autore rivendica quello che non è tanto un lascito, e neanche una continuità, ma la necessità di fare i conti con ciò che precede la sua stessa scrittura. Quindi, la matassa di autori che si sono confrontati, da piani prospettici distinti, con gli assi portanti dell’essere ebrei in America ma anche del divenire americani raccogliendo un qualche retaggio ebraico. Si tratta di un moto pendolare irrisolto, che è poi il vero nucleo dell’ebraismo statunitense, quello dell’identità sospesa in una sorta di terra di nessuno abitata da molte figure e comparse.
L’antefatto storico che origina il romanzo è oramai noto, essendone peraltro parte costitutiva: nell’estate del 2018 Joshua Cohen visitò una delle colonne portanti della critica letteraria nordamericana, Harold Bloom, prossimo oramai alla morte, avvenuta poi l’anno successivo. Di quell’incontro, sollecitato dallo stesso Bloom poco dopo la scomparsa di Philip Roth si faticherebbe a vederne le ragioni se non nel bisogno che lo stesso Bloom manifestò di lasciare un calco di sé in un interlocutore non troppo anziano ma neanche di primo pelo. Così il medesimo Cohen, in una successiva intervista: «non aveva mai parlato di sé. Però non voleva che, ad aiutarlo, fosse qualcuno dell’università, e specialmente di Yale, perché si sentiva incompreso dal mondo accademico. E così gli venne l’idea che potessi aiutarlo io». Bloom intendeva se stesso, quindi la sua persona e il suo pensiero, evidentemente, come continuazione di un’opera letteraria, parte dell’universo di significati che aveva censito in The Western Canon. La stessa testimonianza viva della comunicazione, strettamente unidirezionale (con i «maestri» è impossibile qualsiasi scambio alla pari), resa poi da Cohen, sembra quasi ricordare l’esercizio del salmodiare laicamente dei versetti. Per Bloom un’epoca si chiudeva. Era quella sua, ma l’auto-considerazione che, evidentemente, pur coltivava di se stesso, gli impediva comunque, quanto meno per residuo pudore, di essere smaccatamente egocentrico. E qui, i Netanyahu (in questo romanzo di Cohen si deve sempre usare l’articolo determinativo plurale poiché si parla del fermo immagine di un gruppo famigliare, non di un individuo solamente) entrano in scena. Poiché Bloom rende compartecipe Cohen di «un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre». Ancora l’autore: «mi raccontò molte storie, di lui outsider dell’accademia, dei suoi tentativi di cambiarla dall’interno, e poi su Saul Bellow, Philip Roth, Anthony Burgess… Per tutti, Bloom era come una montagna, qualcosa che è sempre lì, ma anche lui, dall’infanzia nel Bronx in poi, aveva inventato sé stesso. E, fra le tante storie che mi raccontò, c’era quella su Netanyahu. C’era la tv accesa e Bibi era apparso sulla Cnn. E Harold: Ho incontrato quell’uomo, aveva dieci anni, era col padre…».
Entriamo nel merito. Più della scrittura del recensore, possono le parole stesse dell’autore e del suo testo: «Alla fine il dottor Morse si mise semplicemente a saccheggiare i suoi cassetti e mi passò dei fogli affastellati e tenuti insieme da una graffetta alla bell’e meglio, con pagine battute a macchina sbiadite e sbavature, le copertine arricciate come pergamene attorno al nome: Ben-Zion Netanyahu, Non significava niente per me, o per chiunque conoscessi … […] Un nome alieno, vecchio miliardi di anni ma anche proveniente dal futuro; un nome che stava in egual misura alla Bibbia quanto alle strisce dei fumetti. L’erede del re Osea. Il braccio destro di Flash Gordon. […] Ben-Zion era il figlio di Zion: il mio ebraico da bar-mitzvah almeno a quello ci arrivava, anche se si fermava lì. Stavo per conoscere il figlio di Sion».
Come ha recentemente notato Anna Momigliano, «se il titolo è I Netanyahu, al plurale, un motivo c’è. Il romanzo, densissimo e relativamente breve, ruota attorno all’intero clan dei Netanyahu, e allo sconvolgimento che portarono, in appena pochi giorni, in una tranquilla cittadina universitaria americana. C’è Ben-Zion, descritto come uno storico che si sente in missione per conto di Dio, o meglio del popolo ebraico, dalle credenziali accademiche controverse, tanto basate più sull’ideologia che sui fatti sono le sue ricerche, almeno nella ricostruzione che ne fa Cohen. C’è sua moglie Tzila, personificazione della yiddish mame invadente, e ci sono i tre figli: Yonathan, il futuro eroe martire, che sarebbe morto guidando la missione per liberare gli ostaggi a Entebbe nel 1976, e qui rappresentato come un adolescente dongiovanni; Benjamin, il figlio di mezzo, il futuro primo ministro che tutti conosciamo, il più famoso della famiglia, ma che nel romanzo funge per lo più da spalla di Yonathan; e infine Ido, il minore, destinato a diventare medico e poi autore teatrale senza infamia e senza lode, qui in veste di ciclone col pannolino». C’è poi un ulteriore elemento, il sesso, quello maschile, che fa la sua improvvisa comparsa, a suggello dell’intero romanzo. Non si tratta di questioni di corna ma, semmai ancor peggio, di conflitti tra famiglie, risolti – per così dire – attraverso il garibaldinismo di alcuni personaggi. Non una pochade ma un dramma che è anche farsa: quello dell’incontro tra due culture che si vorrebbero prossime e che invece misurano e rafforzano le distanze lasciando cadere le parole di circostanza e passando alle manesche vie di fatto.
Non si tratta di un romanzo politico, per capirci, ma di un’opera sulle trasformazioni della politica che si consumano nel tempo. E con essa, delle generazioni che l’accompagnano. Non è un’indagine, magari per interposto soggetto, su Benjamin Netanyahu, bensì una riflessione su come la marginalità, apparente o reale, a tratti quasi naïf, di alcuni protagonisti, a distanza di molto tempo si possa invece trasformare in forza. Il sottile filo del discorso è quello per cui il nazionalismo revisionista di cui la famiglia è depositaria, in quegli anni estromesso dal discorso pubblico israeliano così come da una grande parte di quello ebraico, possa invece prendere piede e divenire, nel corso del tempo, dominante. La sequenza è chiara: l’incontro tra Bloom e Ben-Zion Netanyahu avviene all’inizio del 1960. Meno di una decina d’anni dopo ci sarà la guerra dei Sei giorni e poi, nel 1977, l’ascesa al governo della destra che fu di Jabotinsky, quindi di Begin, Shamir e poi, in una chiave fortemente trasformata rispetto a quel lungo arco cronologico, dello stesso Benjamin Netanyahu. Che oggi si vuole porre a capo di una destra populista che ha caratteri ancora differenti da quelli trascorsi.
Ma qui, a volere proseguire su quest’ordine di riflessioni, si rischia di andare ben oltre i confini del romanzo, assumendosi eccessiva libertà d’interpretazione. Basti chiosare queste note con il testo della lunghissima lettera, un capitolo del libro, che Blum riceve da Peretz Levavi, dell’Università ebraica di Gerusalemme, dove tra le caute contumelie che accompagnano la descrizione di Ben-Zion Netanyahu si afferma anche che è: «affetto dalla hybris dell’intellighenzia ferita. Il suo carattere, che può averlo qualificato per la storia, lo squalifica dall’insegnarla» poiché «più di una volta Netanyahu ha mostrato la tendenza a politicizzare il passato ebraico, trasformando i suoi traumi in propaganda». In realtà l’epistola è un crescendo rossiniano, con una serie di rimandi alla destra radicale ipernazionalista, presente nel microcosmo politico dell’Yishuv prima e di Israele poi. Levavi afferma di sé che «in quanto nuovo arrivato in una piccola colonia con una piccola casa editrice che pubblicava in una lingua piccola ma in crescita, leggevo tutto quello su cui riuscivo a mettere le mani, persino le torbide pubblicazioni di cui andavo a caccia sulle panchine del campus, solo per trovarci dentro formule che sarebbero state le benvenute in giornali come il “Völkischer Beobachter” o “Der Angriff”. Capii immediatamente che il “B. Netanyahu” di cui stavo leggendo le tirate doveva essere lo stesso […] che marinava le mie lezioni seminariali».
Un tema è quindi quello dell’identità, dispiegata attraverso la radicalità, come indice estremo sul quale misurare invece la propria effettiva condizione. Ad esempio, afferma lo stesso Cohen, in alcune interviste, che affrontare il tema dell’antisemitismo, inteso come una sorta di appartenenza capovolta, rimanda all’«occasione per parlare dell’identità in America, perché molti discorsi sono estremi, del tipo: tutti i bianchi sono razzisti e tutti i neri sono oppressi; invece c’è qualcosa in mezzo, fra queste pretese identitarie, che fa parte della vita americana. L’America è divisa fra due narrazioni: una è quella dell’immigrazione, del sogno americano; l’altra è quella della schiavitù. E sono entrambe vere, e noi dobbiamo convivere col fatto che siano entrambe vere. Viviamo in un Paese di tante bandiere, tutti sperimentiamo queste pretese e tutti siamo definiti dalla nostra identità, nel bene e nel male. E a me è venuto naturale dirlo parlando dell’esperienza degli ebrei americani». Ed ancora: «Ben-Zion Netanyahu era nato sotto l’Impero Asburgico e, quando esso si fratturò, nacquero una serie di tribalismi, fra cui il sionismo. Anche allora, le persone sentivano di non avere una fetta uguale agli altri. Oggi molti usano l’unica arma che hanno, cioè le parole, per gridare alla discriminazione, all’insulto, anche quando il contenzioso di cui parlano è falso; ma ripeto, usano la loro unica arma, per ottenere ciò che vogliono».
Un altro tema è quello della dissimulazione. Cohen adotta quest’ultimo per dispiegare il primo. Tutto il romanzo è cosparso di segnali e spie, “sintomi” e presagi sciolti nelle baruffe e negli screzi famigliari della vita quotidiana, tra dimensione domestica ed esistenza personale, tra persistenti frustrazioni e irrisolte disillusioni, soprattutto nei molti passaggi in cui l’autore si abbandona volutamente a tutta una serie di minuziose descrizioni. Lo stesso protagonista, Ruben Blum, è l’alter ego di Harold Bloom. Non si tratta di una cautela pur dovuta, non potendo coinvolgere in un’opera, che è comunque di fiction, una persona oramai deceduta, attribuendogli parole e gesti magari mai compiuti per davvero. È piuttosto il riscontro di una duplicità irrisolta, quella che intercorre tra ciò che è realtà e quanto rimane finzione, dove però le linee di distinzione sono molto sfumate se non inesistenti. Ribadisce Cohen: «Ho deciso che sarebbe stato tutto vero, eccetto quello che succede nel weekend della visita. Il romanzo di fatto si svolge in due giorni: quello di preparazione alla visita, pieno di ricordi, e quello dell’incontro. Tutto quello che succede prima della richiesta di fare da ospite al professore, e che viene ricordato, è vero».
Il sottotitolo (trattandosi di un libro che parla anche di sottointesi e di sottotesti, di allusioni e di confusioni, «dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre»), racchiude le dinamiche del testo, le sue logiche intrinseche, lo schema di fondo. Un insieme di fattori che pongono in contrapposizione trascorsi e presente, tradizioni e trasformazioni, tutti elementi che stanno dentro l’identità ebraica. Anche per questo l’«episodio minore» ha una valenza che va ben al di là della sua casualità, racchiudendo il senso del rapporto problematico tra concezioni della storia e, con essa, di se stessi, della propria persona, nel più ampio spettro del divenire dell’umanità. Il romanzo di Cohen non parla d’Israele, ovvero non si rivolge ad essa, ma si confronta indirettamente con il patrimonio mitologico che è una parte delle culture politiche del sionismo. La figura di Ben-Zion Netanyahu esemplifica questo riferimento. Che è tanto più importante se lo si rapporta all’autocoscienza dell’ebraismo americano (il vero fuoco del volume), il quale proprio in quegli anni iniziava a fare i conti con una società israeliana destinata a contare sempre di più nella sua propria consapevolezza e, quindi, nell’autobiografia di gruppo.
Anche per questo entrano in gioco, disseminati un po’ ovunque nel testo, i temi dell’ascesa sociale, della mobilità di status, del mutamento delle culture politiche che sono tra gli aspetti di fondo del romanzo. Condensati in un bipolarismo che investe la concezione di sé dell’ebraismo, quella che vede contrapposti il processo storico come narrazione di una progressiva accettazione (da parte altrui come di quella propria) e quella che, invece, enfatizza le vessazioni e le persecuzioni. Per il professor Blum, che in qualche modo aveva già fatto i conti con il secondo approccio – liquidato come il residuo di un’arcaicità che conferisce al tema dell’identità solo la legittimazione della marginalità – entrare nell’universo intellettuale di Ben-Zion Netanyahu, del quale deve conoscere la produzione scientifica prima di poterlo incontrare (e valutare), rilancia l’implicita ossessione bipolare tra integrazione ed esclusione. «Ogni tanto nel corso della mia lettura trovavo un refuso, un piccolo scivolone grammaticale o semplicemente una forma sintattica inelegante – uno scimmiottamento sgraziato della lingua d’arrivo, cose come “perciocché” e correggevo. […] Era come se, così facendo, stessi tenendo a bada la mia di storia: come se stessi lasciando fuori il passato, le vecchie voci rauche e perdute da grilli parlanti dei rabbini dello scantinato, tantissimi anni prima, che stavano di nuovo mormorando attraverso l’infelicità e la rigidità di un altro straniero che si era avvalso pure lui dell’inglese del dizionario per mettermi in guardia contro l’autocompiacimento… per mettermi in guardia contro l’America. Non era la solita preparazione di un valutatore accademico, si avvicinava di più a un’autovalutazione, ed era la prima volta nella mia vita in cui mi guardavo indietro e paragonavo chi ero stato a chi ero diventato».
Joshua Cohen compie un’operazione ardita, in ciò senz’altro sollecitato da Bloom, ossia quella di cercare di ricostruire, attraverso i turbamenti e il tedio del professor Blum, il clima intellettuale che stava accompagnando la cultura ebraica americana negli anni delle grandi opportunità, a cavallo tra il decennio di Eisenhower e quello di Kennedy-Johnson, quando la porta del passato, quella degli esodi e delle migrazioni dei nonni, si stava chiudendo del tutto nel mentre subentrava definitivamente l’età dei diritti civili, dell’integrazione di figli e nipoti nella middle class (nel romanzo esemplificata dall’uggia ritualistica dell’accademismo), della nuova frontiera dei democratici, poi trasfusa nella visione johnsoniana della «great society» e, infine – ma così già ci si spinge oltre l’arco temporale del romanzo – nella contestazione, che sarebbe partita da Berkeley poco tempo dopo i fatti narrati. Ancora Anna Momigliano: «Blum incarna un momento liminale dell’esperienza ebraica in America, quando gli ebrei cominciavano a non essere più, o prevalentemente non più, relegati ai margini della società ma non erano ancora pienamente accettati a fianco dei protestanti anglosassoni, tanto che il lettore noterà tracce del mondo di Pastorale Americana, o quello di Ombre sullo Hudson. Era l’epoca in cui sono cresciuti Philip Roth e Harold Bloom. Non è, evidentemente, il mondo di Joshua Cohen, che, classe 1980, è cresciuto in un’America dove gli ebrei, o, meglio, un certo tipo di ebrei laici, colti e benestanti, erano già perfettamente integrati nel tessuto socio-economico e dove, in alcuni campi, come appunto la letteratura, alcuni codici dell’identità ebraica erano addirittura permeati al di là della loro giurisdizione».
Blum, in un tale contesto, si confronta con qualcosa che al medesimo tempo rifiuta e dal quale è tuttavia attratto, se non fastidiosamente irretito e stregato: «Ero uno storico in rampa di lancio per il posto di ruolo e un membro attivo della vita laica americana che stava serpeggiando nelle strettoie mentali di un oscuro accademico israeliano, come se fossi uno di quegli antichi ebrei di cui parlava lui, un convertito costretto a tornare alla fede che avevo lasciato con la forza, troppo consumato da un dibattito interiore per notare l’orario finché, riscosso dal canto di uccellini amatori, non mi voltavo e scostavo la tenda e fuori dalla finestra era già mattina». Ed ancora, in un passaggio sulfureo e psichedelico, sempre quando Blum si riferisce a Netanyahu: «La sua calligrafia era minuscola, e la data non era solo scritta al contrario rispetto allo standard americano ma era anche sbarrata, come si usa in Europa, dove le donne si lasciano crescere i capelli e vanno senza mutande e tutti i bambini fumano e bevono vino». A volte, leggendo il romanzo di Joshua Cohen, sembra di rientrare in una qualche scena di «A Serious Man», la pellicola firmata nel 2009 dei fratelli Joel ed Ethan Coen, dove le disavventure di un moderno Giobbe, al cui centro ci sono le imperscrutabili avversità del caso, sono raccontate con il continuo ricorso ad una feroce commistione di registri tra il beffardo, il sarcastico e il nichilismo dolente.
Come è stato fatto notare da altri, il vero tratto d’unione tra il protagonista e Netanyahu senior è l’inappagamento perenne. Il primo soffre per il suo posizionamento sociale e professionale, traslando e metabolizzando in esso anche la stanchezza per la famiglia e l’incapacità di sognare improbabili orizzonti di gloria. Il secondo è alla spasmodica ricerca di una collocazione esistenziale, filtrata dall’eterna angoscia per lo spettro di un perenne regime persecutorio che è parte della sua stessa personalità. Così, allora, per «la discussione tra i relatori sulla famiglia di Ruben, al cui interno sono presenti diverse aspettative, spesso contrastanti, sulla carriera lavorativa dell’uomo, che lo fanno sentire come assediato, consapevole che nulla sia mai abbastanza per appagare il desiderio altrui nei propri confronti. È la frustrazione, stavolta, ad unire i due protagonisti: infatti, anche Ben-Zion soffre, a causa di un percorso accademico travagliato, a causa del quale si sente costretto a seguire le orme del padre, diventando rabbino». Non che il percepire il medesimo afflato li unisca. Anzi, semmai li divide, benché mai si comprenda, dalla scoppiettante scrittura di Cohen, quanto Blum, «professore rispettato, ma ancora guardato dall’alto in basso dai suoi colleghi, che appartengono all’élite anglosassone protestante», avversi per davvero (e non solo per uso di maniera) il quasi trucido Netanyahu e quanto, invece, tra di loro ci sia un inconfessabile gioco di specchi.
Al netto delle crisi di nervi, a malapena trattenute, e posto che quest’ultimo «si sentiva insultato, lui che aveva dispensato insulti ed era venuto a cercare favori». Anche in ciò si riflettono aspetti del rapporto tra l’ebreo diasporico e quello israeliano, dalla costituzione dell’yishuv ad oggi. L’autore, del suo, dinanzi all’inflazionato richiamo a Woody Allen (laddove chiunque lo chiami in causa vuole che quando si parla di ebraismo ci si rifaccia al canone newyorkese), risponde d’altro canto che il suo vero canone letterario si ispira semmai «a Svevo e al suo Zeno. Sfortunato, pieno di nevrosi, ridicolo: lo amo».
L’intero libro è pervaso da spaesamento, ansia e precarietà, sentimenti ed emozioni inzuppati in quell’ironia che si fa esilarante schioppo e spassosa scroscio in passaggi come la descrizione del primo incontro tra i coniugi Blum e la famiglia Netanyahu (la tribù degli «Yahu», che si presentano come «cinque cappotti identici, pelosi e allacciati con le olivette, si spera comprati in blocco con uno sconto notevole»), fino alla rutilante e demenziale chiusa finale, tutta da leggere. Forse come inizio stesso del libro.