Ragionamenti a partire dalla lettura della Legatura del figlio di Abramo
Significativo e pure un po’ enigmatico che ogni nuovo anno ebraico si apra nel segno di Itzchàq avìnu ossia di “Isacco nostro padre”. Infatti, nei servizi liturgici di shacharit (mattino) del primo e del secondo giorno di Rosh hashanà, e dunque del mese di Tishrì, si leggono rispettivamente i capitoli di Bereshit/Genesi 21, la narrazione del concepimento e della nascita di Isacco, e, la mattina seguente, di Bereshit/Genesi 22, la storia del suo supposto sacrificio sul monte Morià, allorché il ragazzo fu legato da Abramo (non vi erano in loco altri che potessero farlo per lui) al fine di essere sacrificato secondo il comando divino. Da qui il nome di questa pericope biblica, nota nell’ebraismo come l‘aqedat Itzchàq, la “legatura di Isacco”. È uno dei testi più importanti per la fede ebraica ma anche per il cristianesimo e l’islàm (sebbene in quest’ultimo Isacco sia sostituito con Ismaele, mentre dai cristiani viene letto soprattutto quale prefigurazione cristologica). Per gli ebrei, invece, Isacco è uno dei tre patriarchi del popolo di Israele, ‘nostro padre’ al pari di Abramo e Giacobbe, sebbene Isacco sia il più taciturno dei tre. Ma in Bereshit/Gn 21-22 la sua figura e il suo destino si stagliano come un anello e un momento essenziale del progetto del Santo benedetto sul mondo: Isacco è il figlio della promessa, fatta ad Avraham avìnu e a Sara imènu, ‘nostra madre’; è la prova che la parola divina è vera e veritiera; è la garanzia del futuro e della continuità… Eppure, questa condizione di futuro e continuità sembra compomessa, quasi rinnengata dalla Voce che chiede al primo patriarca il sacrificio del figlio, suo e di Sara. Proprio nell’obbedire a quella Voce – alla Quale secondo il midrash Abramo cercò di porre resistenza dubitando di aver capito bene – consiste la fede. È in forza di quell’atto di fede (irrazionale ma pieno di emunà, di fiducia) che Abramo diviene “il padre nella fede” per i credenti delle tre religioni monoteiste. Ben per lui, si dirà, ma il povero Isacco? Non fu forse usato come involontario banco di prova della fede di suo padre? Non divenne forse l’inconsapevole posta in gioco di una scommessa che poteva anche finire male? Perché la tradizione rabbinica ci propone ogni anno questi brani e ci invita a riflettere sul secondo patriarca e sul gesto di Abramo che avrebbe potuto costare la vita al proprio secondogenito (ma che era pur sempre il primogenito di sua madre)?
Secondo un midrash Isacco aveva trentasette anni quando fu portato sul Morià e legato da Abramo per il sacrificio. Non era affatto un bambino o un ragazzo, ma un figlio adulto, e come tale maturo e consapevole di quel che stava succedendo. In luce di tanta consapevolezza i maestri hanno immaginato che egli abbia davvero provato paura e angoscia, anzi un senso di terrore. La sua prima esperienza diretta con il Divino è una minaccia di morte! Come avrebbe potuto non provare “timore e tremore” dinanzi a questa Divinità che gli si manifestava con il volto di un El Norà, di un D-o terribile? La festa di Rosh hashanà apre, nella vita degli ebrei religiosi, un periodo di dieci gioni che vengono chiamati yomim noraim ossia ‘i giorni terribili’ che si chiudono con lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione e del perdono divino. Dunque, è come se i maestri di Israele avessero voluto inviare questo messaggio: siamo tutti degli Isacco, legati e votati alla morte; è giusto sperimentare l’angoscia di questo giovane uomo dinanzi al coltello sacrificale; e tuttavia tale storia non insegna un infanticidio ma solo la grammatica della fede, che nel giudaismo combina sempre timore e amore, giudizio e misericordia, rigore e pietà, dolore e redenzione… Facile inclinare all’amore, al perdono; occorre però non dimenticare la serietà della prova, e che il senso profondo della fede non è una passeggiata sul Gianicolo. La fede è una prova e chiede non di rado la rinuncia a quel che ci sembra legittimo, ragionevole, addirittura etico! Chi ha perso un figlio o una figlia, chi ha subìto un trauma fisico o psicologico, chi è caduto in un abisso sa di cosa parliamo.
Ispirati dall’aqedat Itzchaq molti maestri, come ad esempio il rabbino e medico ferrarese Isacco Lampronti (1679-1756) e come rav Itzchaq Hutner (1906-1980), hanno intitolato le loro opere di Torà orale con l’espressione Pachad Itzchaq, La paura di Isacco. Lungi dall’essere una virtù minore, quel silenzioso assenso alla volontà divina trasforma un ragazzo in un bar mitzwà, un giovane uomo in un avìnu, chiunque in un esempio di fede. Lo intuì pure il filosofo luterano Søren Kierkegaard (1813-1855) che nell’opera Timore tremore ha scritto una delle meditazioni non ebraiche più profonde sull’aqedat Itzchaq, con la quale molti rabbini e filosofi ebrei del XX secolo si sono confrontati (pur dissentendo dalla sua lettura cristiana).
Nella pagina della legatura di Isacco emerge un tema delicato, che fa tremare le vene e i polsi ai credenti di tutte le fedi: il tema del silenzio divino o, se si preferisce, il mistero del dolore e della morte come volontà del Cielo, la sofferenza dell’innocente che subisce il male senza averne fatto alcuno e per il quale non vale teodicea e dottrina della remunerazione alcuna. Anche per questo aspetto l‘aqedat Itzchaq è divenuta un paradigma della riflessione ebraica contemporanea sulla Shoah, allorché milioni di vite innocenti, tra le quali un milione e mezzo di bambini e ragazzi, vennero ‘sacrificati’ dal/al Moloch antisemita nazista, senza che la mano di un angelo intervenisse a fermare il coltello brandito dal carnefice. Può sembrare un accostamento ardito, addirittura blasfemo, ma il ricordo dell‘aqedat Itzchaq, sin dai tempi dei massacri da parte dei crociati nella valle del Reno, aiutò gli ebrei religiosi a dare un senso, quasi un valore di martirio, alle sofferenze e alla morte di quegli innocenti. Con la Shoah è avvenuta una cosa molto simile. Un solo ma importante esempio è la predicazione del rebbe della comunità chassidica di Piaseczno, Kalonymos Kalman Shapiro (1889-1943), poi rinchiuso nel ghetto di Varsavia, del quale sono stati recuperati i sermoni con cui offriva motivi di resistenza ai suoi chassidim: in essi torna spessissimo il rimando alla ‘legatura di Isacco’ per spronare la fede e rafforzare la speranza nel Signore benedetto, che non abbandona i Suoi figli e le Sue figlie… Altri autori hanno esplicitamente scritto che la Shoah fu un‘aqedat Itzchaq moltiplicata per sei milioni, ma senza lieto fine, senza sostituzione di Isacco con un montone, senza che ad Auschwitz ‘Iddio provvedesse’, come dice il testo biblico. Fu una prova ‘troppo grande’ per il popolo ebraico. Tra coloro che hanno associato il trauma della Shoah a Bereshit/Gn 22 si possono citare Elie Wiesel, André Neher, Silvano Arieti e Arthur Cohen.
Il suono dello shofar, che caratterizza la festa di Rosh hashanà e chiude i giorni terribili la sera dello Yom Kippur, esce da un corno ovino, che rimanda proprio a questa storia, a quell’atto di fede che significa speranza, ma che tuttavia non ci esime dal duro confronto con la storia e dal dovere di resistere al male, senza aspettare l’intervento miracoloso del Cielo. Infatti, dacché la Torà è data, “tutto è nelle mani del Cielo tranne il timore del Cielo”. La fede di Abramo e di Isacco, come poi la fede di Giacobbe, sta in questo anteporre il timore alla logica, la fiducia alla ragione, come spiega il filosofo Emmanuel Levinas in una lezione talmudica: “Noi accettiamo la Torà prima di conoscerla. Per la logica questo è scandaloso e può essere confuso con il fideismo o con una ingenuità infantile. Eppure la tradizione ebraica si compiace di quest’inversione logica, che fa antecedere il fare al comprendere. Da quest’errore logico nasce la rivoluzione del giudaismo”. Proprio dal ‘timore e tremore’ può nascere la speranza, e può venire la forza, per un’esistenza rinnovata.