Cultura
La disperata domanda di vita delle donne iraniane

In Iran la feroce repressione da parte di indecenti autorità che si nascondono sotto il nome di «polizia morale» e di «Commissione per la promozione della virtù e la repressione del vizio», ci dicono quale sia la vera pasta di ogni totalitarismo, ovvero la stigmatizzazione dell’altertità come fantasma dell’alterazione

Le donne iraniane sono come le mamme e le nonne di Plaza de Mayo. Ve le ricordate, queste ultime? Con i loro silenziosi girotondi denunciavano le turpitudine del fascismo argentino, che aveva divorato i loro figli e i loro nipoti. Nel nostro compassato silenzio. Le cose si ripetono oggi, anche se come vuoto e stanco calco. Poiché ci sono cose e situazioni che dovrebbero farci urlare dalla rabbia. Mentre invece incontrano la nostra indifferenza. Ovvero i nostri pelosi distinguo, che servono a metterci al riparo da crisi di coscienza fingendo una responsabilità che non vogliamo assumerci. Una di queste situazioni, in questi giorni di nuovo difficili e cupi, in queste ore affaticate e spiazzanti, è la condizione delle donne in alcuni paesi musulmani. Due in particolare: quelle dell’Iran e quelle dell’Afghanistan. Ed iniziamo da subito con i distinguo, poiché sono obbligati: non stiamo giudicando l’intero Islam in base alla (sola) considerazione nei confronti delle donne. Tuttavia, qualche problemino pur ci sarà se in quei luoghi, nella più totale indifferenza di ciò che chiamiamo «Occidente» (quindi tutti noi), laddove sia possibile le donne manifestano la loro disperata domanda di considerazione.

Noi diremmo di «libertà» ed «emancipazione». In realtà esprimono il bisogno di vivere come persone, con una loro propria identità, una soggettività che non sia la sola appendice di appartenenze di gruppo, di tribù, di clan e cos’altro, nel mentre ricevono manganellate e colpi di pistola. Rivendicano disperatamente ciò che per noi sta sotto il lemma di «secolarizzazione», di affrancamento delle collettività da quel brutale potere che ha bisogno di un qualche “dio” per legittimare il suo inclemente assolutismo. Siamo così impegnati, narcisisticamente, a pensare a noi stessi da non accorgerci che non è il mondo a ruotare intorno a noi bensì il contrario. Quel mondo, di cui non abbiamo coscienza né cognizione – ovvero, non ne vogliamo nutrire per nulla – continua invece ad esprime impulsi vitali. Come un cuore che cerca di battere malgrado le pugnalate che ha ripetutamente ricevuto. Come il respiro dell’essere che si oppone a chi cerca di strangolarlo. Come quella strana parola, tanto abusata quanto fraintesa, la «libertà», di cui possiamo cogliere i suoi reali significati solo quando le condizioni che la rendono possibile, e quindi effettiva, vengono a mancare. Al pari dell’aria per l’asmatico, dello spazio da abitare per chi ha perso gli arti, dell’equilibrio per il labirintico, della parola e del suono per quanti hanno perso voce e udito e così via.

Per cortesia, nessuna ipocrisia. Siamo così attenti ai nostri «diritti», quelli che ci derivano nell’età del digitale, da perdere di vista quelli altrui. Non abbiamo colpe da attribuirci. Per una volta sola, una solamente, lasciamo stare da parte il «fardello dell’uomo bianco», il suo colonialismo imperialista e le responsabilità verso gli altri popoli che da ciò gli derivano. Lasciamo da parte il benealtrismo, quello che serve ad usare la storia trascorsa per giustificare l’impresentabile presente. Poiché se si è criminali nell’oggi, non si può dire che il proprio misfatto sia meno cogente e doloso in quanto nel passato anche altri hanno commesso dei delitti. In Iran domina una combinazione tra poteri ierocratici, ingrassatisi dalla cosiddetta «rivoluzione islamica», e gruppi laici, questi ultimi in perenne bilico e in costante rischio di rottura con la petrolcrazia religiosa. In Afghanistan, un movimento cupo e trucido, quello degli «studenti» talebani, sta facendo retrocedere l’intero paese all’età della pietra. In mezzo, come corpi senza difesa, ci stanno le donne. Due indici, spiegava il vecchio ma saggio professore, servono, a misurare il grado di evoluzione (leggasi per gli ottusi: di pluralismo) delle società: il trattamento delle minoranze e quello delle donne. Non si tratta di tolleranza, parola assai ambigua, che non evoca diritti consolidati bensì concessioni revocabili. Si tratta semmai di integrazione, di sincronizzazione del pluralismo, di compresenza di identità differenti con pari opportunità. Qualcosa di molto diverso, radicalmente distante, da chi un po’ ovunque blatera di «identità» per dichiarare che quanto si dovesse discostare da sé, dal suo calco personale, è fuorilegge.

Islamismo radicale e fascismo sono parenti stretti, non a caso. L’assassinio di Masha Amini, una giovane curda in vacanza a Teheran, e le morti che ne sono da subito seguite, con la feroce repressione da parte di indecenti autorità che si nascondono sotto il nome di «polizia morale» e di «Commissione per la promozione della virtù e la repressione del vizio», ci dicono quale sia la vera pasta di ogni totalitarismo, ossia la stigmatizzazione dell’altertità come fantasma dell’alterazione: dietro i moralismi, infatti, non si cela solo il conformismo dei tanti ma la rabbiosa uniformazione che i poteri dominanti impongono alla vita come tale. Di ogni giorno. Non solo quindi ai fatti politici, collettivi, posto che è totalitario quel potere che vuole entrare nelle esistenze private di ognuno di noi, condizionandone le scelte, le condotte, i pensieri, i passi e i respiri. Nessun relativismo è concesso al riguardo. Relativizzare, altrimenti, equivale alla resa incondizionata dell’intelligenza dinanzi alla tracotanza e alla violenza feroce del più forte. La lotta delle donne iraniane, la sopravvivenza di quelle afghane, il rifiuto dell’imposizione patriarcale ha molto a che fare con la domanda di giustizia, e quindi di libertà, che noi, satolli della nostra incapacità di usare le giuste parole, i dovuti gesti, invece non siamo più capaci di formulare. Storicamente, i cambiamenti avvengono dal basso. Ci vuole tempo, ma poi si impongono tumultuosamente. Non lasciamo da sole le donne dei regimi misogini, soprattutto, non lasciamoci da soli: nella loro disperata domanda di vita, infatti, si rispecchia la nostra ricerca di una qualche speranza per i tempi a venire. Senza l’una e l’altra, è come se fossimo già morti.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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