La recensione di “Dove si nasconde il lupo”, ultimo romanzo della scrittrice israeliana
Conosciamo davvero i nostri figli? Gli amici, i partner, le persone che fanno parte della nostra vita? Sembra chiedersi questo Ayelet Gundar-Goshen nel suo ultimo romanzo, Dove si nasconde il lupo, edito da Neri Pozza, la stessa casa editrice che ha fatto scoprire ai lettori italiani Eshkol Nevo. Il libro si svolge in tre luoghi geografici: gli Stati Uniti, dove Michael e Lilach si sono trasferiti con il figlio unico Adam e svolgono una vita ritirata e borghese nei quartieri di Palo Alto, il Messico dove vanno per una breve vacanza e Israele in cui tornano per un funerale. Si ha la sensazione che queste tre sezione corrispondano a tre fasi di consapevolezza, soprattutto per il personaggio femminile, Lilach, l’unica a compiere un’indagine autentica su se stessa e a grattare la vernice che nasconde la verità. Che come al solito sarà terribile.
La narrazione si apre con una strage ad opera di un antisemita che irrompe nella sinagoga di Palo Alto durante la festa di Rosh ha Shana e uccide una ragazza della stessa scuola di Adam. È uno shock per la comunità tutta ma soprattutto per i protagonisti, che si sono rifugiati negli Stati Uniti per scappare dalla guerra e la violenza in madrepatria e si rendono conto che l’antisemitismo è ovunque e che i loro tentativi di proteggere il figlio non sono valsi a niente. Lo hanno semplicemente scaraventato da una follia all’altra. Il trauma porta alla luce sentimenti repressi di paura e inadeguatezza, gli stessi che sono restati sopiti nell’anima per molto tempo. Michael, il bambino forte del kibbutz che non le ha mai prese, vorrebbe iscrivere Adam a un corso di karatè, di autodifesa e accusa di eccessiva protezione Lilach, nata con il gene della Shoah nel sangue e per questo incline a identificarsi nella vittima anziché nel combattente.
Un nuovo lutto sconvolge la scuola, stavolta un studente di colore, Jamal, che muore in circostanze misteriose durante una festa. Un’overdose o è stato avvelenato, dato che ormai produrre della droga in casa è un giochetto da niente, bastano solo qualche consiglio da internet e poche nozioni di chimica? Materia in cui tra l’altro Adam eccelle. Alla famiglia si avvicina Uri, anche lui israeliano in esilio, o forse agente del Mossad in incognito, che si improvvisa istruttore di arti marziali ma che soprattutto mette su un gruppo di ragazzini che sembrano più un commando, degli adepti di una setta che dei semplici allievi di Krav Maga. Seguendo il motto “Se qualcuno sta cercando di ucciderti colpisci per primo”, Uri insegna loro a nascondersi, a mimetizzarsi, a colpire l’avversario ma anche ad ammazzare a mani nude topi e animali domestici. Gundar Goshen continua ad esplorare uno dei suoi temi prediletti, il confine sottile tra vittima e carnefice, come in Svegliare i leoni e Bugiarda. Sono le circostanze che renderebbero tutti dei lupi affamati e senza scrupoli? Resta comunque una possibilità di scelta, di salvezza o non possiamo fare niente contro una natura che ci porta incondizionatamente a prendere quello che vogliamo, a derubare, a uccidere? Chi sono le vere vittime qui? Jamal, il ragazzo ucciso che però bullizza Adam e appartiene alla Nation of Islam che ritiene che medici ebrei abbiano iniettato l’Aids a persone di colore? Chi è più vittima, Lilach, che scopre nella stanza di Jamal indumenti sottratti al proprio figlio nelle razzie compiute dai prepotenti della scuola o Annabella Jones, la madre di Jamal che non farà mai veramente parte del paese in cui è nata perchè nera?
Sullo sfondo il rapporto con Israele e con il senso di colpa per aver abbandonato una parte importante della propria cultura, verso la quale si ha un sentimento ambivalente di attrazione – repulsione (lo stesso che Lilach prova verso Uri, a cui ha assegnato il ruolo di oggetto d’amore del figlio e con cui è inevitabile finire a letto). La narrazione procede spedita, incalzante come un thriller fino al finale a sorpresa che un po’ delude le aspettative di quello che poteva essere un grande romanzo sulle relazioni familiari, come se alla fine la scrittrice si sia dovuta arrestare o abbia avuto paura di scavare ulteriormente (alcuni personaggi restano un po’ abbozzati, come Michael). Comunque quella di Gundar-Goshen è una voce decisamente interessante e una scrittura che conduce il lettore a visitare le parti più scomode dell’animo umano, a farsi delle domande che disturbano ma sono necessarie per elaborare istinto e interiorità.