Cultura
Sergio Della Pergola, demografia e identità ebraica nella diaspora

Intervista al professore di demografia e studi sulla popolazione presso l’Università Ebraica di Gerusalemme

«L’esito delle elezioni appena concluse è determinante per capire quale direzione prenderà lo stato d’Israele. Il suo destino è appeso a un filo perché si basa su differenze molto piccole che possono essere determinanti sul risultato finale. E questo ha una funzione nel discorso sulla diaspora», spiega il professore Sergio Della Pergola, Professore di demografia e studi sulla popolazione presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Siamo al telefono mentre i seggi di queste ultime elezioni israeliane sono ancora aperti. L’attesa, secondo il professore, sarà lunga, proprio perché i voti dei soldati, quelli dei diplomatici all’estero e il calcolo dei resti potrebbero modificare il risultato. Il tema di questa intervista riguarda l’identità ebraica nella popolazione diasporica, con particolare attenzione all’ebraismo italiano. Ma le questioni politiche israeliane prevalgono sulla conversazione, anche perché, spiega Della Pergola, incidono nel discorso sulla diaspora. Hanno a che fare con i numeri dell’aliyah, chiedo. «Attualmente l’aliyah da Russia e Ucraina registra numeri importanti, non sono quelli dei massimi storici, ma naturalmente sono in forte aumento rispetto agli anni precedenti. E se quelli dell’Ucraina sono alti, quelli della Russia lo sono ancora di più, il che esprime un forte disagio della popolazione ebraica rispetto alla guerra, in quanto appartenenti allo stato aggressore. Sicuramente i giovani fanno di tutto per non essere arruolati, è in corso un giro di vite grave nel regime e naturalmente è in atto una crisi economica. In entrambi i casi questi dati (circa 30mila immigrati dalla Russia e 12mila dall’Ucraina) dimostrano una grave crisi nel sistema. Questo è il grado estremo: è in corso una guerra. Ma se l’aliyah è un fatto ideologico e sentimentale, al secondo posto, nelle motivazioni, c’è una spiegazione economica che spinge le persone a compiere questa scelta. Lo dimostrano i dati. Se guardiamo la migrazione dagli stati europei verso Israele in relazione all’economia di quell’anno vediamo fluttuazioni importanti e poiché ogni paese ha congiunture diverse, assistiamo a fluttuazioni diverse. Cosa siginifica? Se Israele fosse il vero e unico motore, non avremmo queste variazioni». Ribaltando il punto di vista, perché la direzione politica di Israele è determinante nella diaspora? «Ci sono due Israele e il futuro del paese e di conseguenza del popolo ebraico, che esiste se esiste Israele, dipende veramente da queste elezioni. Il rapporto con lo stato d’Israele nella diaspora è sicuramente sentimentale, c’è nella stragrande maggiorana dei casi un coinvolgimento, quasi sempre amplificatio dal fatto che moltissime persone hanno parenti che vivono in Israele e hanno una conoscenza diretta del Paese: tranne gli Stati Uniti che hanno numeri più bassi, negli stati europei la percentuale di ebrei che ha visitato almeno una volta Israele è tra il 90 e il 100%. Negli ultimi anni questo oinvolgimento è diventato travagliato a causa della crisi israeliana, che presenta tre aspetti fondamentali. C’è un’anima dello stato ideologicamente impegnata sul fronte delle norme religiose e sul nazionalismo per cui avanza pretese sui territori. Una pretesa che se consideriamo gli ultimi tremila anni di storia non è infondata, ma che se consideriamo la politica contemporanea e quella che Theodor Herzl definiva come compatibile, bisogna considerare anche i valori degli altri, non solamente imporre i propri. Il mondo è un condominio e il Medioriente lo è in particolar modo… La seconda anima è più liberale, per un puralismo dell’ideologia e delle istituzioni. L’ultimo accordo, quello marittimo stipulato con il Libano, è un esempio: significa tener conto degli altri. Dentro quest’anima ci sono poi anche le questioni religiose che qui vengono accolte anche nelle loro modifiche più recenti come conservative e reform e la domanda, oggi, è appunto se Israele accetta o rifiuta questo pluralismo. Infine, il terzo punto di vista riguarda lo stato costituzionale. Israele vuole uno stato fondato su una precisa divisione dei poteri oppure un modello che considera esclusivamente i valori della maggioranza, contemplando la possibilità di un asservimento della corte suprema al governo? La differenza è tra democrazia e totalitarismo. Ecco quello che succederà qui in iSraele ha una valenza anche sul mondo ebraico della diaspora, lo si vede bene nelle diverse comunità». Perché? «Dal punto di vista identitario, ci sono delle costanti che valgono in qualunque stato, e cioè: una gradazione nell’intensità del rispetto della religione, da moltissimo a assai poco, che vede l’Italia in una posizione abbastanza tradizionalista rispetto ai paesi nordici e a quelli dell’ex blocco comunista. Se il Belgio (e in particolare la comunità di Anversa) ha una comunità piuttosto religiosa, seguito da Regno Unito e Francia, l’Italia si pone subito dopo di questa. Altri fattori importanti rispetto al senso di appartenenza, in risposta alla domande su quale sia il fattore che spinge a sentirsi ebrei e a partecipare a quel collettivo, sono al primo posto la Shoah e l’antisemitismo. Questi accomunano tutti, religiosi e non, insieme alla rilevanza che Israele ha nell’identità ebraica, da accostare a quello di comunione, in un generico fattore di appartenenza al popolo ebraico come collettivo transnazionale». Guardando specificamente all’ebraismo in Italia, quali sono le sue peculiarità? «La comunità italiana è fondamentalmente ortodossa, l’Ucei è un organismo dell’ebraismo ortodosso con un rabbinato riconosciuto dallo Stato, con cui sono state sstabilite delle intese. Dunque, esiste un ordine costituito. Poi ci sono piccole comunità di ebraismo riformato, composte da poche unità, ma è interessante vedere come gli ebrei italiani si identifichino nell’ebraismo, proprio dal punto di vista identitario: il 15% si ritrova nell’ebraismo ortodosso, anche molto religioso, un altro 15% in quello riformato. Esiste una scissione, che credo andrebbe presa in considerazione dai dirigenti, magari provando a rispondere alla domanda: chi rappresentiamo veramente? Poi c’è ua grossa fetta di persone che si dichiara ebrea e parte della comunità punto e basta, senza cioè perdesi in questioni su ortodossia e reform, e questo in Italia è il mainstream». Questi dati riguardano esclusivamente gli iscritti alle comunità? «L’indagine che abbiamo fatto era aperta a tutti, molto sostenuta dai canali delle comunità ma ha raccolto anche dati dei non iscritti. In Italia sono alcune migliaia, una minoranza che si trova in posizione anomala rispetto alla definizione di ebreo, pari a un 10/15%. Come dicevo la cornice comunitaria è particolarmente strutturata e il rapporto con lo stato costituisce anche un vantaggio, ma è interessante porsi la domanda su come comportarsi con chi si pone al di fuori di questa struttura: va instaurato un dialogo con loro? L’Ucei dialoga con le comunità, ma nonsarebbe interessante coinvolgere gli ebrei che non fanno parte delle comunità in una struttura a ombrello, oltre l’Ucei, che coinvolga anche queste persone, almeno fino a un certo livello del discorso?». Magari sarebbe interessante anche rispetto ai dati demografici, che segnalano un calo importante? «Il calo demografico è un fatto e riflette la situazione nazionale. La comunità si compone maggiormente di persone anziane, i giovani spesso ingrossano le fila di una migrazione internazionale, non necessariamente verso Israele, mentre sono decisamente poche le persone che dall’estero scelgono l’Italia. Le conversioni sono pochissime e l’assimilazione intesa come matrimoni extracomunitari porta le persone in parte a coltivare le proprie tradizioni e il senso di appartenenza e in parte ad allontanarsene. Dunque c’è un deficit, simile a quello di altri stati europei. Probabilmente ampliare il dialogo con la popolazione ebraica non iscritta alle comunità potrebbe modificare leggermente i dati».

Sergio Della Pergola sarà a Milano, alla biblioteca della Fondazione Cdec, il 6 novembre alle ore 11 per parlare con Betti Guetta, sociologa e ricercatrice, è direttrice dell’Osservatorio antisemitismo della Fondazione CDEC, su Identità demografica ebraica in Italia e in Europa: interrogativi per il 21° secolo

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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