Ancora una volta, come negli anni trascorsi, le elezioni del 1° novembre si sono rivelate essere un referendum pro o contro Benjamin Netanyahu. Che con buone probabilità formerà un governo alleandosi con la destra radicale
Esiste un numero magico in Israele. È il sessantuno. La Cabala c’entra assai poco, mentre conta il problema, oramai endemico e cronico, di riuscire a raggiungere una maggioranza parlamentare tale da cercare di sopravvivere per una legislatura. Ovvero, almeno per una parte d’essa, senza sfasciarsi da subito, come invece è ripetutamente capitato in questi ultimi anni, dinanzi a defezioni e a prevedibilissimi “tradimenti” di coalizioni tenute insieme altrimenti con lo spago.
Ancora una volta, come negli anni trascorsi, le elezioni del 1° novembre si sono rivelate essere un referendum pro o contro Benjamin Netanyahu. Che al momento in cui scriviamo, parrebbe averlo vinto, assicurandosi un numero sufficiente di assensi tali da permettergli di superare la soglia dei seggi indispensabili per governare. Israele, per la quinta volta in 43 mesi, è infatti tornata alle urne per eleggere una maggioranza parlamentare, in grado di garantire ad un futuro esecutivo qualche garanzia di continuità. I pretendenti hanno comunque tre mesi effettivi, da oggi in poi, per cercare di costruire intorno a sé una coalizione durevole. Se le proiezioni verranno definitivamente confermate la divisione dei seggi dovrebbe essere questa: 31 al Likud, 23 a Yesh Atid, 14 a Sionismo religioso, 11 al Partito dell’ Unità nazionale di Benny Gantz, 10 allo Shas, 7 a United Torah Judaism, 5 a Yisrael Beiteinu, 5 ai laburisti, 5 a Ra’am, 5 ad Hadash-Ta’al, 4 al Meretz. Nel suo complesso, si configura una netta affermazione della destra, con la rilevante presenza di una componente radicale, caratterizzata dalla diffidenza verso il mondo arabo e da una visione etnica delle relazioni sociali e politiche, dove l’appartenenza all’ebraismo è vissuta come un elemento di distinzione, e in non pochi casi di separazione, dal resto delle collettività.
Sei milioni e 780mila israeliani hanno quindi visto di nuovo riaprirsi i seggi. Se nel 1949, i votanti furono l’86,9 per cento, alle penultime elezioni per la 24esima Knesset la percentuale era stata del 67,4. In un sistema elettorale come quello israeliano la diserzione dall’esercizio del diritto di elezione diventa peraltro un fattore strategico nel determinare le fortune o le sfortune delle singole liste. La presenza arabo-israeliana alle urne costituisce da sempre un’incognita, molto spesso rivelandosi abbondantemente al di sotto della media nazionale. Ad esempio, nelle elezioni del marzo 2022 non aveva superato il 44.6%. Nel 2015 la tradizionale litigiosità dei diversi partiti arabi era stata temporaneamente superata con la costituzione di una lista unita. L’obiettivo era quello di esercitare, anche da posizioni differenti, un’azione concertata a favore della componente araba d’Israele. Nelle elezioni del 2019, infatti, l’unione era stata premiata con 15 seggi. Le lotte politiche intestine avevano però decretato ben presto una scissione in tre diversi partiti. Il Ra’am, formazione islamista, con un programma basato essenzialmente sugli interessi della popolazione locale, è poi entrato a fare parte dell’ultima coalizione di maggioranza, un evento più unico che raro in Israele, dove invece i voti arabi sono sempre rimasti appannaggio dell’opposizione. Gli altri due partiti, Hadash-Ta’al e Balad, da sempre rappresentano e caldeggiano il nazionalismo palestinese, scontando quindi una sostanziale marginalità nel sistema politico israeliano.
Peraltro, l’offerta politica ha sopravanzato abbondantemente la domanda: 39 liste si sono presentate dinanzi all’elettore ma ben poche (meno di una dozzina) hanno superato lo sbarramento del 3,25% dei voti, al di sotto del quale non si può entrare alla Knesset. Nonostante questa vivace frammentazione, i contendenti più accreditati al premierato rimanevano tre: il medesimo Netanyahu, plausibile vincitore della tornata elettorale; Yair Lapid, primo ministro dal mese di luglio, entrato in politica nel 2012, ex volto della televisione israeliana, ora a capo del secondo partito Yesh Atid, «C’è un futuro», e infine Benny Gantz, ministro della Difesa uscente, ex capo di Stato maggiore, leader del nuovo «Partito di Unità Nazionale». Figure a tratti pirandelliane, attori alla ricerca di una partitura e, soprattutto, di un pubblico al quale chiedere il consenso elettorale. Il tasso di personalismo, nelle ultime campagne elettorali, non a caso, è andato crescendo oltre modo. La richiesta di consenso, sempre più spesso, si è giocata sulla figura del leader di turno, incaricato non tanto di rappresentare un programma politico definito quanto di fornire rassicurazioni e incentivare identificazioni tra i potenziali sostenitori. Nella media dei sondaggi il Likud era dato a 31 seggi, con un incremento di uno scranno parlamentare rispetto alla legislatura uscente; Lapid, invece, doveva assestarsi in un range compreso tra i 25 e i 27 seggi, di fatto vedendo aumentare di una decina di deputati la sua delegazione parlamentare. Gantz, invece non doveva andare oltre gli 11, superato in ciò dal Partito sionista religioso, di cui ancora si dirà, posizionato sulla quindicina di seggi. I partiti arabi (in rappresentanza di circa il 20% della popolazione nazionale) erano dati a quattro seggi ciascuno (Hadash-Ta’al e Ra’am). Le proiezioni sembrano in parte confermare questo quadro, anche se gli assestamenti nella ripartizione dei seggi potrebbero riservare ancora qualche sorpresa.
Nella campagna elettorale, e plausibilmente nel risultato emerso dalle stesse urne, il conflitto israelo-palestinese ha giocato uno scarso impatto. Malgrado la recrudescenza delle violenze e delle tensioni a Gerusalemme nonché il ritorno del terrorismo, l’agenda delle priorità è stata dettata da altri ordini di motivi. Rimane il fatto che in un paese dove il tasso tendenziale dei prezzi dei beni di uso comune – in rapporto ponderato alla massa salariale, al potere d’acquisto e alle ricchezza nazionale – risulta essere oramai superiore del 40% a quello della zona euro, si sia svolta una pallida e astiosa campagna elettorale che si è rivelata essere una sorta di implicito assist nei confronti di Netanyahu, perennemente al centro dell’altrui attenzione, e quindi, come tale, giudicato tanto negativamente dai suoi detrattori quanto positivamente dai sostenitori. Di lui si è discusso per il suo maniacale egocentrismo, per il cesarismo che lo accompagna, per lo stile apertamente populista, per l’insofferenza nei confronti del meccanismo liberale di divisione dei poteri. Ma soprattutto, se ne è parlato costantemente, polarizzando ancora una volta le opinioni. I suoi avversari, stendendogli intorno una sorta di cordone sanitario, per isolarlo il più possibile, hanno affermato che per salvare se stesso dai suoi guai giudiziari sarebbe disposto a fare affondare un intero paese. Anche per una tale ragione Lapid ha invitato gli elettori israeliani di origine araba, maggiormente propensi all’astensionismo, ad andare invece a votare, scegliendo eventualmente tra i partiti “etnici”. Tuttavia, Netanyahu non è mai stato escluso del tutto dai meccanismi di formazione delle maggioranze politiche. Anche contro l’ultimo governo, costituitosi in dichiarata contrapposizione alla sua figura, ha implacabilmente giocato tutte le sue carte, di fatto concorrendo allo sgretolamento della debolissima maggioranza parlamentare che lo sorreggeva. Peraltro il premier uscente Yair Lapid non è rimasto con le mani in mano, avendo sottoscritto con il Libano, nei pochi mesi del suo mandato, l’accordo strategico sui confini marittimi, destinato ad aprire la strada allo sfruttamento sistematico dei giacimenti off-shore di gas. Oltre che un successo economico è un risultato politico, posto che nella dottrina ufficiale di Beirut, lsraele rimaneva non solo un nemico ma una sorta di cavaliere inesistente, destinato – prima o poi – a sparire dalla scena geopolitica. In questi stessi mesi, nella lotta al terrorismo Gerusalemme ha poi mostrato il pugno duro, adoperandosi nella lunga operazione «Break the Wave», il cui obiettivo è quello di silenziare una parte delle milizie palestinesi.
In questo quadro, come ha commentato sagacemente il Giornale, l’ennesimo ritorno alle urne si è manifestato come «un record, [ovvero] un segnale di stress e di antagonismo insanabile, dentro il guscio di un’unità essenziale alla sopravvivenza, accompagnato da una comprensibile stanchezza degli elettori». Quello che deriva dal responso del voto, per l’ennesima volta, è quindi l’ipotetica ma aleatoria fattibilità di una maggioranza tendenzialmente zoppa, con un vincitore, lo stesso Netanyahu, che qualora dovesse riuscire in un’operazione di assemblaggio di partiti connotati da una spiccata tendenza radicale, si troverà comunque, malgrado i tanti seggi riconquistati da un Likud da tempo completamente in mano sua, a dovere fare i conti con le spinte centrifughe che i potenziali alleati di coalizione potrebbero ben presto esprimere.
L’instabilità delle coalizioni, e i loro scarsi o nulli margini di azione al di fuori del perimetro di maggioranze parlamentari eternamente risicate, sono oramai costanti della politica israeliana, che solo in parte rispondono al perdurare della frammentazione proporzionalista che domina il criterio di attribuzione dei seggi. In altre parole, il problema non è tanto quello dell’ingegneria elettorale ed istituzionale – i passati tentativi di dare una risposta in tal senso, con l’elezione diretta del premier, si sono a loro volta infranti dinanzi ai dati di fatto – quanto di una società pluralistica ma frammentata, dove la propensione a proiettare sul piano politico la condizione di nicchia di molti elettori, si riflette nei risultati di ogni tornata in cui i cittadini sono chiamati a votare per un’inesistente maggioranza politica, al netto degli assemblaggi di coalizione che poi i singoli leader riescono più o meno miracolosamente a realizzare. È una situazione che non appartiene solo a Gerusalemme ma che attraversa, sia pure in forme diverse, tutti i paesi a democrazia avanzata, laddove la politica nel corso di questi ultimi decenni ha perso molto terreno decisionale rispetto all’economia, che si muove invece da sé, disegnando e decidendo un’agenda propria, che poi impone nei fatti alla società. Che, a sua volta, vive ripetute crisi di mutamento. Alla quale la destra nazionalista, ora più che mai rivestita di panni identitari, sa dare risposte e rassicurazione più convincenti, almeno per una parte della collettività, di quelle offerte da una sinistra un po’ ovunque agonizzante. Secondo diverse ricerche statistiche ad oggi il 62% degli elettori israeliani si identifica con una delle destre presenti nell’agone politico, da quelle secolarizzate a quelle religiose, dalle moderate a quelle estremiste, dalle nazionaliste alle identitarie. Un segno dei tempi se si pensa che solo tre anni fa, nel 2019, il posizionamento in tale senso riguardava il 46% dei cittadini. Peraltro, il ruolo delle sinistre storiche, ancora rappresentate dal Meretz e dai laburisti, è stato in parte assunto, nel corso del tempo, dalle formazioni centriste. Oggi, non a caso, a primeggiare come futura opposizione è Yesh Atid di Yair Lapid, che conta su un robusto capitale elettorale, essendo il secondo partito del Paese. La sua collocazione è stata ripetutamente assimilata, o comunque comparata, a quella di Renaissance di Emmanuel Macron, del Partito democratico in Italia, di una parte della Spd e della Cdu tedesche: una sorta di centro secolarizzante, attento al pluralismo e di impronta liberale, disponibile alla soluzione dei «due Stati per due popoli» nella negoziazione del conflitto israelo-palestinese. Qualcosa di completamente opposto alla destra radicale che è andata comunque affermandosi nelle urne.
Benjamin Netanyahu, l’uomo politico che più è stato in sella al governo tra i diversi leader israeliani, ricevendo un primo incarico tra il 1996 e il 1999 e successivamente, in maniera ininterrotta, dal 2009 al 2021, può vantare un bilancio dei suoi trascorsi premierati fatto di alcune luci e diverse ombre. Sul piano geopolitico, ha senz’altro contribuito ai processi di distensione con gli interlocutori (nonché oramai per più aspetti ex nemici) sunniti del Golfo: il quadro regionale che ne emerge è maggiormente rassicurante di quanto non fosse invece anche solo un certo numero di anni fa. Sul piano interno, «Bibi» sconta invece una forte crisi di credibilità, che dura da molto tempo, tra accuse di corruzione, vocazione autocratica, insofferenza per le regole della democrazia. I suoi sostenitori, non pochi, sono tuttavia immuni da qualsiasi critica, giudicandolo come l’unica figura in grado di guidare il Paese. Le medesime critiche vengono ulteriormente amplificate puntando polemicamente il dito contro la sua probabile coalizione con il Partito Sionista Religioso, un blocco di una quindicina di seggi guidato da due esponenti della destra radicale, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Ben Gvir ha raccolto l’attenzione dei mezzi di informazione impugnando un’arma, durante alcuni scontri a Gerusalemme, e annunciando che sarà ministro della Giustizia. Peraltro, già nell’autunno del 1995, all’età di 19 anni, si era fatto notare come militante estremista, professando la sua avversione nei confronti dell’allora premier Yitzhak Rabin, assassinato alcune settimane dopo da Yigar Amir. Otzma Yehudit («Forza ebraica») e HaTzionut HaDatit, noto fino al 2020 come Tkuma(«Resurrezione)» o Unione Nazionale-Tkuma (in ebraico HaIchud HaLeumi–Tkuma), sono formazioni politiche israeliane di estrema destra. La componente prevalente, o comunque più significativa, è quella che si rifà d alcuni aspetti dell’eredità del partito Kach, dichiarato fuorilegge dalle autorità israeliane nel 1994. Tuttavia, per coglierne l’impatto e la rappresentatività occorre indagare sulle complesse, e a volte contorte, vicende delle alleanze, cosi come delle competizioni, all’interno della galassia estremista della destra israeliana. Non appena il quadro elettorale si sarà stabilizzato, con la definitiva assegnazione dei seggi, e con la conseguente formulazione delle possibili alleanze, torneremo su quest’ultimo elemento, analizzando come il radicalismo di destra abbia compiuto una lunga evoluzione, dagli anni Settanta ad oggi, al punto da condizionare le maggioranze parlamentari.
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Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.