Cultura
Israele dopo il voto: la rotta del governo che verrà

Il parlamento della venticinquesima legislatura, molto probabilmente, contrapporrà le sue prerogative a quelle della Corte suprema israeliana, cercando di limitare i poteri di equilibrio e garanzia esercitati da quest’ultima. Per poi intervenire sulle nomine dei giudici…

Si apre la venticinquesima legislatura in Israele, dopo ben quattro anni di tormenti, tra precarietà e disillusioni, esperimenti abortiti e tentativi falliti. Ora bisognerà vedere che tipo di maggioranza parlamentare verrà effettivamente varata. Ossia, chi imbarcherà per davvero al governo colui che è l’autentico vincitore della quinta tornata elettorale, Benjamin Netanyahu. Vincitore definitivo, se saprà bene amministrare il tempo a venire e non si farà azzoppare nel suo cammino politico. È stato peraltro un plebiscito, l’ennesimo, sulla sua persona. Lo ha vinto, con un’elevata partecipazione degli elettori (4.793.694), più del 70% degli aventi diritto (6.788.804), comunque al di sopra delle aspettative iniziali, posto anche il fatto che le schede nulle o bianche sono state solo lo 0,62%. Il vincitore, che è riuscito a convogliare verso il suo partito circa un quarto dei voti utili, ha un po’ di tempo a sua disposizione prima di rivelare quali carte intenda mettere sul banco. Sicuramente, starà facendo le sue valutazioni, essendo per definizione un maestro delle coalizioni. Nel duplice senso che sa come formare le alleanze che ruotano intorno alla sua persona così come sa in quale modo concorrere a disfare quelle che la escludono. Se lo scostamento di voti dei singoli partiti è rilevante ma non tale da restituire il senso dello stravolgimento in atto, senz’altro la geografia elettorale che ne emerge richiede tanto più una lettura non occasionale, ossia di mera circostanza. L’analisi dei flussi in entrata e in uscita rispetto alle singole liste, così come la loro distribuzione territoriale, potrà aiutare a ricostruire le dinamiche in atto. La coalizione tra destra nazionalpopulista e destra radicale risulta senz’altro vincente (ossia all’interno di un range di preferenze tra il 70 e l’80%) in West Bank, con un elevato seguito (tra il 50 e il 70%) nelle regioni centrali e meridionali e nel Golan, con una margine più risicato (tra il 30 e il 50%) nella Galilea e nelle aree settentrionali.

Da subito il risultato definitivo delle elezioni israeliane è parso tanto chiaro quanto netto. A partire, si intende, dall’attribuzione dei seggi. La ripartizione, con il sistema elettorale proporzionalista che vige in Israele, assegna una netta vittoria alla coalizione di destra (64 seggi), spostandone parte del suo stesso baricentro politico nei  termini di una sua maggiore radicalizzazione ideologica. Con il 23,41% dei voti il Likud si garantisce infatti 32 seggi, pari ad un incremento di due deputati rispetto all’assemblea parlamentare trascorsa. Era il primo partito già nelle precedenti legislature, di brevissima durata, ma i suoi mandati parlamentari erano stati congelati di fatto dalla composita coalizione che gli altri partiti avevano costruito, nel tentativo di scalzare Netanyahu isolandolo completamente. Yesh Atid, con il 17,78% di assensi, aumenta di 7 seggi, arrivando ai 24 complessivi.

Tuttavia è il partito del Sionismo religioso, che raggiunge i 14 scranni (aumentandoli di 8, con un riscontro del 10,83%), a rivelarsi la formazione exploit di questa tornata elettorale. Unità nazionale di Benny Gantz – invece – perde 2 seggi (12, al 9,08%), lo Shas ne acquista 2 (11, all’8,24), l’UTJ, partito haredi, rimane invariato (7, per il 5,88%), il partito arabo islamista Ra’am ne prende uno in più (5, per il 4,07%), Hadah-Ta’al a sua volta rimane a 5 seggi (3,75%) mentre i laburisti vengono ridimensionati di 3 scranni (4 seggi complessivi, per 3,69%). Per la prima volta nella sua esistenza il Meretz, la sinistra sionista, non supera lo sbarramento del 3,25% per soli 3.800 voti (ottenendo il 3,1% con 150.696 voti). Consegna quindi i sui 6 precedenti seggi alle liste vincitrici. Se quest’ultimo partito, e il nazionalista arabo Balad (2,9%, per 138.093 voti), avessero varcato il limite minimo, la distribuzione generale dei mandati parlamentari sarebbe risultata diversa, probabilmente creando uno scarto minimo tra lo schieramento della destra e quello avverso a Netanyahu. Per verificarsi, ciò avrebbe tuttavia richiesto che le due liste escluse dalla rappresentanza parlamentare si fossero anzitempo coalizzate: la prima con i laburisti di  Merav Michaeli, la seconda con gli altri due partiti arabi. In buona sostanza, gli oppositori al premier entrante (affinché lo diventi effettivamente, deve prima ricevere l’incarico dal presidente dello Stato Isaac Herzog e poi ottenere la fiducia parlamentare) si sono presentati divisi, agevolando quindi il fronte politico avverso.

Rimane uno spazio residuale per una diversa ipotesi di alleanza. Se il Likud di Netanyahu dovesse scegliere un accordo politico con Gantz, pur con tutti i problemi che da ciò deriverebbero, gli estremisti di Sionismo religioso rimarrebbero all’opposizione. Ma appare assi improbabile che le cose possano seguire un tale indirizzo, posto che già da ben prima delle elezioni era parso più che evidente il fatto che i rapporti politici tra l’ex premier e i due maggiori esponenti del partito radicale, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Yoel Smotrich, sono tali da agevolare l’ingresso di questi ultimi nella nuova maggioranza parlamentare, eventualmente premiando e promuovendo i suoi leader al rango di ministri. Nonostante i crescenti dissensi, anche piuttosto pronunciati, che arrivano da molte parti, soprattutto dall’estero, a partire dagli Stati Uniti, dove la crescita della destra radicale è seguita con scetticismo se non apprensione.

A poco tempo dalla chiusura delle urne si possono quindi già fare alcune considerazioni di fondo, che in parte ricalcano gli scenari che già si erano andati delineando nei mesi scorsi. La prima di esse è che Benjamin Netanyahu rimane la figura intorno alla quale il sistema politico israeliano è destinato a ruotare per i prossimi anni. La sua straordinaria longevità politica fa sì che sia il leader con il maggiore numero di anni di governo sulle spalle. La qual cosa, oltre a segnare un primato, rivela anche quanto sia in grado di condizionare, polarizzandolo, il voto popolare. Il suo Likud, peraltro, anche se celebra nel suo pantheon figure come Menachem Begin e Yitzhak Shamir, di cui ha mantenuto il radicalismo di fondo, è tuttavia una formazione politica mutata nel tempo, ovvero fortemente identitaria, che gioca le sue carte sulla forte sovrapposizione tra l’onnipresenza del “capo” e la fidelizzazione dei suoi sostenitori-elettori. La plausibilità di una maggioranza tra destra nazionalista e destra radicale si inscrive anche all’interno di questo quadro di riferimento, dove all’elemento della decrescente secolarizzazione si accompagna non tanto un ritorno della religiosità come indice civile (e ancor meno spirituale) bensì come richiamo ad un’identità politica costituita e puntellata da principi non contrattabili e quindi insindacabili. Il Likud si presenta usando un linguaggio in assonanza con questo comune sentire: lo stesso richiamo al «patriottismo» come discriminante di fondo, è parte di una arsenale senz’altro non nuovo per le destre ma che ora viene riformulato sulla scorta di un dizionario sovranista, dove negli eventuali conflitti tra tutele paracostituzionali (quelle stabilite dal sistema delle Leggi fondamentali, basato su un impianto pluralista) e rimandi alla “natura” profonda dell’essere israeliani, si privilegia il secondo elemento, anche in potenziale deroga al sistema dei diritti. Si assiste infatti ad un fenomeno non del tutto inedito ma che rompe in parte con gli assetti precedenti: se fino agli anni Ottanta l’indirizzo di fondo era la secolarizzazione del repertorio di elementi e simbolismi religiosi, ricondotti e subordinati alla sfera dell’azione politica, ora è la politica medesima a essere in qualche modo consegnata ad un messianismo atemporale, dove la legittimazione dei processi decisionali sempre più spesso, per una parte delle classi dirigenti, deve incontrarsi con una sorta di investitura carismatica che non riposa solo nelle doti della leadership ma anche in una visione catartica, rigenerativa della società stessa. Di cui, per l’appunto, la figura del premier diventa punto imprescindibile di riferimento, poiché ne incarnerebbe le virtù collettive. In fondo, anche in  Israele la vittoria delle destre segna il ritorno di una certa idea di politica, basata sul rifiuto, in una parte della popolazione, di assegnare ad essa la sola funzione di amministrazione dell’esistente. Per il radicalismo di destra la politica deve invece essere una sorta di spazio di “moralizzazione”, un investimento nella ricostruzione della società, dove l’eccesso di pluralismo va ricondotto ad uno standard univoco, dove prevale un carattere esclusivo, in qualche modo da promuovere, anche a rischio di escludere quanti non si riconoscano in esso, per rigenerare coesione sociale.

La seconda considerazione, ad immediato rimando e riscontro della prima, è che nel complesso mosaico socio-culturale israeliano la proposta della destra odierna è quella di etnicizzare l’appartenenza ebraica, riformulandone i suoi significati: non più elemento di una cittadinanza giuridica e civile ma indice di una condizione originaria, quella di “natura”, che si fa in sé dimensione politica totalizzante. L’essere ebrei, in quest’ottica, non è più il costituire parte di un tutto, dove si collocano anche i non ebrei, ma una totalità che vive di luce propria, a prescindere da qualsiasi obbligo di mediazione con il resto delle collettività. L’israelianità è ebraismo e non altro. Ma l’ebraismo, a sua volta, è qui inteso essenzialmente come un carattere etno-nazionale e non al medesimo tempo come anche qualcosa d’altro. Da questa premessa si alimenta quindi la crescente spaccatura nei confronti della componente araba del Paese. La dimensione etnica del neonazionalismo è presente un po’ ovunque nelle destre di governo, quindi non solo in Israele, connotandole in termini sostanzialmente illiberali e antipluralisti. Non a caso, al netto delle vicende giudiziarie che chiamano in causa lo stesso Netanyahu, rimane comunque il riscontro che è tratto comune di queste ultime il porsi tra i propri obiettivi anche quello di ridimensionare l’autonomia di uno dei tre poteri, ossia quello giudiziario. È avvenuto in una parte dell’Europa orientale, potrebbe adesso verificarsi a Gerusalemme.

Un terzo elemento è quello che da tempo va ripetendosi in molti paesi a sviluppo avanzato, ossia la radicalizzazione del quadro politico e l’estremizzazione dell’asse tra destra e sinistra. Ciò non per l’accentuazione delle distanze tra la prima e la seconda ma per il totale declino di quest’ultima, con un conseguente ribaricentramento a destra di tutti gli equilibri politici. Più che di astratte geometrie politiche si tratta, semmai, dell’effetto di una caduta della stessa dialettica tra opzioni contrapposte: lo spazio politico prevalente viene riempito ed occupato da temi e questioni che sono parte dell’agenda delle destre post-industriali e nazional-populiste, le quali, dopo avere assunto su di sé la rappresentanza politica di una parte di elettorato che un tempo avrebbe invece votato per i partiti della sinistra, si pongono adesso come soggetti del mutamento istituzionale.

Infatti, ed è la quarta considerazione, l’obiettivo che le unifica, dentro Israele ma anche nell’agone internazionale, è quello di introdurre elementi di neutralizzazione del sistema di pesi e contrappesi che caratterizza le moderne società politiche a matrice liberale. Il parlamento della venticinquesima legislatura in tutta probabilità contrapporrà le sue prerogative a quelle della Corte suprema israeliana, cercando di limitare i poteri di equilibrio e garanzia esercitati da quest’ultima. Per poi intervenire sulle nomine dei giudici. Si tratta quindi di un fenomeno transnazionale, dove convergono più elementi, a partire dal riscontro che la crisi di rappresentanza di una parte crescente della società è raccolta da quelle forze politiche che legano nazionalismo a populismo, sovranismo a identitarismo, etnicità a territorialismo. Celebrare questi anni come “post-ideologici” è, francamente, illusorio: semmai si è riformulata per intero la natura dell’essere ideologici, ancorandone il profilo ai temi che sono parte integrante della narrazione pubblica portata avanti dalla nuova destra post-industriale. Il discorso etnico, vale la pena di ripeterlo, è premiante rispetto al senso di tante altre appartenenze, soprattutto dal momento in cui le torsioni che il mondo del lavoro sta a tutt’oggi subendo, in ragione di una profonda trasformazione delle nostre società, ne colpiscono la sua stessa struttura interna, spiazzando la collocazione sociale di molti individui. Non di meno, la crisi che sta attraversando le collettività si riflette sui ceti medi, mettendone in discussione status e prospettive, La capacità delle formazioni “populiste”, a fronte di questo quadro, è quella di riuscire ad intercettare il disagio diffuso, dando ad esso un indirizzo di significato unitario e offrendogli una qualche accoglienza, non importa quanto illusoria. Una tale risposta contempla sempre e comunque la volontà di trasformare gli equilibri istituzionali, riducendo i margini di tutela giuridica degli individui ma anche quelli del riconoscimento dell’intermediazione e della ponderazione dei poteri come fattori altrimenti basilari di un’autentica democrazia.

In un tale tracciato, ed è la quinta considerazione, si inserisce la variabile rappresentata dal partito del Sionismo religioso che è il prodotto più recente di una traiettoria che si origina con i primi anni Settanta, quando l’amministrazione del West Bank (Gaza fu e rimase sempre discorso a sé), e la contesa sul futuro politico di quei territori, innescò una serie di spinte, tra di loro anche contraddittorie e discontinue, nelle quali emerse con crescente virulenza una corrente di destra iperterritorialista, dai tratti radicalizzati, che trovava anche nelle posizioni estreme di Meir David Kahane, sospese tra messianismo e apocalitticismo, razzismo e nichilismo, uno dei suoi più significativi esponenti. Non è questo il luogo per entrare nel dettaglio del racconto di quella componente, non esauritasi con la morte nel 1990 del suo maggiore rappresentante. Semmai quello che oggi va registrato è che i propugnatori non solo di un «Grande Israele», così come già una parte del sionismo revisionista andava vaticinando, ma anche di un «Regno di Giudea» che comporterebbe una forma ibrida di pseudo-teocrazia antiliberale, siedano alla Knesset. Non è del tutto una novità in sé ma adesso, per così dire, le carte si fanno scoperte. Soprattutto laddove i temi di un suprematismo ebraico, coltivato in alcuni ambienti, saranno sempre più spesso caldeggiati da quanti ne faranno ricorso anche per cercare di contrapporsi e ridimensionare la dimensione altrimenti laica e secolare del resto del Paese.

Peraltro, un tale estremismo – che si esprimerà sempre di più sia su questioni di politica interna (diritti civili, separazioni dei poteri, ruolo della religione nella vita quotidiana, moralità pubblica e altro ancora) così come di politica regionale (a partire dai territori amministrati, contesi, occupati) – non potrà non creare difficoltà al premier in pectore Benjamin Netanyahu che, essendosi avvalso anche di una tale spinta, dovrà ora dimostrare di saperla governare, dinanzi ai molti dossier che gli verrà chiesto di gestire contemporaneamente. Ancora una volta, fermo restando che nella prossima maggioranza potrebbero rivelarsi alcune irrisolte simpatie verso l’autocrazia putiniana, il metro di misura saranno gli Stati Uniti: se dovesse tornare per un secondo mandato Donald Trump, nel 2024, allora la partita in corso si rivelerebbe solo all’inizio, potendo riservare non poche sorprese per i tempi a venire.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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