Dal collo dell’oca al pastrami, senza scordarci del gefilte fish
Novembre è il mese dell’oca. Forse la cosa non farà notizia, tanto più negli ambienti urbani, ma di certo nelle campagne del nord Italia la tradizione non è ancora andata del tutto perduta. Il consumo di questa carne ormai poco diffusa si concentrava un tempo in occasione della ricorrenza cristiana di San Martino. Secondo gli storici la tradizione non si sarebbe limitata al nostro paese ma avrebbe riguardato anche la Francia, dove l’11 novembre si ricordava il militare fatto santo mangiando appunto le carni del grasso pennuto.
Sulle ragioni di questa predilezione esistono diverse teorie. Una di queste narra che il futuro prelato, acclamato vescovo a furor di popolo, non fosse troppo convinto del prestigioso incarico e che si fosse andato a nascondere nei pressi di un’aia. Facendosi smascherare proprio dagli schiamazzi delle oche. Un’altra teoria associa queste giornate di metà autunno alla chiusura dell’anno agricolo, da celebrare mangiando questo volatile nel momento in cui presenta le carni più grasse e polpose. Esiste poi un’altra tesi, legata alle celebrazioni che da anni si tengono nella cittadina di Mirano, in provincia di Venezia, e denominate appunto Fiera de l’Oca. Secondo gli storici, in queste zone l’abitudine di festeggiare la chiusura dell’anno agricolo con il consumo di carne di oca sarebbe legato agli usi della comunità ebraica che fino alla seconda guerra ricopriva ruoli di rilievo nel comune a un passo dalla Laguna. Oltre che nella politica, dove si contano personalità come Paolo Errera, sindaco di Mirano dal 1895 al 1920 e ucciso dai nazisti con la moglie Nella Grassini, gli ebrei erano abche importanti proprietari terrieri. E sarebbe stato il loro uso di sostituire l’altrimenti privilegiato maiale con l’oca a influenzare le abitudini dell’intera cittadinanza.
Comunque si consideri la cosa, è un fatto che l’Italia settentrionale può vantare una sua prolifica tradizione gastronomica legata all’uso dell’oca, dai salami all’arrosto conservato nei vasi di coccio ricoperto dal suo stesso grasso. Da non dimenticare poi le nome che in Veneto viene dato ai tocchetti di pelle d’oca cotti fino a farli diventare croccanti e a loro volta conservati nel proprio grasso. L’impiego della pelle è del resto significativo dello spirito del tempo che fu, quando non si buttava via niente, e della nomea dell’oca come versione kasher del maiale, animale di cui tradizionalmente si sfrutta ogni parte.
Ma se in Italia non mancano i casi di compresenza e di influenza tra culture e congregazioni religiose, è spostandosi presso le comunità ebraiche del nord Europa che si entra nel territorio di eccellenza dell’oca. Tra le preparazioni tipicamente ashkenazite vale la pena di ricordare una pietanza a rischio di estinzione e anche per questo meritevole di una nota come l’helzel. Come ricorda il nome, che in yiddish significa collo, si tratta di un insaccato ottenuto farcendo con pane e altri amidi la pelle del collo di un pollo, di un tacchino, di un’anatra o, appunto di un’oca. Quest’ultima sarebbe stata preferita al resto del pollame per la sua grassezza, che forniva particolare gusto e ricchezza al prodotto finale, equiparabile a una rudimentale salsiccia. Originaria si pensa della Turchia, dove gli ebrei usavano farcire il collo con un miscuglio di pane e di noci tritate, questa pratica sarebbe arrivata in Europa durante il dominio ottomano dei Balcani e dell’Ungheria affermandosi presso le comunità ashkenazite. Piatto tipico dei poveri, l’helzel era diventato il piatto di Shabbat e di altre occasioni speciali per i meno abbienti, che sfruttavano così anche gli scarti del macellaio kosher. Oltre alle briciole di pane o la farina di matza, alle spezie e agli aromi, c’era un ingrediente che non poteva mancare nella farcia di questo insaccato. Usato anche nella cottura, parliamo ovviamente dello schmaltz, uno degli ingredienti più rappresentativi della cucina ebraica ashkenazita.
2- Dall’importanza paragonabile al nord a quella dell’olio per la cucina mediterranea, lo schmaltz indica genericamente il grasso animale, ma più specificamente si riferisce a quello di pollame fuso e chiarificato. Ingrediente indispensabile per friggere e cucinare in tutte le zone in cui il grasso vegetale è raro e costoso, lo schmaltz veniva tradizionalmente preparato con l’oca nell’Europa occidentale e centrale. Più a est sarebbe stato sostituito con altro pollame, per quanto l’oca sarebbe comunque restata la materia prima preferita per la sua ben nota ricchezza. La sua preparazione ricorda in qualche modo quella del ghee, il burro chiarificato indiano, e prevede un lento processo di cottura grazie al quale proteine e acqua vengono separate ed eliminate dal grasso. Questo si conserva in forma liquida e senza deteriorarsi per diversi mesi a temperatura ambiente, mentre al freddo si solidifica e resiste fino a un anno. Sostituto del burro nella cottura delle carni, regala un sapore inconfondibile ai fritti, dai latkes alla shnitzel, ma anche allo cholent, ai kugel e alle versioni ashkenazite delle già citate gribole venete, i gribenes. Di grasso animale si parla però anche in altre occasioni. Tanto che il termine schmaltz può essere usato perfino quando si parla di aringhe…
3 -Tra le caratteristiche di questo pesce tipico dei mari più freddi c’è la sua grassezza. In grado di raggiungere dimensioni ragguardevoli, con un peso intorno al mezzo chilo, ma pescata quando è ancora piuttosto piccola, l’aringa è particolarmente deperibile proprio a causa del suo elevato contenuto di grassi. Prima che si sviluppassero le diverse tecniche di conservazione, veniva consumata subito dopo la cattura e diffusa solo presso le comunità costiere. Le cose sarebbero cambiate nel XV secolo, quando gli olandesi scoprirono come conservarle sotto sale e i commercianti ebrei iniziarono a trasportare i barili di aringhe salate dai porti dell’Olanda, dell’Inghilterra e della Scandinavia attraverso tutta l’Europa centrale e orientale. Tra le diverse tipologie di questo pesce, ancora oggi conosciuto perlopiù nella sua versione conservata, troviamo la cosiddetta aringa Schmaltz. Si tratta di un pesce adulto con una percentuale di grassi di almeno il 18%, confezionato intero ma senza testa. Più nello specifico, con la denominazione di Schmaltz Herring ne sono indicate le conserve in salamoia. Piatto cardine della tradizione ebraica polacca, ucraina e degli Stati baltici, l’aringa Schmaltz ha trovato storicamente spazio sulla tavola di Hanukkah come su quella del venerdì sera, onorando così l’uso di mangiare il pesce per Shabbat.
4- Dall’alto valore simbolico, il pesce ha dato nei secoli qualche grattacapo agli ebrei osservanti. Come rispettare infatti l’obbligo di riposo del sabato che proibisce, tra i lavori, anche la separazione della carne dagli ossi e, nel caso dei pesci, da lische e spine? La soluzione ha assunto le forme diverse presso le comunità del Mediterraneo e del nord Europa. E se in Spagna e nel Medio Oriente si è puntato sui pesci spolpati e impastati prima del sabato a formare delle polpettine, in Germania si è preso spunto dall’antica pratica risalente ai Romani di scuoiare gli animali e di farcirli prima della cottura con la loro stessa carne lavorata. Questa tecnica sarebbe poi passata ai cuochi medievali delle famiglie più agiate tedesche e francesi che si concentrarono sulla farcitura di lucci e persici e altri grossi pesci di acqua dolce. La creazione del gefilte fish deriverebbe dunque dall’influenza dei cuochi cristiani su quelli ebraici, che nella Germania del Medio Evo presero spunto dalle antiche ricette per perfezionare quello che sarebbe poi diventato un grande classico della cucina ashkenazita. Classico, va detto, che sotto lo stesso nome ha finito con l’indicare fuori dalla Germania due versioni: quella che conserva anche la pelle, ricostruendo il pesce, e quella invece che ne mantiene solo la polpa, tritata, impastata con altri ingredienti e quindi ridotta in quenelle da cuocere e servire in brodo. Entrambe le versioni hanno raggiunto l’apice del successo presso le comunità dell’Europa orientale, diventando dal XVII secolo uno dei piatti tipici di Sabbath. Polonia, Ungheria, Stati Baltici e Ucraina avrebbero fatto di difetto virtù, sfruttando la possibilità di arricchire le loro magre risorse ittiche con gli ingredienti di recupero più diversi, comprese le stesse lische di pesce tritate.
Tra i tanti condimenti scelti per dare gusto alla preparazione, emerge nelle cucine dell’Est Europa l’impiego di una radice originaria proprio di queste zone: il rafano. Appartenente alla sterminata famiglia delle Crucifere, il rafano si presenta come una radice biancastra e affusolata, amante dei climi freddi e dei terreni umidi. Privo di aroma prima del taglio, quando viene grattugiato sprigiona degli oli volatili che gli conferiscono l’inconfondibile gusto pungente, che scompare però in breve tempo se non viene conservato con l’aceto. Il suo nome yiddish, chrain, deriva dalla parola slava con la quale veniva indicato nelle zone meridionali della Germania e in Austria. La sua prima menzione in una fonte ebraica compare in un elenco di ingredienti per preparare lo charosent risalente al XII secolo, mentre solo relativamente di recente viene inserito tra le erbe amare adatte al Seder di Pesach. Inizialmente veniva concesso solo come alternativa ad altre verdure nel caso queste non fossero disponibili. Cosa che, visto il clima spesso ancora rigido di inizio primavera, capitava piuttosto spesso. Difficilmente associabile a un’erba amara, trattandosi di una radice e per giunta non amarotica, il rafano è stato comunque assimilato per la sua diffusione nella cultura gastronomica dell’Europa Orientale. Qui era già protagonista non solo del già citato pesce ripieno ma anche nel condimento di insalate, patate, verdure, carni e salumi. Alla base di un piccolo grande impero conserviero come la Gold’s Horseradish, fondata nel 1932 a Brooklyn da Hyman Gold, un immigrato ebreo polacco, e da sua moglie Tillie, la salsa di rafano si spartisce onori e consensi con un altro condimento dalla ricca storia ebraica: la senape.
5 – Apprezzata sia come medicinale sia come alimento fin dalla sua prima diffusione in Asia, Africa ed Europa, la senape condivide con il rafano l’appartenenza alla stessa famiglia botanica e il gusto piuttosto sferzante, concentrato in questo caso nei semi. Come nel caso della già citata radice, affinché l’aroma di queste minuscole sfere si diffonda è necessario che siano macinate e mescolate con un liquido come acqua fredda, vino, birra o aceto, ma possono essere aggiunte anche intere a conserve e preparazioni cotte. Conosciuti fin dall’antichità presso gli Ebrei, gli Egizi, i Greci e i Romani, i semi di senape non compaiono nella Bibbia, ma sono citati nel Talmud come l’unità di misura più piccola. Nel corso del Medio Evo si sono diffusi presso la popolazione come alternativa al pepe, destinato ai più ricchi in quanto importato dall’India, perdendo terreno nel Settecento quando l’altra spezia è diventata più a buon mercato. Tra alti e bassi della storia questi semini dal colore bianco, marrone o nero, a seconda della varietà, sono comunque rimasti tra le spezie più diffuse e apprezzate. E l’omonima salsa è diventata parte fondamentale dell’alimentazione delle comunità ashkenazite ben prima di spopolare nelle gastronomie ebraiche d’Oltreoceano. Capace di regalare sapore anche ai cibi più umili, riesce ad ammorbidire quelli più secchi, rivelandosi la scelta più azzeccata per i panini, in particolare a base di carne come il pastrami…
6 – Le origini di questo prodotto risalgono probabilmente agli Ottomani, che anticamente conservavano le carni più diverse grazie alla pressatura, la salatura e l’essicazione. Il nome di questo antenato del pastrami era basturma e pare derivasse dal verbo turco che significa “torcere”. Portato nei Balcani dalle truppe turche, avrebbe assunto in Romania un nome simile a quello con cui ancora oggi lo indichiamo, pur risultando ai tempi ben più duro e gommoso. Gli ebrei rumeni non si sarebbero fatti scappare la possibilità di sfruttare questo metodo di conservazione per avere delle carni kosher da portare con sé nei loro lunghi viaggi. Ci avrebbero messo comunque del loro, applicando le tecniche ottomane per trattare manzo e oche e arricchendone le carni con ben più spezie rispetto agli Ottomani.
Il nome yiddish per quel piatto era pastrama o pastirma, ma la somiglianza nei termini non deve trarre in inganno. Il pastrami moderno è una creazione squisitamente statunitense e relativamente recente, sviluppatasi poi anche grazie alla refrigerazione artificiale. La possibilità di conservare la carne al freddo ha portato infatti a un uso più parco della salamoia e a una consistenza più morbida della carne. Leggenda vuole che la diffusione dei primi pastrami in America sia dovuta all’intraprendenza di un immigrato ebreo lituano, Sussman Volk, mugnaio giunto a New York con la moglie e sette figli nel 1887. Dopo avere aperto una macelleria kosher, l’uomo avrebbe fatto un favore a un conoscente rumeno in procinto di tornare nel suo paese d’origine e bisognoso di un luogo dove lasciare al sicuro le sue cose. In cambio dell’ospitalità, l’uomo avrebbe donato a Volk la sua ricetta di famiglia per il pastirma. Il nuovo prodotto avrebbe fatto in breve tempo la fortuna dell’ex mugnaio che, abbandonata la vecchia macelleria, avrebbe aperto la prima gastronomia in America che vendeva la specialità rumena. Quanto al nome, si pensa che si sia trasformato in pastrami per assonanza con il già affermato insaccato italiano, conosciuto in inglese come “salami”.
Helzel
Ingredienti
la pelle del collo di un’oca
2-3 grosse cipolle dorate
1 piccola cipolla dorata
1 spicchio d’aglio
1 piccola carota
360 g di farina (sostituibile in parte con pangrattato, semola, farina di matza, purè di patate)
2-4 cucchiai di schmaltz
paparica
zenzero in polvere
noce moscata
olio extravergine d’oliva
sale
pepe
Sbucciare l’aglio e schiacciarlo, sbucciare tutte le cipolle, poi affettare le più grosse e tritare quella piccola; spuntare, raschiare e grattugiare la carota. Annodare o cucire con filo bianco di cotone l’estremità più stretta del collo di oca.
Distribuire le cipolle affettate in una teglia poco profonda. Mescolare in una ciotola la farina con lo schmaltz, la cipolla tritata, l’aglio, la carota, un cucchiaino raso di paprica e uno di zenzero, sale, pepe e una grattugiata di noce moscata.
Farcire il collo con il composto, senza stringere e riempiendolo per circa tre quarti. Cucire o annodare quindi l’estremità aperta. Immergere il collo in una pentola contenente acqua bollente e lasciarlo riposare per 10 minuti.
Scolare l’helzel e trasferirlo nella teglia sul letto di cipolle, poi cuocerlo in forno già caldo a 165 °C per circa 1 ora e mezza, bagnandolo con il suo stesso fondo di cottura. In alternativa, cuocerlo in padella con la stessa carne di oca, con un arrosto o per una notte in uno cholent.
Sfoglie al pastrami
Ingredienti
2 rotoli di pasta sfoglia fresca rettangolare
250 g di pastrami a fette
160 g di crauti scolati
120 g di maionese
3 cucchiai di ketchup
salsa Worcester
salsa piccante
senape piccante
1 uovo
semi di cumino
Mescolare la maionese in una piccola ciotola con il ketchup, un goccio di salsa Worcester e uno di salsa piccante. Aggiungere un poco di senape a piacere e amalgamare bene il tutto
Srotolare le sfoglie e tagliarle su ciascun lato lungo a strisce della larghezza di un paio di centimetri e lunghe un terzo del lato corto, lasciandole attaccate al centro.
Stendete uno strato sottile del composto preparato sulla parte centrale rimasta intera. Completare quindi con le fette di pastrami e aggiungere sopra i crauti. Piegare le strisce verso l’alto e incrociarle sul ripieno, formando una specie di treccia.
Spennellare la superficie delle trecce con l’uovo sbattuto con poca acqua. Spolverizzarle con i semi di cumino e cuocerle in forno già caldo a 180 °C per circa 30 minuti, fino a quando la superficie sarà dorata. Sfornare e servire le sfoglie calde o tiepide.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.