Un viaggio tra farine, frittelle, patate, latticini e dolci tondeggianti per celebrare la festa delle luci
Che Hanukkah sia la festa della luce non si discute. Cade a cavallo del solstizio d’inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi. Poi, certo, quello che più si nota in questi giorni è esattamente il contrario, ovvero che le notti sono più lunghe che mai. E che c’è vieppiù bisogno di accendere una luce per rischiarare il buio.
Era andata così anche ai tempi della ridedicazione del Tempio di Gerusalemme, quando si disperava di riuscire a tenere accesi i lumi dell’altare. E invece, miracolosamente, l’olio di un solo giorno era riuscito ad ardere per otto notti. L’olio d’oliva, che proprio intorno al 25 di kislev era protagonista della fine del raccolto, sarebbe così diventato l’elemento imprescindibile per tutti i cibi preparati per ricordarne il miracolo. Poi, va anche detto che di cibi tradizionali di Hanukkah fino al XIV secolo non se ne parlava proprio, così come la stessa festa era ritenuta una ricorrenza minore. Quando però si iniziò a occuparsi, e pure con un certo trasporto, di alimenti, quelli fritti furono subito scelti come i più adatti all’occasione.
Ci sarebbero poi stati anche i latticini, per una errata interpretazione e collocazione storica della vicenda tra Giuditta e Oloferne, quando la donna salvò Gerusalemme dal nemico proprio offrendogli del formaggio tanto salato da farlo bere fino a ubriacarlo e quindi decapitarlo. Vicenda senz’altro affascinante, ma che distrae da quelli che sono i cibi più simbolici del momento: le frittelle. Anche a base di formaggio, certo, ma non necessariamente. Come ricorda Gill Marks nell’Encyclopedia of Jewish Food, tutto il mondo ebraico sembra onorare questa tradizione. Se in America e Israele Hanukkah è tutt’uno con i sufganiyot, gli irresistibili krapfen farciti di marmellata rossa ormai diventati il dolce simbolo degli ashkenaziti, dal canto loro sefarditi e mizrachim preparano quantità industriali di bimuelos e lokmas per festeggiare la ricorrenza.
In Marocco e in Egitto così come in Iran e un po’ in tutto il Medio Oriente vanno forti ad esempio gli zalabieh (o zalabia, zangula… i nomi sono tantissimi). Si tratta di preparazioni dalla composizione semplice anche se passibile di piccole varianti sia negli ingredienti della pastella sia nella guarnizione. Quello che resta identico, però, è il metodo di cottura. Per friggerli ci vuole infatti una certa dimestichezza con pentole e fornelli, visto che si deve fare scendere un sottile filo di pastella da un imbuto, un sacchetto forato o una tasca da pasticciere direttamente nell’olio bollente. Come se non bastasse, si deve formare con la pastella una forma circolare in modo che il dolce assuma la forma di una spirale. Che sarà poi spolverizzata con zucchero e cannella o ricoperta di miele o sciroppo. Per quanto apparentemente complesso, si tratta comunque di un dolce tipicamente casalingo, a differenza dei sufganiyot, fattibili anche in casa, certo, ma di sicuro più comodi da acquistare già pronti dal fornaio…
Legato alla cucina casalinga è un altro dei piatti tipici del momento. Anche lui fritto, anche se in questo caso non dolce. Parliamo ovviamente dei latkes, le frittelle di patate immancabili sulla tavola di Hanukkah, perlomeno quella ashkenazita. Sembra comunque che loro origini siano italiane, per quanto alla lontana. Sarebbero stati infatti gli ebrei della Penisola a portare nel XIV secolo al nord l’uso di cuocere nell’olio quelli che ai tempi erano più simili a dei pancake che a delle frittelle. Alla fine del XV secolo l’emigrazione forzata in Italia delle comunità ebraiche del sud al nord vi diffuse anche l’abitudine di inserire la ricotta nei pancake. L’abbinata tra formaggio e frittura sembrò subito perfetta per celebrare Hanukkah, ma non sempre, almeno al nord e nell’Europa orientale, era possibile sfruttarla rispettando la kasherut. Finché c’era olio vegetale o burro a disposizione, infatti, tutto andava a meraviglia, ma spesso l’unico grasso a disposizione era lo schmaltz, decisamente fuori luogo con un latticino. I latkes (o levivot, in ebraico) furono così per lungo tempo a base di farina, di segale o di grano saraceno, oppure di ortaggi e radici grattugiate. Poi, però, arrivarono le patate…
Le protagoniste dei latkes più diffusi ci hanno messi un po’ per farsi accettare. Portate dagli spagnoli dalle Americhe, erano considerate velenose (e di certo le loro foglie tanto bene non facevano…) e solo la fame causata dalle carestie avrebbe spinto i più ardimentosi a testarle sugli umani. Dopo avere convinto i francesi alla fine del Settecento, i provvidenziali tuberi hanno poi conquistato anche i tedeschi, che non ci hanno messo molto a ideare un’infinità di preparazioni a base di patate grattugiate, bollite, ridotte in farina o fritte. Gli ebrei tedeschi non furono da meno e cominciarono a preparare frittelline a base farina di patate o con le patate grattugiate. Queste inizialmente non erano destinate a Hanukkah, ma essendo fritte nel grasso di oca finivano con l’accompagnare quella che ai tempi era la carne tipica di questa festa, diventandone poi una delle pietanze protagoniste.
Tra gli altri piatti a base di patate che si affermarono nel periodo e furono poi adottati anche dalle comunità orientali troviamo il kugel. ll nome indica genericamente un budino al forno o a vapore che può essere sia salato sia dolce, e per quanto le patate si ritrovino in diverse sue versioni, quello che è considerato uno dei piatti simbolo della cucina ashkenazita nasce ben prima dell’arrivo di questi ortaggi. Elementi imprescindibili della ricetta originale erano invece gli amidi, le uova e i grassi, senza latte né alcun altro liquido. In principio non si trattava neppure di un tortino o di uno sformato, ma di una sorta di gnocco che veniva cotto nello stufato di Shabbat. Poi, si sarebbe evoluto in un budino cotto in un recipiente posto sopra il pentolone con la zuppa in ebollizione. Col tempo la farina della ricetta iniziale sarebbe stata sostituita con la pasta, il riso, il mais e infine le patate. Per aromatizzare i kugel si usavano diverse spezie e presto si cominciò ad aggiungere anche della frutta secca, uvetta in particolare, trasformandoli a poco a poco anche in ricette dolci.
La frutta secca e le spezie sono uno degli ingredienti onnipresenti nella cucina ebraica, del nord come del sud. Restando in ambito ashkenazita, uno dei dolci in cui uvetta e cannella sono protagoniste sono i rugelach. Nati nell’Europa centrale come elaborazione pareve dei kipfel, sarebbero diventati verso la metà del Novecento uno dei dolci distintivi degli ebrei statunitensi, apprezzati tutto l’anno e immancabili nei festeggiamenti per Hanukkah. Il loro nome potrebbe derivare dal termine yiddish rog, che significa angolo, o dallo stesso vocabolo slavo che indica un corno, con il diminutivo plurale lakh, ma potrebbero anche essere la contrazione yiddish dell’espressione che indica una “cosa arrotolata”. Anche la loro composizione sarebbe cambiata nel tempo acquisendo tra gli ingredienti dell’impasto la panna e quindi il formaggio cremoso, che garantiva loro una morbidezza ineguagliabile.
Sarebbe rimasto pareve, privo quindi di burro, panna, formaggio e altri latticini nell’impasto e nel ripieno un altro dolce che dall’Europa orientale ha conquistato nel secolo scorso l’America ebraica. Parliamo del babka, che con i rugelach condivide la composizione arrotolata e il ripieno spesso a base di frutta secca e spezie, ma non le dimensioni. Preparato un tempo in Polonia e in Ucraina in due versioni, modellato in uno stampo o disposto sulla placca del forno, questo ricco dolce di pasta lievitata nella versione tipicamente ebraica ha le sembianze di una lunga pagnotta composta da un impasto spalmato con il ripieno e avvolto su se stesso. Le sue origini risalirebbero all’inizio dell’Ottocento, quando in Polonia le casalinghe ebree tenevano da parte un poco dell’impasto della challah all’uovo e lo cospargevano di confettura o di cannella, magari aggiungendoci qualche uvetta, lo arrotolavano e lo cuocevano insieme al pane del sabato. A differenza di questo, preparato generalmente senza latticini per poter essere consumato anche in un pasto a base di carne, il babka non ebraico conteneva invece il burro nell’impasto e veniva cotto in uno stampo alto dai bordi scanalati, simile a un turbante. La sua forma alta e la consistenza spugnosa avvicinavano questa versione al kugelhopf alsaziano.
L’origine di questa alta ciambellona è la stessa dei principali dolci lievitati di tutta Europa e andrebbe ricercata tra i cuochi italiani del Rinascimento. Questi avevano iniziato a preparare impasti leggeri con non troppo zucchero per non ostacolare l’azione del lievito, ma ricchi in compenso di frutta secca per addolcirli e di grassi e uova per renderli morbidi. Se restando in Italia avrebbero dato origine, tra gli altri, al panettone, in Francia alla brioche e più a est al babka, nella regione teutonica che va dall’Austria all’Alsazia avrebbero portato alla nascita del kugelhopf. Presto diventato una specialità dei fornai ebrei e con loro di tutta la comunità ebraica, questo dolce veniva inizialmente cotto in piccoli stampi rotondi di terracotta come il tedesco kugeltopf (dove veniva tra l’altro preparato anche il kugel). Dopo aver dato il nome alla torta, lo stampo dovette subire una variazione, dato che il centro del dolce tendeva a restare un po’ crudo. Si passò così a uno stampo in terracotta smaltata a forma di scodella con un tubo centrale. Questo stampo sarebbe poi stato dotato di smerlature per esporre una maggior quantità di impasto al calore e a metà Ottocento fu infine realizzato in metallo. Per gli ebrei alsaziani, che non avevano la ricca challah dell’Europa orientale, il kugelhopf diventò la torta preferita, tanto da non poter neppure concepire uno Shabbat o un Hanukkah che non lo avesse in menu. Questa però sarebbe solo una delle evoluzioni subite da un dolce le cui origini, prima ancora che in Italia, andrebbero ricercate nella Penisola Iberica…
È in Spagna e Portogallo infatti che troviamo la bola iberica o il bolo, cioè palla, termine con il quale venivano indicati in genere tutti i dolci e i dolcetti di forma tondeggiante. Gli esuli sefarditi, soprattutto portoghesi, avrebbero portato i loro dolci tradizionali nel resto d’Europa, Italia compresa, dove le loro torte tondeggianti si sarebbero trasformate nel bollo, dolce all’anice diffuso in Toscana e in Veneto, così come, si pensa, nello stesso panettone, che condivide con la torta sefardita l’ampio impiego di uvetta e di canditi. Prima però che i forni fossero ampiamente utilizzati anche nelle case private, c’era un altro modo, più semplice, per cuocere le bolas senza fare ricorso al forno pubblico. E questo era ovviamente la frittura. Gli impasti venivano cotti allora come ora in abbondante olio caldo dove raggiungevano velocemente una deliziosa doratura esterna mantenendosi morbidi all’interno grazie alla presenza delle uova. Tra le loro infinite varianti possibili emergono dei dolcetti tradizionali sefarditi al formaggio, i bolos de queso. Perfetti alla fine di un pasto pareve, saranno ottimi anche per Hanukkah, rispettando la buona regola di servire per l’occasione pietanze a base di latticini fritte nell’olio.
Zalabieh
Ingredienti:
500 g di farina
5 g di lievito secco
zucchero
curcuma
zafferano in pistilli
olio di semi di arachidi
sale
Per lo sciroppo:
240 g di zucchero
40 ml di acqua di rose
1 bustina di zafferano in polvere
Sciogliere il lievito con un cucchiaino di zucchero in mezzo bicchiere di acqua tiepida. Mescolare la farina in una larga ciotola con la punta di un cucchiaio di curcuma, qualche pistillo di zafferano e una presa di sale, poi unirvi il lievito e, a poco a poco, altri 300 ml circa di acqua. Mescolare per sciogliere gli eventuali grumi e ottenere una pastella simile a quella dei pancake. Coprire e lasciare riposare per circa un’ora fino a quando il composto sarà gonfio e arioso.
Scaldare abbondante olio in una padella a sponde alte. Versare la pastella in una tasca da pasticciere con la bocchetta liscia e stretta e farla quindi scendere direttamente nell’olio muovendo la sacca in modo da creare delle spirali.
Friggere le frittelle su entrambi i lati per circa 2 minuti, poi prelevarle e adagiarle su un piatto ricoperto con carta da cucina. Preparare nel frattempo lo sciroppo riunendo tutti gli ingredienti indicati in una casseruola con 200 ml di acqua.
Portare a ebollizione, poi abbassare la fiamma e cuocere per 20 minuti fino a quando il liquido si sarà addensato leggermente. Tuffarvi quindi gli zalabieh, scolarli velocemente e lasciarli sgocciolare e asciugare su una gratella prima di servirli.
Bolos de queso
Ingredenti:
300 g di farina
½ cucchiaino di cannella in polvere
lievito in polvere
480 g di caprino o altro formaggio fresco delicato
4 uova
3 cucchiai di zucchero
1 cucchiaio di burro
brandy
1 limone non trattato
olio di semi di arachide
zucchero a velo
sale
Setacciare la farina con la cannella, una presa di sale e una di lievito. A parte, mescolare il formaggio in una larga ciotola con le uova, lo zucchero, il burro fuso e raffreddato, un goccio di brandy e la scorza grattugiata del limone.
Aggiungere la farina al composto al formaggio e mescolare con cura. Scaldare abbondante olio in una larga padella a sponde alte, poi farvi cadere l’impasto a cucchiaiate e cuocerle rigirandole per circa 2 minuti, fino a quando saranno ben dorate su tutti i lati.
Scolare i bolos su carta da cucina, poi spolverizzarli a piacere con zucchero a velo o passarli in uno sciroppo di zucchero o di miele aromatizzato con acqua di rose o succo di limone.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.