Nove storie che l’autore di Tel Aviv presenta per la prima volta al pubblico in un’inedita formula che unisce scrittura, oggetti e installazioni d’arte
C’è un racconto che potrebbe sembrare una fiaba, nella mostra Inside Out in corso al Museo Ebraico di Berlino fino al 5 febbraio 2023. Si intitola Cabbage Fields ed è parte della serie di nove storie che l’autore di Tel Aviv, Etgar Keret, presenta per la prima volta al pubblico in una inedita formula che unisce scrittura, oggetti e installazioni d’arte.
Il racconto citato riguarda come tutti gli altri la madre dello scrittore, nata in Polonia nel 1934 e testimone da bambina delle atrocità della guerra e del nazismo. Vi si racconta di come la nonna di Keret avesse abbandonato con il resto degli abitanti Mszczonów, il villaggio fuori Varsavia in cui viveva, per sfuggire ai tedeschi. Sola con due bambini piccoli, la donna non era riuscita a tenere il passo del resto del gruppo e si era rifugiata con la figlia e il fratellino piangente in un campo di cavoli. Per fare tacere il piccino aveva iniziato ad allattarlo, ma un tedesco li aveva comunque scoperti e raggiunti. Nei ricordi della mamma bambina quell’uomo era rimasto come paralizzato dalla visione della donna col bimbo al seno in mezzo ai cavoli e non aveva mosso un dito contro di loro. Come premesso dall’autore, questo è l’unico racconto di guerra che lui abbia mai voluto farsi raccontare più volte dalla madre. Gli altri, li aveva sentiti una sola volta. E non erano altrettanto a lieto fine.
Il resto dell’esposizione parla comunque (anche) di guerra, ma sempre seguendo la logica della donna. Come spiega lo stesso Keret nell’omonimo testo introduttivo, il titolo Inside Out fa riferimento al fatto che quando si è bambini siamo noi al centro del mondo ed esiste solo quello che è importante per noi. Avendo vissuto la guerra da piccola, e avendo perduto tutta la famiglia, la mamma di Keret non aveva avuto nessun adulto che mediasse tra i suoi ricordi e la realtà. Così, pur rispettando il passo dell’Esodo che impone a ogni ebreo di parlare ai propri figli dei loro antenati, le sue storie di famiglia e di vita sono sempre state senza nomi né date.
Onorando lo stile materno, Keret racconta così sia la vita della madre durante la guerra sia quella successiva in Israele usando un linguaggio fatto più di immagini che di spiegazioni e di dati. Ai ricordi atroci di una bambina che vede trucidare la mamma e il fratellino si alternano quelli teneri e delicati della donna che sarebbe poi diventata. La si vede così regina del piccolo negozio dove lavora tenendo il figlio piccolo sul bancone, o appassionata di musica, compresa quella composta da Richard Wagner, ai tempi praticamente proibito in Israele in quanto antisemita e amato dai nazisti (“Ma loro amavano anche lo strudel di mele… quindi dovrei smettere di mangiare mele?”). Intelligente, ironica e poliglotta, in un racconto la donna si finge segretaria del figlio parlando in inglese, tedesco e polacco con un uomo che lo cerca al telefono per chiedergli di intervenire a un evento a Francoforte. E che farà poi i complimenti all’autore più per la sua brillante assistente che per il suo lavoro… Certo molto meno lievi sono i ricordi dell’occupazione tedesca della Polonia. Come quello in cui la mamma bambina accompagna il padre alla ricerca del pane fuori dal ghetto. Sono senza la stella gialla, ma un loro ex vicino di casa non ebreo li riconosce e li denuncia a gran voce alla folla inferocita. La soluzione che troverà il padre per salvare se stesso e la figlioletta che tiene per mano lascia senza parole.
Dolcissimi infine sono gli insegnamenti sulla vita, il mondo e l’amore che la donna offre al figlio, sia quando questi le chiede come mai lei così tenera, fisica ed espansiva lo accarezzi però sempre solo con il dorso della mano (e qui il ricordo va agli anni difficili dell’orfanotrofio, quando nel palmo la bambina nascondeva sempre una lametta), sia quando il piccolo si lamenta perché al ristorante non hanno potuto servirgli le patatine fritte e sostiene che l’intera giornata sia un fallimento (“Ventisei persone con coltelli in mano, eppure nessuno di loro sta accoltellando qualcun altro (…) converrai che questa è davvero una bella giornata”).
Scritti da Keret in ebraico e da lui tradotti in inglese, i racconti sono disponibili anche sul sito del Museo e possono essere sia letti sia ascoltati anche in tedesco. L’interpretazione nelle prime due lingue è sempre a cura dell’autore, mentre la versione in tedesco è stata affidata a Daniel Kehlmann, amico dello scrittore.
Abbinati ai racconti si potranno vedere sia oggetti delle collezioni del Museo sia le opere commissionate per la mostra a diversi artisti contemporanei che hanno interpretato le parole dell’autore, attore e regista israeliano attraverso collage, filmati, musiche e installazioni video. Accanto a queste, c’è infine un distributore di gomme da masticare, riempito con le storie semisconosciute di Etgar Keret. Che spiega così la scelta: “È difficile raccontare la storia della persona a cui si è stati più vicini di chiunque altro al mondo, e per quanto ci si sforzi, la maggior parte delle volte non funziona. Ecco le storie che non ce l’hanno fatta”.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.