Le ragioni storiche della protesta attuale
Ancora una volta torniamo sull’Iran. Lo facciamo non perché vogliamo distogliere l’attenzione da altri soggetti o target. Semmai, guardiamo con costante apprensione a ciò che ci circonda. Ovunque. Non esistono gerarchie di dolore né, quindi, priorità che non siano quelle che ci riconducono alla necessità di raccogliere il grido di dolore e di libertà, nonché di giustizia, che troppo spesso è stato soffocato. Oggi, l’Iran in rivolta, l’Iran represso, l’Iran dove una teocrazia oligarchica e, al medesimo tempo, tecnocratica (ossia, incline a legare “tradizione” a trasformazione, beneficiando dell’essere cane da guardia della prima e vettore a proprio beneficio della seconda), è infatti specchio di una più generale condizione di afflizione che percorre non solo le terre musulmane ma anche, per alcuni aspetti, le nostre stesse società. Con l’aggravante, nel caso iraniano, di una ferocia dei poteri che da noi, invece, è per nostra stessa fortuna sconosciuta.
Intendiamoci quindi da subito: nessuna analogia né, tanto meno, omologia tra situazioni diverse. Non tutto il mondo “è paese”: se una democrazia funziona male, questo non giustifica l’esistenza una dittatura clericale. Pertanto nessuna compensazione benealtrista. Semmai, l’intensità e la pervasività della risposta repressiva continua a fare, molto spesso, la differenza tra una società aperta – ossia disponibile comunque ad accogliere un pluralismo di identità, posizioni e condotte senza per ciò ricorrere alla soppressione fisica di chi lo esprime – e l’élite autoreferenziata di una collettività invece chiusa in se stessa, destinata a ripetere sempre gli stessi rituali, quelli che comportano la disemancipazione delle persone che la compongono. Ridotte, come tali, a dei burattini. Poiché è esattamente a quest’ultima condizione che le nuove generazioni iraniane si stanno ribellando. Non tanto, o solo, a un potere religioso (e ad uno laico, che coabita dal 1978-79 con quest’ultimo), quanto ad uno status quo che, per riprodursi, necessita della subalternità di tutta la comunità nazionale.
Sono passati più di quarant’anni dalla «rivoluzione islamica» del 1978-79, quando una ierocrazia fu portata al governo da un’alleanza di forze tra di loro molto eterogenee e composite (i commercianti dei mille mercati; i militanti del partito comunista del Tudeh, allora il più forte del Medio Oriente; i giovani delle università secolarizzate e laiche; il proletariato urbano e rurale, diffusissimo in tutto il paese; il clero, che veniva visto come un soggetto di innovazione e non di regressione e così via) si ribellò al potere della famiglia Pahlavi, ai suoi sgherri, al suo modernismo senza prospettiva, alla sua morsa repressiva. Quest’ultima, peraltro, recuperando il mito di una «Persia» millenaria, arbitro del Medio Oriente, era surrettiziamente assisa al potere dal 1925, deponendo l’ultimo sovrano della dinastia Qajar. Nei fatti un gioco di potere tuttavia presentato come un gigantesco passo nella storia umana.
La mobilitazione di più di quarant’anni fa sembrava essere un moto di liberazione mentre racchiudeva già in sé, come spesso accade alla “rivoluzioni” che da utopia si fanno distopia, le premesse medesime della sua quasi immediata involuzione. Bisogna conoscere quali siano i dispositivi totalitari per comprendere la natura reazionaria di certi processi storico-sociali, altrimenti camuffati da innovazione e “liberazione”. Nel caso dell’Iran, il transito che si consumava al tempo era quello tra un potere cieco, espresso da una famiglia e dai suoi tanti affiliati, che per guardare ad Occidente non osservava – volutamente – quanto stava avvenendo a casa sua. Semmai calpestando, per preciso calcolo d’interessi propri, tutte le domande che arrivavano da una società non solo in evoluzione bensì in ebollizione. Anche da ciò, quindi, la caduta di quei tanti “piccoli dei” (amministrazione, polizia, forze armate, intellettualità), in sé assai effimeri, che erano tuttavia parte nella perpetuazione del dispotismo dei Pahlavi. Non è un caso se al tempo risultassero quindi essere decisivi, per il cambio di regime, non solo il crollo della loro legittimazione tra le classi borghesi (ossatura del consenso politico) ma anche nell’esercito (spina dorsale del potere amministrativo). Il passaggio di fronte delle une e dell’altro fu quindi decisivo per i destini dell’Iran.
La “rivoluzione”, come spesso accade, ha poi mangiato i suoi figli. I giovani di quel tempo, che erano stati in prima linea contro la cristallizzazione di poteri oppressivi e etero-diretti, furono ben presto mandati a combattere contro l’Iraq, nella lunghissima e dissanguante guerra dello Shatt Al-Arab, tra il 1980 e il 1988. Si creò, allora, come già stava avvenendo nelle strade di Teheran e dei grandi centri urbani del Paese, la generazione degli «elmetti», quella gioventù che dalla secolarizzazione stava invece transitando verso l’islamizzazione radicale. Molti di loro perirono, altri sopravvissero, perlopiù producendo poi un ceto politico, oltre che militante, che a tutt’oggi supporta i «turbanti», ovvero la ferrea linea di potere religioso degli ayatollah e dei loro serventi. I comunisti, tanto illusi quanto anacronistici, passarono un intero decennio, ovvero gli anni Ottanta, a subire le persecuzioni di regime dei «barbuti» e, quindi, ad essere materialmente sterminati. Un’opera che ha il suo pari solo con la distruzione fisica del Partito comunista indonesiano, avvenuta una quindicina di anni prima. Chi visse dall’esterno quelle vicende, ricorda ancora oggi come gli espatriati affollassero le piazze e le vie delle nostre città, in Europa e quindi in Italia, esibendo le terribili immagini degli impiccati (uno dei diversi modi in cui la «rivoluzione islamica» regolava i conti al suo interno, avendo innescato una vera e propria azione di ripulitura politica, che implicava la distruzione fisica di ogni forma di opposizione organizzata). Si usavano, allora e anche oggi, le gru mobili, per esibire il cadavere, a titolo di monito collettivo. Nel nostro Paese, una tale manifestazione è stata fatta solo dal neofascismo repubblicano contro i suoi nemici, tra il 1943 e il 1945, finendo quindi con l’esposizione dei corpi di Mussolini e dei suoi gerarchi a Piazzale Loreto. Quanto a quella borghesia desiderosa di libertà ma a sua volta non meno fragile, rappresentata da Abol Hassan Banisadr (qualcuno se lo ricorda ancora?), primo presidente della Repubblica islamica per poco più di un anno, tra il 1980 e il 1981, e poi deposto da Khomeini, due anni dopo la «rivoluzione islamica», i conti erano già stati fatti una volta per sempre. L’esilio impotente, la testimonianza dolente a distanza, fu l’unica via possibile.
Al pari di altre eversioni delle classi dirigenti in età contemporanea (il fascismo è tra di esse una sorta di modello universale, che va ben oltre i limiti delle società in cui si è storicamente manifestato), anche questa si è puntellata e sostenuta, nel corso del tempo, grazie alla manipolabile partecipazione popolare. Le molte milizie che si sono affiancate all’esercito rivoltoso – quindi i pasdaran, i basij, le forze Quds o «forze di Gerusalemme» – costituiscono a tutt’oggi la colonna vertebrale del regime. Non solo quella armata. Come tali, ovvero in quanto paramilitari squadristi, non svolgono esclusivamente i tristi compiti della repressione criminale ma anche quelli, non meno strategici, di reclutamento e fidelizzazione, soprattutto nelle campagne, di un proletariato e di un sottoproletariato altrimenti senza prospettiva alcuna. Fare parte di una qualche associazione islamista, ovviamente solo se ben vista dal regime, implica l’essere destinatari delle elargizioni di prassi, una sorta di welfare la cui funzione è di redistribuire ai sodali una parte dei proventi dell’economia petrolifera ed energetica nazionale, perlopiù saldamente in mano al clero.
L’Iran è uno dei paesi più giovani al mondo. Potenzialmente, potrebbe costituire un soggetto di innovazione nel Medio Oriente, quest’ultima una mesoregione il cui destino di marginalità (dettato non solo dalla feroce determinazione dei mercati mondiali ma anche dalla persistenza di petrololigarchie, alla guida di società deboli poiché subalterne al volere di gruppi clanici di potere) è altrimenti destinato a ripetersi. I tanti “rivoltosi” che affollano le piazze e le strade iraniane sono non solo i protagonisti di una ribellione – l’ennesima nel complesso e variegato mondo musulmano – senza un plausibile sbocco. Sono semmai l’espressione di una volontà storica che, forse, potrà ancora essere fermata dalla violenza di regime ma che, tuttavia, è destinata a sommergere, come un’onda in piena, le icone di un potere che si finge “sacro” quando invece preserva solo i simulacri di falsi idoli. Quelli di un’intoccabile religiosità che è invece la cifra di una menzogna totale, dietro la quale il potere dei pochi si nasconde per meglio corrompere e disintegrare i diritti dei più.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.