Un viaggio tra bevande e invenzioni geniali
Quello tra l’alcol e gli ebrei è sempre stato un rapporto di odio e amore. E già il fatto che in molti testi il suo consumo sia accettato solo in occasioni sacre la dice lunga. Si beva per benedire, insomma, e non certo per ubriacarsi. Poi, certo, anche questa regola ha le sue brave eccezioni, come quando a Purim il consumo di alcol fino a non distinguere più i buoni dai cattivi è non solo consentito ma anzi caldeggiato. Ci sono i quattro (e non più di quattro) bicchieri consentiti in occasione del Seder di Pesach e quelli che si possono sorseggiare in occasione di matrimoni e circoncisioni. Ma si tratta comunque di casi, appunto, eccezionali. Nonostante questo, la storia del popolo ebraico è segnata, se non proprio dal consumo di alcolici, sicuramente dalla loro produzione e commercializzazione. E secondo gli storici sarebbe stata proprio la loro morigeratezza nel bere ad avere rassicurato nei secoli passati le classi al potere in Polonia e Russia. Che avrebbero (anche) per questo concesso di gestire gran parte dei locali di mescita di alcolici. Poi, ovviamente, questa non era l’unica ragione. L’altra, che storicamente ha segnato gran parte delle attività professionali degli ebrei dal Medio Evo in poi, era il fatto che non potendo entrare nelle corporazioni, avevano trovato in quella dell’oste e del venditore di liquori un possibile impiego.
Passando a quali fossero questi liquori non si ritrovano produzioni tipicamente ebraiche, ma tra i cosiddetti schnapps, termine yiddish con il quale si indicano generalmente gli alcolici più forti, ne troviamo alcuni che sono stati accolti con particolare favore dalle comunità soprattutto dell’Europa Orientale. Accanto ai più blasonati whisky e alla loro umile versione russa, la vodka, emerge un distillato legato tradizionalmente alla produzione casalinga. Parliamo dello Slivovitz, un distillato di prugne (il nome deriva dalla parola slava sliv che indica la prugna selvatica) dall’alta gradazione e dal gusto piuttosto intenso, dovuto alla presenza non solo della polpa dei frutti ma anche dei loro noccioli in fase di fermentazione. Già ampiamente diffuso nei territori della attuale Repubblica Ceca nonché in Bulgaria, dove veniva prodotto nei monasteri, lo Slivovitz avrebbe conquistato gli ebrei grazie al fatto di poter essere prodotto anche in casa (caratteristica che ha finito per donargli il titolo di liquore un po’ sempliciotto), ma soprattutto di poter essere realizzato anche senza l’impiego di cereali. Tale caratteristica lo avrebbe reso perfetto per Pesach, spesso compensando l’eventuale l’assenza di vino kosher.
La relazione tra gli ebrei e il vino è un argomento sterminato ben difficile da affrontare in poche righe. Infatti, da Noè in poi, di riferimenti all’uva e al suo principale derivato la cultura ebraica trabocca. Le stesse caratteristiche che un vino deve avere per poter essere kosher non sono semplicissime. Ci si limiterà a ricordare che la sua produzione deve essere supervisionata da un rabbino e che il liquido potrà essere maneggiato solo da un ebreo osservante fino al momento della mescita. Secondo gli storici, alla base di tale proibizione ci sarebbe stato il timore che, essendo il vino utilizzato nel mondo antico per i riti pagani, questo risultasse impuro per le celebrazioni sacre. Altra ragione sarebbe stata l’esigenza di limitare il l’assimilazione tra le comunità ebraiche con il mondo cristiano. A partire dal Kiddush, però, il vino è sempre stato una presenza fondamentale non solo al Tempio, ma anche in ambito familiare. Non potendosi quindi affidare a produttori gentili, l’unico modo per averlo sempre a disposizione era specializzarsi nella sua produzione. È anche per questo motivo che nell’Europa Occidentale fin dal primo Medio Evo la viticoltura, così come la produzione e il commercio di vino, è stata appannaggio degli ebrei. Per quanto riguarda il mondo arabo, invece, l’interdizione al bere per gli islamici ha fatto sì che anche qui gli ebrei guadagnassero un posto d’onore nella vitivinicoltura.
Su come fossero gli antenati delle attuali etichette si possono ovviamente solo fare delle congetture, ma sembra che due fossero le caratteristiche dei vini antichi e medievali: la dolcezza e l’alto tasso alcolico. Si pensa che la propensione per le bevande zuccherine fosse legata al fatto che nelle occasioni di festa anche ai bambini fosse concesso un piccolo assaggio oltre al fatto che, essendo spesso prodotto in casa, si trattasse di un vino ottenuto dalla macerazione dell’uva essiccata. In pratica, un passito. I vini antichi erano poi anche piuttosto forti. Tanto da essere non solo dolcificati con miele e aromatizzati con spezie, ma consumati con l’aggiunta di un terzo di acqua. Tale pratica sarebbe continuata e si sarebbe poi evoluta con l’arrivo delle prime acque gassate.
Come nel caso dei liquori, non sono stati gli ebrei a inventare il seltz, ma ne sono poi diventati tra i massimi produttori e consumatori. L’origine risalirebbe al XVI secolo, quando nella città tedesca di Niederselters, vicino a Francoforte, si cominciò a produrre un tonico gassato naturale chiamato Selters Wasser che si riteneva avesse effetti curativi. Il nome si sarebbe poi trasformato in zeltzer e seltzer vasser in yiddish diventando poi semplicemente seltzer (e quindi seltz) proprio per l’importanza degli ebrei nel loro commercio. Il suo primo grande sviluppo sarebbe avvenuto dal 1767, anno in cui Joseph Priestly inventò un processo per la sua produzione, filtrando l’acqua naturale e aggiungendovi anidride carbonica. Uno sviluppo successivo sarebbe arrivato a metà Ottocento, quando alcuni mercanti inglesi introdussero l’uso del bicarbonato di sodio e dopo che nel 1809 Joseph Hawkins aveva brevettato una macchina per sigillare il selzer nelle bottiglie. Gli ebrei tedeschi e russi non tardarono a entrare nel business dello zeltzer e lo portarono in America all’inizio del Novecento, epoca in cui questa bevanda assolutamente pareve diventò una parte importante della vita ebraica, tanto da essere soprannominata lo champagne ebraico. In seguito questa semplicissima bevanda avrebbe avuto fortune alterne, fino all’avvento, relativamente recente, delle tecniche di gasatura casalinga. Capitanate, guarda un po’, proprio da un’azienda con sede in Israele. E che, come indicato fieramente sulla confezione, impiega “arabi ed ebrei che lavorano fianco a fianco in pace e armonia”.
L’epoca del maggior splendore dello seltzer ha visto in America la nascita di una bevanda a lungo associata con le locali comunità ebraiche. Chiamata ingannevolmente Egg Cream nonostante non contenga né uova né panna, la delizia cioccolatosa protagonista dell’omonimo pezzo del cantante newyorkese Lou Reed del 1995 ha una storia iniziata un secolo prima. Il creatore, questa volta, era stato indiscutibilmente un ebreo, Louis Auser. Nel 1890, questo giovane immigrato aveva inventato nel suo piccolo negozio di dolciumi del Lower East Side quella che sarebbe diventata la bevanda iconica della Grande Mela. Gli ingredienti, semplicissimi, sono gli stessi da allora e comprendono semplicemente latte, seltzer e sciroppo di cioccolato. Il risultato è un beverone dall’aria ormai un po’ retrò e dal gusto ai tempi neppure troppo dolce. Dalla consistenza vellutata e cremosa, era (ed è) sovrastato da una schiumetta soffice che richiama in qualche modo quella della chiara d’uovo montata e dovrebbe a queste caratteristiche il proprio nome.
L’ingrediente classico dell’Egg Crem è ancora oggi lo sciroppo U-Bet Fox, creato a Brooklyn nel 1895 dall’ebreo Herman Fox e da sua sorella Ida. Tuttora prodotto da questo marchio, si lega a quello che, allargando il campo, può essere visto come un altro dei grandi orgogli ebraici: il cioccolato. Anche qui non si parla di invenzione ma di diffusione ebraica, ma il legame tra gli ebrei e il cacao è notoriamente strettissimo. Dalla sua scoperta nelle Americhe all’importazione in Spagna e poi in tutta Europa, la fava di cacao e la sua lavorazione ha sempre riguardato molto da vicino i mercanti e produttori sefarditi. Gli ebrei spagnoli prima e quelli olandesi e francesi poi furono fondamentali nello sviluppo delle tecniche di lavorazione del cacao e nella vendita delle bevande al cioccolato. In particolare, quella che nel XVII secolo sarebbe stata condannata dalla Chiesa come la “bevanda di Satana” si affermò nel ghetto di Saint Esprit, a Bayonne, in Francia, nel luogo che sarebbe poi diventato la patria del cioccolato così come lo conosciamo oggi.
Parte invece dall’Oriente, e in particolare dalla Cina, il viaggio di un’altra bevanda poi diventata di uso planetario e parte integrante della vita quotidiana ebraica. Già diffuso in Asia centrale e in parte del mondo arabo come un simbolo di socialità, il tè arrivò nell’Europa orientale a metà del Settecento, quando i russi iniziarono a esportarlo dalla Cina. Si sarebbe poi affermato nell’Ottocento sia in Russia sia in gran parte dell’Europa Orientale come uno dei maggiori collanti sociali. Divenuto, come ricorda Gill Marks, “l’incarnazione dell’interazione sociale yiddish”, condividere un glezele tey (un piccolo bicchiere di tè) divenne uno stile di vita tra gli ashkenaziti orientali. Riunite intorno a un samovar, le famiglie chiacchieravano e ricevevano gli ospiti, così come gli studiosi rabbinici discutevano questioni di diritto e i socialisti si accapigliavano sulle più scottanti questioni politiche.
Più o meno nello stesso periodo, un’altra bevanda calda si stava affermando presso gli ebrei dell’Europa Centrale. Emerso intorno all’anno Mille nello Yemen, il caffè costituì in principio un buon sostituto dell’alcol proibito presso le popolazioni musulmane. Inizialmente anch’esso condannato dalle autorità islamiche, nel Cinquecento sarebbe stato definitivamente accettato diventando una caratteristica fondamentale dell’accoglienza presso le popolazioni arabe. Pare che la prima caffetteria sia stata fondata a Istanbul intorno al 1550, seguita poi da numerose altre che avrebbero riunito poveri e ricchi, letterati e ignoranti. Tra questi c’erano sia musulmani sia ebrei, ma per quanto i rabbini non fossero contrari al consumo di caffè preparato da non ebrei, preferivano che la bevanda fosse comunque consegnata a domicilio…
Passando in Europa, per oltre un secolo dopo la sua introduzione il caffè rimase appannaggio delle classi altolocate e solo a metà del Seicento, grazie ai mercanti olandesi che iniziarono a coltivarne le piante nelle loro colonie, cominciò a costare di meno e ad allargare il proprio mercato. In seguito, i Francesi e i Portoghesi contribuirono alla sua diffusione a prezzi via via sempre più bassi.
Gli ebrei, esclusi dalle corporazioni e spesso anche dalla proprietà dei terreni agricoli, si trovarono in prima linea nella promozione del caffè. Nei Paesi Bassi, i sefarditi fondarono con greci e armeni i primi caffè in Olanda, così come in Francia furono sempre loro a inaugurare i primi locali insieme ai turchi e agli armeni. Passando all’Inghilterra, la prima caffetteria fu aperta all’Angel Inn di Oxford nel 1650 da un libanese chiamato Jacob the Jew che poi si sarebbe trasferito a Londra per inaugurare altri locali. Pochi anni dopo, nel 1654, un ebreo siriano chiamato Cirques Jobson aprì a Oxford la Queen’s Lane Coffee House, ritenuta la più antica caffetteria esistente al mondo. Dal canto loro, a metà del 1660 gli olandesi introdussero in Germania la moda delle Kaffeehaus, dando il via a una tradizione che sarebbe diventata tutt’uno con la cultura dell’Europa Centrale, capace di riunire le persone delle più diverse provenienze sociali e religiose nell’emulazione degli usi borghesi.
Due ricette
Yellow Plum
60 ml di Slivovitz
1/2 limone
1/2 arancia
10 ml di Maraschino
10 ml di sciroppo di zucchero
ghiaccio in cubetti
Riempire lo shaker con cubetti di ghiaccio, poi spremere l’arancia e il limone in modo da ottenere 20 ml del succo di ciascuno.
Versare i succhi sul ghiaccio e aggiungere i liquori con lo sciroppo. Chiudere lo shaker e agitare con energia per qualche istante.
Versare il cocktail in una coppa filtrandolo per trattenere il ghiaccio e servire guarnendo a piacere con una scorzetta di agrume.
Egg Cream
45 ml di sciroppo di cioccolato
90 ml di latte
175 ml di seltz freddo
Per lo sciroppo di cioccolato:
200 g di cioccolato al latte
160 ml di sciroppo di zucchero
Tritare grossolanamente il cioccolato e scioglierlo mescolando in 160 ml di acqua bollente mescolata con lo sciroppo fino a ottenere un composto liscio. Trasferirlo in un recipiente di vetro a chiusura ermetica, farlo raffreddare e conservarlo poi in frigo.
Versate la quantità di sciroppo indicata in un bicchiere alto, aggiungervi il latte, quindi completare con il seltz. Mescolare con un cucchiaino lungo fino al ottenere il livello di cremosità desiderato.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.