Hebraica Nizozot/Scintille
La Shoah pensata e spiegata nel linguaggio della fede

Accanto agli storici e ai sociologi, nei decenni è fiorito anche un ‘pensiero della Shoah’ che ha fatto ampio uso di immagini e metafore e simboli presi dal linguaggio religioso derivati dalla Bibbia e dal Talmud

La Shoah pensata, e spiegata, nel linguaggio della fede

Quando parliamo della Shoah siamo portati a pensarla e spiegarla come un insieme di eventi storici, ossia come gli atti politici deliberatamente finalizzati alla persecuzione e allo sterminio di milioni di ebrei in Europa, durante la seconda guerra mondiale, per mano dei nazisti e dei loro ‘volenterosi’ collaboratori (fascisti italiani inclusi). Nelle spiegazioni ‘storiche’ sono le azioni umane al centro della nostra attenzione, azioni mosse da catene di cause e concause remote e prossime in cui si intrecciano interessi economici, conflitti sociali, schemi ideologici e, non di rado, passioni e ossessioni personali dei leaders, all’epoca chiamati non autocrati come si usa oggi, ma più direttamente dittatori. Tra le motivazioni che hanno a che fare con l’ideologia, meglio con l’antisemitismo di stampo socio-biologista (pseudo-scientifico), qualcuno ricorda giustamente il retaggio dei lunghi secoli di antigiudaismo cristiano, che dalle invettive dei padri della chiesa nei primi secoli della nostra èra evolse in un’acuta avversione a ebrei e giudaismo via via visti come minaccia della cristianità e nemici d’Iddio, un’avversione di natura teologica che solo dopo la Shoah, appunto, le chiese cristiane hanno ripudiato come erronea, contraria sia alle Scritture sia allo spirito evangelico.

Con tutto ciò, e nella consapevolezza che la Shoah non può essere capita senza una ricostruzione del passato in termini rigorosamente aderenti alla storia, la sua comprensione esistenziale è stata spesso demandata a un’elaborazione metastorica, di livello ulteriore, quasi che le cause materiali, i preconcetti ideologici e le personalità individuali fossero sufficienti, sì, a spiegare il ‘come’ essa sia accaduta, ma non il ‘perché’. Ecco la ragione per cui, accanto agli storici e ai sociologi, nei decenni è fiorito anche un ‘pensiero della Shoah’ che sin dall’inizio ha fatto ampio uso di immagini e metafore e simboli presi dal linguaggio religioso, derivati dalla Bibbia e dal Talmud ma anche dalla tradizionale iconografia cristiana (il che equivale a dire da simboli di una tradizione in conflitto teologico con il mondo ebraico). Chi non ha mai visto la famosa “crocifissione bianca” di Marc Chagall? È un quadro della fine degli anni Trenta che narra la persecuzione contro gli ebrei, culminata nella Shoah dopo decenni di pogroms, incendi di sinagoghe, profanazioni dei rotoli della Torah… e ‘interpretata’ attraverso l’icona centrale della fede cristiana, la crocifissione di Gesù, il cui perizoma – un tallit – lo indica non tanto come ‘ebreo’ ma come simbolo di tutti gli ebrei perseguitati e uccisi.

Chi guarda con attenzione riconosce che si tratta non dell’ennesimo quadro devozionale su un tema cristiano ma di un commento visivo alla tragedia che gli ebrei stavano vivendo in Europa in quegli anni. Potrà sorprendere, ma anche alcuni teologi ebrei – il più noto è il tedesco-inglese Ignaz Maybaum (1897-1976) nel suo volume The Face of God after Auschwitz del 1965 – si spinsero a paragonare Auschwitz al “Golgota dell’umanità moderna” sul quale ebrei innocenti salirono come “agnelli sacrificali” ed espiarono peccati non loro. Quel riferimento al Golgota dei cristiani scandalizzò e venne rifiutato dalla maggior parte degli ebrei sopravvissuti come una blasfemia. Tuttavia fu sempre in ambito religioso che la più parte dei maestri cercarono ‘chiavi di comprensione’ per quegli eventi inauditi e terribili.

Il rabbino Leo Baeck (1873-1956), che sopravvisse al campo di Theresienstadt, paragonò le vittime della Shoah a dei novelli Daniele, gettati nel fuoco come il giovane babilonese, per testimoniare il progetto divino sul mondo

Ma davvero il Signore benedetto aveva bisogno di sei milioni di martiri come Suoi testimoni nel mondo, gli fu risposto da più parti? Chi chiese loro se volessero o meno rendere tale testimonianza al prezzo di quelle sofferenze e di tanta disumanizzazione? Tra chi negò ogni diritto di ricorrere alla teologia, anche ebraica, per spiegare la Shoah vi fu il rabbino accademico Richard Rubenstein (1924-2021), che indicò altre vie per spiegare il male storico-politico, ossia la psicoanalisi e la sociologia, pena il sacralizzare quello stesso male e gettare un dubbio assoluto sulla divinità. Si avviò così un acceso dibattito, nel mondo ebraico anglosassone tra gli anni Sessanta e Settanta, allorché nelle chiese protestanti era in auge la cosiddetta ‘teologia della morte di Dio’.

Ma rabbini e pensatori del giudaismo non avevano bisogno dei teologi cristiani per trovare immagini forti, capaci di cogliere specificità ebraica di quel trauma che fu la Shoah. Un’immagine biblica tra le più usate dai maestri di Israele fu quella dell’hester panim, che significa “il nascondimento del volto (divino)”: la Shoah sarebbe stata un effetto del ritrarsi divino dal mondo, un nascondere appunto il Suo volto benevolo permettendo alle forze del male di agire contro Israele.

Il rabbino modern-orthodox Eliezer Berkovits (1908-1992) diffuse questa chiave di lettura all’inizio degli anni Settanta, specie nel suo libro Faith after the Holocaust del 1973. (Del resto anche il termine ‘olocuasto’, ancora impiegato nel mondo anglosassone, non è forse un prestito biblico, per quanto ambivalente possa essere?). Va detto che, secondo Berkovits, l’hester panim del XX secolo non fu una punizione divina per i peccati di Israele (così tradizionalmente va intesa quell’espressione) ma come un’assentarsi di Dio a tutela della libertà umana, data per compiere tanto il bene quanto il male. In seguito molti hanno ripreso l’espressione del “nascondimento del volto” per parlare della Shoah, ad esempio i rabbini Joseph B. Soloveitchik (1903-1993) e Norman Lamm (1927-2020), all’epoca alla guida della Yeshiva University di New York. Altri invece hanno preferito volgersi alla mistica di Itzchaq Luria, in particolare al mito dello tzimtzum ovvero la “auto-contrazione divina”, che di fatto è un ritrarsi di Dio in Se stesso per far posto a un mondo autonomo e come tale esposto anche al male più efferato.

Una rivisitazione di tale mito, per spiegare la Shoah, è stata compiuta ad esempio dal filosofo Hans Jonas (1903-1993) e poi dal talmudista David Weiss Halivni (1927-2022): per quest’ultimo lo tzimtzum sarebbe un evento cosmico, che si ripete più e più volte nella storia umana, al fine di lasciare libera l’umanità di realizzare il proprio destino, anche a spese di vite innocenti. La tesi che Israele soffra nella storia per i suoi peccati va rigettata con forza, afferma Weiss Halivni, indegna com’è tanto della dignità delle vittime, specie dei bambini ebrei massacrati dai nazisti, quanto dell’onorabilità d’Iddio benedetto. Compito delle generazioni post-Shoah, semmai, è quello di ‘restaurare’ – è il senso del verbo ebraico letaqqen – sia quella dignità, attraverso imperitura memoria delle vittime, sia quell’onorabilità, rinnovando l’alleanza del Sinai nonostante tutto.

Nel corso degli decenni sono emerse importanti testimonianze: molte vittime del nazismo hanno cercato di resistere e sopravvivere in forza della loro fede, avendo a disposizione soltanto il linguaggio religioso per comprendere quel che stavano vivendo. Questo è certamente il caso di molti chassidim e dei loro rebbe, che intuirono, vivendola, la magnitudo di quei tragici eventi, che paragonarono ai chevlè hamashiach, alle ‘doglie del parto con cui viene il messia’ di cui parlano le fonti talmudiche.

Anche qui, può sembrare quasi-blasfemo evocare nella stessa frase Shoah e redenzione messianica, e nessuno sarebbe autorizzato a farlo se non lo avessero fatto loro, le vittime, come ad esempio il rebbe di Piaseczno presso Varsavia Kalonymus Kalman Shapira (1889-1943) del quale negli anni Cinquanta furono ritrovati, sottoterra, i sermoni dati nel ghetto di Varsavia tra il ’40 e il ’42, trascritti in ebraico e pubblicati In Israele con il titolo Esh qodesh o Fuoco santo (recentemente tradotti in italiano da Giuntina). Reb Shapira recupera anche l’immagine talmudica del ‘pianto di Dio’ commentando: “Se il mondo potesse udire il suono di quelle lacrime divine, esploderebbe”. Nei giorni della Shoah, Bibbia e Talmud offrirono alle vittime non solo consolazione e forza ma anche categorie concettuali per far fronte alla prova, per spiegarla, per resistere e tener viva la speranza. Che rabbini, teologi e filosofi del giudaismo abbiamo ripreso, rielaborato e rilanciato quelle immagini e quelle categorie è, a ben vedere, ancor oggi un modo per mantenere acceso il ‘santo fuoco’ di quelle vite e della loro fede.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.