Una proposta di lettura del lungometrggio con Cate Blanchett
Candidato ai principali premi dall’Academy che il prossimo 13 marzo assegnerà le tanto ambite statuette degli Oscar 2023, Tàr di Todd Field è un film del quale si è già parlato abbondantemente. Presentato in anteprima a settembre alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, dove la sua interprete principale, Cate Blanchett, si è aggiudicata la Coppa Volpi come migliore attrice, e uscito negli Stati Uniti in ottobre, sarà finalmente nelle sale italiane da giovedì 9 febbraio, accompagnato da una marea di articoli usciti sulla stampa sia specializzata sia generalista.
Quello che potrebbe però incuriosire è perché la storia di una direttrice d’orchestra fittizia, per quanto magnificamente interpretata dalla inappuntabile Blanchett e sostenuta da una sceneggiatura che non risparmia tensioni, colpi di scena e riflessioni sul talento, il successo e soprattutto il potere che ne consegue, abbia suscitato il particolare interesse della stampa ebraica internazionale. La tesi, sostenuta dal critico Andrea Lapin in un articolo uscito su JTA e quindi ripresa da un certo numero di testate, dallo statunitense Forward al britannico Jewish News passando da Times of Israel, è che per quanto la dispotica direttrice dell’Orchestra Filarmonica di Berlino non sia ebrea, il film sia intriso di temi ebraici. E per convincersene basterebbero i primi dieci minuti di visione.
Nelle prime scene si vede infatti l’acclamata direttrice e compositrice discutere a un evento del New Yorker con lo scrittore (ebreo) Adam Gopnik su una serie di argomenti quali i concetti ebraici di teshuvah e kavanah, insieme alla sua affinità con Leonard Bernstein. Quali siano i legami personali della Tàr con il mondo ebraico non viene detto, ma nel suo esplorare le grandi idee su arte, cultura e società, la donna non trascura anche una riflessione sul ruolo che gli ebrei e l’antisemitismo hanno storicamente svolto in musica.
In particolare, nel dialogo citato Gopnik paragona la direttrice al comico ebreo Mel Brooks, dato che entrambi sono tra i pochi artisti ad avere vinto tutti i premi più ambiti nell’ambito artistico, l’Emmy, il Grammy, l’Oscar e il Tony, ma soprattutto chiama in ballo il mentore di Lydia, il leggendario direttore d’orchestra ebreo Leonard Bernstein. Parlando con Gopnik, Tár dice di avere imparato da Bernstein non solo ad amare la musica classica, ma anche a pensarla in termini ebraici. Ed è in questo frangente che sono tirate in ballo le idee di kavanah, o intenzione, e teshuvah, o ritorno. Entrambi i concetti sono letti in chiave artistica. La kavanah viene usata per riflettere sul rispetto che il direttore d’orchestra deve all’intento del compositore originale della musica, mentre la teshuvah è posta in relazione alla convinzione del direttore di poter “controllare il tempo stesso”, tenendo l’orchestra in uno stato sospeso fino a quando chi lo guida sceglie di proseguire.
Sul perché Lydia scelga di parlare in questi termini ci sono diverse possibili interpretazioni. La più facile, citata dall’autore dell’articolo di JTA, è che in occasione dell’evento del New Yorker la donna si stia rivolgendo a un pubblico composto in buona parte da ebrei. L’altra, più complessa, tira in ballo l’aspetto oscuro di Lydia, quelle sue colpe passate e presenti che sono poi uno dei motori del film. Secondo Lapin, “c’è un altro significato nascosto nell’inclusione di teshuvah al di là delle pagine di uno spartito musicale. Gli insegnamenti ebraici comprendono anche che la parola, spesso invocata a Yom Kippur, si riferisce al concetto di cercare l’espiazione per i peccati passati. Tár, a quanto pare, ha molti peccati passati che deve espiare (…). Se riuscirà mai a trovare il perdono è una domanda a cui il film si rifiuta di rispondere, ma le scene conclusive la vedono iniziare quello che sembra essere un processo di umiltà, su una lunga strada verso la redenzione: i sentori della teshuvah”.
Altro legame di Lydia particolarmente interessante è quello con Gustav Mahler. Del compositore austriaco, nato ebreo e da lei venerato, la Tàr ha registrato tutte le sinfonie tranne la quinta e il film la mostra intenta a farla finalmente eseguire dalla sua orchestra berlinese. Oltre all’indiscutibile spessore artistico della figura di Mahler, la sua scelta servirebbe nel film anche a tracciare un parallelismo tra la natura manipolativa del compositore e quella della protagonista. Lapin si spinge però oltre e azzarda un altro parallelismo tra i due: “Mahler era ben noto per le sue reinterpretazioni delle opere del compositore e direttore d’orchestra Richard Wagner, notoriamente un antisemita e teorico della razza le cui idee sulla superiorità etnica ispirarono i nazisti. Anche Tár, come donna pioniera in un’industria dominata dai misogini, si ritrova a reinterpretare le opere di uomini che l’avrebbero odiata per quello che è”.
Proseguendo con le riflessioni su condotta (pessima) personale e valore (immenso) artistico, viene infine messo in luce anche il tema della denazificazione. In una scena, la protagonista rimprovera dei giovani allievi della Juilliard School per quello che lei interpreta come un rifiuto dei peccati dei giganti dell’arte. Qui la Tàr sottolinea come alcuni dei cosiddetti compositori illuminati che gli studenti invece accolgono siano stati antisemiti. Sempre nell’articolo citato si legge: “La questione di come trattare i grandi artisti insieme al loro comportamento tossico è uno dei temi più grandi di Tár, che viene salutato come il primo grande film sulla “cultura dell’annullamento”. E il legame della musica con i nazisti e l’antisemitismo diventa una sorta di indicatore di dove i modelli di comportamento violento di Tár potrebbero condurla.