Dopo una ormai consolidata esperienza nelle comunità agricole statunitensi, nasce il primo quartiere ad alto tasso di condivisione incentrato sui valori ebraici
La creazione di nuove comunità abitative basate sulla condivisione di spazi comuni, ma anche di ideali comuni, sta diventando qualcosa di sempre più diffuso. E se il cohousing in Italia è ancora qualcosa di pionieristico, negli Stati Uniti è una realtà piuttosto sdoganata, addirittura con agenzie specifiche che si occupano di mettere a punto una visione comune da condividere con i vicini putativi, così come agenzie di vero e proprio cohousing pronte a stilare piani operativi a seconda della tipologia di condivisione che si cerca, da quelli intergenerazionali, spesso amati dalle giovani famiglie con bambini, fino a quelli dedicati a un pubblico più anziano, che hnno come obiettivo risolvere il problema della solitudine, passando per quelli tematici, legati cioè a un obiettivo comune, per esempio l’ecologia. Perché parliamo di cohousing su queste pagine? Non mancano le esperienze ebraiche, fino ad ora tutte legate però all’agricoltura, con una serie di fattorie strutturate in cohousing sparse per gli Stati Uniti, addirittura ce n’è una molto interessante che propone una struttura simile a quella del kibbutz… reimmaginato!
E in città? Il primo progetto, presentato circa un anno fa a Berkeley in California, è diventato realtà. Si chiama Berkeley Moshav e si trova in San Pablo Avenue, in un contesto decisamente urbano, servito dai mezzi pubblici e facilmente raggiungibile, dove ora si possono prenotare appartamenti. L’idea è molto interessante perché presenta il progetto di una comunità aperta e inclusiva, capace di garantire ai propri ospiti una vita ebraica da tutti i punti di vista: ci sono la sinagoga, la scuola, i negozi e un centro culturale ebraici.
«Il nostro obiettivo», si legge sul sito internet di Moshav, «è creare una comunità viva in cui tutti coloro che lo desiderano possano partecipare ai ritmi della vita ebraica, in un contesto inclusivo di ebrei laici e religiosi e accogliente nei confronti di persone di altre religioni». E ancora: «Siamo una comunità inclusiva che rispetta e valorizza la diversità di età, composizione familiare, abilità, condizioni economiche e osservanza ebraica ed è aperta e accogliente nei confronti di persone di ogni religione, etnia, identità di genere e orientamento sessuale».
L’apertura e la condivisione sembrano proprio definire la linea guida di questo progetto, che punta a creare un vicinato d’elezione, fatto di persone che condividono stili e filosofia di vita, in una realtà molto ben strutturata. Cohousing infatti significa vivere la propria privacy come in un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città del mondo: gli appartamenti sono disposti in un insieme condominiale e sono privati, mentre la gestione del condominio, gli spazi pubblici e le eventuali attività di vicinato sono non solo aperte a tutti ma sottoposte a una gestione collettiva. La diffefenza, però, è sostanziale: chi sceglie di viverci sceglie, almeno un po’, anche i vicini. Il cohousing è anche un progetto di co-vicinato. Sono tanti gli obiettivi, dal vivere una vita ebraicamente intesa al sostegno e supporto tra vicini, dalla riduzione dei costi e delle spese a una gestione virtuosa dal punto di vista ecologico e ambientale, con un impegno sociale e solidale. E cosa c’è di più ebraico?
Il progetto è stato sviluppato in collaborazione tra i fondatori e lo studio di architettura KDA, si compone di 39 condomini, di dimensioni comprese tra 650 e 1.450 metri quadrati, pensati per avere terrazzi e balconi affacciati sul cortile interno, in modo da poter guardare i bambini che giocano da casa, in una integrazione con il verde urbano. I residenti sono stati coinvolti sin dalle prime fasi del progetto, proprio per garantire che gli spazi rispecchino i bisogni della comunità.