L’eredità è quella della Shoah e le tre generazioni sono tre donne della stessa famiglia. Una riflessione sulla storia e la memoria
È sempre interessante – almeno, io lo ritengo tale – ascoltare la voce delle seconde, terze generazioni della Shoah che si interrogano sulla trasmissione della memoria. Anzi, più il tempo passa, più l’argomento si fa complesso. La memoria storica è un patrimonio e un vincolo a cui è impossibile sottrarsi, ma quali sono le implicazioni a livello personali a sostenerne il peso? E non soltanto per chi ha avuto antenati morti o sopravvissuti alla ferocia dei lager, ma anche per tutti quei discendenti di parenti che avrebbero potuto fare quella fine e che, come dice la psicoanalista Dina Wardi nel fondamentale saggio “Le candele della memoria”, hanno comunque interiorizzato il trauma dei genitori. Qualunque ebreo avrebbe potuto essere ucciso e venire annientato per cui, con le dovute proporzioni la ferita è stata comunque tramandata ai figli e ai nipoti che devono cercare di curarla per non venire sopraffatti dalla sofferenza e, nello stesso tempo, portano una cicatrice invisibile che ogni tanto si risveglia, prude e fa male.
Di questo ci parla in “Eredità”, il suo ultimo libro (Giuntina, traduzione dal portoghese di Vincenzo Barca) lo scrittore brasiliano Jacques Fux. Nato nel 1977 a Belo Horizonte si è laureato in matematica e informatica. Con il suo primo romanzo, Antiterapias, ha vinto nel 2012 l’importante premio São Paul per la letteratura. “Eredità” è costruito come un oratorio a tre voci. Tre donne, «tre generazioni distanti legate dal silenzio». Il diario che Sara scrive a partire dall’agosto del 1939 che inizia in modo spensierato per poi concentrarsi a poco a poco sul destino degli ebrei del Ghetto di Łódz negli anni dell’occupazione nazista. Sopravvissuta ad Auschwitz andrà in Brasile, nel tentativo fallito di ricostruirsi un’esistenza lontana dall’orrore. Al diario della madre si alternano le sedute di psicoanalisi di Clara, la figlia, che non riesca a liberarsi dagli incubi materni che hanno invaso completamente la sua identità E infine, la nipote di Sara, la figlia di Clara, Lola, ricercatrice universitaria, che tenta di spezzare la catena di rimozioni e di silenzi familiari. Scrive Lola:
La mia generazione – quella delle nipoti della Shoah – ha imparato con fatica a parlare della paura. Portiamo sulle nostre spalle la storia – i sorrisi come le urla raccapriccianti – di ognuno dei nostri antenati. Eroi e fantasmi responsabili di uno smisurato mare di amore, di attenzioni e di affetto. Così. come di un oceano di preoccupazioni, iperprotezione e inquietudine.
Ma, per quanto nel finale si arrivi a formulare la decisione di abbandonare l’Auschwitz della mente e di elaborare con la scrittura il silenzio, si ha come la sensazione che il lavoro non sia giunto a termine, forse perché è proprio l’inizio di un percorso tutto da inventare. Fux non ci dice quale potrebbe essere la via d’uscita, non suggerisce una strada, si ferma all’intenzione di provare, all’imboccatura del tunnel. Ma come restituire quel regalo “di provare ricordi che non sono i nostri”, come riuscire a ritrovare identità e prospettiva sul futuro? Probabilmente andando ad elaborare quei sentimenti trasmessi, quei ricordi non propri, uno per uno, abbandonando le zavorre che impediscono un cammino personale. Un’attività paziente, fatta di scelte quotidiane e minimali più che di proclami razionali, un dipanare che spesso dura tutta la vita, tra ricadute e piccole vittorie: quei momenti in cui si intravede la luce in fondo alla galleria e la possibilità di lasciare la propria traccia nel mondo. Un’analisi costante, indispensabile se non si vuole continuare a passare il trauma ai figli come una maledizione. La memoria storica, come dicevo, è quella, va portata e supportata. Ma dolore, paura, vergogna, rabbia degli antenati sono un retaggio troppo pesante e invadente, un’eredità che rischia di coprire il sé di chi viene dopo e che deve avere il coraggio di lasciare andare, perfino di tradire. Di dire: no, grazie, questo non mi appartiene, te lo restituisco.