Hebraica
Mosè nella Haggadà. Le ragioni di un silenzio

Come mai non si parla mai dell’uomo che ha guidato il popolo nel deserto, fino alle porte della terra di Canaan? Ragioni, ipotesi e storie intorno alla sua assenza

Un fantasma si aggira tra le pagine della Haggadà, il fantasma di Mosè. L’assenza di Mosè in uno dei testi più belli e più noti della civiltà rabbinica, quello che viene letto ancora oggi durante il seder di Pesach, è lampante, esplicita, per alcuni provocatoria, per altri misteriosa. Se sfogliamo la Haggadà ci rendiamo conto che in realtà non è esatto che Mosè non viene mai citato. Il suo nome compare in un passo collocato circa a metà del Magghid, la parte narrativa vera e propria del seder, subito prima del Dayenu (“Ci sarebbe bastato”). Gli autori citano un midrash compreso in una delle più antiche raccolte, la Mekhiltà di rabbi Ishmael, composta forse nel III secolo e.v. e dunque almeno mezzo millennio prima del testo definitivo della Haggadà. Nel midrash rabbi Yossi il Galileo deduce il numero delle piaghe subite dagli egiziani citando alcuni versetti, tra cui uno dal libro di Shemot/Esodo in cui è menzionato il nome di Mosè: “Il popolo di Israele temette Dio, ebbe fiducia in lui e in Mosè suo servo” (Es 14,31). Prima di questo passo, attinto peraltro alla letteratura precedente, Mosè nella Haggadà non compare mai, come non compare mai nel seguito. Una citazione en passant tutto sommato marginale non scalfisce il mistero dell’assenza nel racconto dell’uscita dall’Egitto della guida del popolo di Israele.

C’è di più. Mosè infatti non solo non viene menzionato tranne nel caso succitato; il suo ruolo viene esplicitamente negato in un passo centrale del racconto. “E Dio ci trasse dall’Egitto. Non per mano di un angelo, non per mano di un serafino, non per mano di un inviato, bensì il Santo Benedetto stesso nella sua propria gloria”. La Haggadà nega la versione dell’uscita dall’Egitto come è raccontata nella Torà, e in particolare in Shemot, in cui è chiarissimo il ruolo di Mosè come inviato di Dio. Nello stesso passo citato da rabbi Yossi nel midrash che abbiamo visto, rappresentativo del ruolo di Mosè nel libro di Shemot, Dio e il suo inviato umano vengono accostati dicendo che in entrambi il popolo ha fiducia. L’assenza di Mosè nella Haggadà non può essere dunque casuale. Al contrario, è voluta e ribadita continuamente. Ma perché i rabbini escludono Mosè dal racconto riletto e rivissuto ogni anno della vicenda che porta dalla schiavitù verso la libertà?

Una prima ipotesi è che chi ha scritto o assemblato la Haggadà fosse ostile a Mosè. In fondo il pensiero rabbinico non si fa problemi a interpretare e reinterpretare figure anche importanti del Tanakh. Sulla scorta della fonte biblica deuteronomistica, per esempio, esistono ritratti a tinte fosche di re Salomone. Nel caso di Mosè però questa opzione sembra poco promettente. In tutta la letteratura rabbinica, infatti, Mosè è tenuto in altissima considerazione. Mosè è il maestro dei maestri, viene usualmente definito rabbenu cioè “nostro maestro” (in un celebre midrash si dice che la base degli insegnamenti del saggio per eccellenza del Talmud, rabbi Akiva, è la legge data a Mosè sul Sinai), è il più grande dei profeti, il messaggero e servo di Dio, ish ha-Elohim, “l’uomo di Dio”. Sopra tutti gli altri uomini e un grado soltanto sotto Dio stesso. Pensare all’esistenza di una leggenda nera su Mosè in ambiente rabbinico è quindi semplicemente poco credibile. Rimane aperta la possibilità complementare, e cioè che Mosè sia tenuto fuori dalla Haggadà proprio perché è “l’uomo di Dio”, il condottiero formidabile e il profeta più grande.

La storia dell’uscita dall’Egitto ripercorsa nel Magghid si dipana attraverso tre versetti della Torà che vengono prima citati per intero e poi commentati parola per parola sulla scorta di una diffusa tecnica esegetica. Tutti e tre sono presi non da Shemot, come potremmo aspettarci, bensì da Devarim/Deuteronomio. La differenza è notevole dal momento che Devarim rappresenta già una decisa elaborazione rispetto alla narrazione di Shemot. Perché i brani non sono tratti da Shemot, o Esodo, che racconta tappa dopo tappa l’uscita dall’Egitto, l’esodo appunto? Devarim è il libro che contiene gli ultimi discorsi di Mosè, recitati di fronte al popolo riunito alla vigilia della morte del condottiero e dell’ingresso dei figli di Israele nella terra di Canaan. Qui Mosè riprende le vicende raccontate nei libri precedenti – l’uscita dall’Egitto, il Sinai e i quaranta anni nel deserto – con omissioni, aggiunte e significativi spostamenti d’accento. Come il Mosè di Devarim si nasconde, così quello della Haggadà è celato. Nel primo caso a nascondersi è Mosè stesso perché è lui il narratore in prima persona, suo dunque il punto di vista, di fronte alla prima generazione che non ha vissuto i fatti dell’esodo, che non ha assistito a “miracoli e prodigi”. In un certo senso quello di Mosè di fronte ai figli di coloro che sono usciti dall’Egitto – i testimoni diretti sono infatti ormai scomparsi durante i quaranta anni nel deserto – è il primo Magghid, la prima Haggadà, la prima narrazione rivolta a chi è venuto dopo da parte di un sopravvissuto giunto alla fine dei suoi giorni. È legittimo chiedersi se i rabbini autori della Haggadà abbiano cercato di emulare questo processo di nascondimento e narrazione. In questo caso Mosè scomparirebbe dal testo letto durante il seder non perché non viene riconosciuta la sua importanza ma, al contrario, perché viene riconosciuta fino a trasformarla nel punto di vista. Mosè scompare dal campo visivo perché ritraendosi diventa lo sguardo.

Ci sono naturalmente altre piste che sono state seguite per provare a spiegare il mistero dell’assenza di Mosè nella Haggadà. L’assenza di mediatori su cui il testo insiste continuamente è funzionale a far risaltare un unico e solo protagonista della liberazione del popolo dalla schiavitù. “E Dio ci trasse dall’Egitto. Non per mano di un angelo, non per mano di un serafino, non per mano di un inviato, bensì il Santo Benedetto stesso nella sua propria gloria”. Dio, non Mosè o altri, è l’unica guida, l’unico condottiero, il liberatore unico e insostituibile nella Haggadà che diverge in questo dalla Torà in modo assai marcato. Non ci sono mediatori tra l’assoluta trascendenza e una massa di profughi che nello spazio vuoto, il deserto, compie un viaggio da una legge iniqua, la schiavitù egiziana, a una legge giusta, la Torà. Nella Haggadà la centralità esclusiva dell’intervento divino nella liberazione dei figli di Israele è ribadita di continuo. Dio e Dio soltanto è il protagonista di questa liberazione. Nella Torà non è così. Un versetto di Bemidbar/Numeri per esempio dice: “E gridammo verso Dio che ascoltò la nostra voce, inviò un messaggero e ci trasse dall’Egitto” (Nm 20,16). Questo messaggero, come specifica un midrash poi ripreso da Rashi nel suo autorevole commento, è Mosè. Ma gli autori della Haggadà si guardano bene dall’includere nel testo questo passo e la relativa esegesi. Nella Haggadà come abbiamo visto c’è un liberatore, ed è Dio. Nessuno spazio resta ad altri. La liberazione è possibile nella pura trascendenza, senza alcuna influenza umana inclusa quella di Mosè. Nelle mani del divino, cioè della trascendenza, gli uomini sono soltanto mezzi, agenti, operai della sua volontà. Anche i più grandi uomini lo sono. E Mosè è un uomo. Abbiamo così scoperto una nuova possibile spiegazione all’esclusione di Mosè dalla Haggadà. La grandezza di Mosè sta precisamente ed esclusivamente nella sua disponibilità a farsi strumento di Dio. Quanto più Mosè si cela, si fa umile, scompare dalla scena, tanto più è grande. Mosè nella civiltà rabbinica è il più umile degli uomini in quanto ‘oved, “schiavo” o “servo” di Dio. Portando il discorso fino all’estremo, il Mosè degli autori della Haggadà scompare in modo pressoché totale.

Ma esistono altre letture ancora. Mosè potrebbe non trovare posto nel testo letto durante il seder per reazione alla divinizzazione di Gesù da parte della Chiesa. Preso atto che la Chiesa ha reso divino un uomo reputato fondatore di qualcosa di nuovo, con un movimento tipico di reazione identitaria i leader dell’ebraismo in età tardoantica accentuano l’umanità di Mosè. Una reazione comprensibile dettata da volontà di distinguersi e dal timore nei confronti di una religione nata in seno all’ebraismo e che si fonda sull’idea che il messia è arrivato. Nessuno spazio quindi nella Haggadà per una figura interpretabile come intermedia tra il mondo umano e quello divino. L’ipotesi sembra però fragile dal momento che nelle fonti ebraiche precedenti il cristianesimo Mosè non è mai descritto davvero come dio o semidio (abbiamo scritto in precedenza della singolare eccezione di Artapano). Neanche chi, come ad esempio Filone di Alessandria, ritrae Mosè con chiaro intento apologetico compie un passo del genere.

Oppure l’esclusione di Mosè nella Haggadà potrebbe essere dettata da altre forme di reazione. Secondo alcuni è la risposta rabbinica a correnti importanti del pensiero ebraico in epoca ellenistica e romana. Per esempio le forti tendenze angelologiche, testimoniate con grande abbondanza nella biblioteca scoperta a Qumran ma anche altrove, al punto da segnare numerose apocalissi, incluso l’unico testo di genere apocalittico compreso nel corpus biblico, il libro di Daniele. Quando la Haggadà precisa che liberatore è Dio soltanto, non un angelo o un intermediario, vuole dunque sgombrare il campo da ogni possibile gerarchia celeste intermedia tra il dio creatore e il mondo. O infine la reazione potrebbe rispondere a un terzo nemico, il messianismo con il suo disastroso esito politico in seguito alla sconfitta di Bar Kochba nel 135 a opera dei romani. Il fallimento di Bar Kochbà, e di rabbi Akiva che lo riconosce come messia, porta la civiltà rabbinica e di conseguenza l’ebraismo medievale e moderno al rifiuto di ogni prospettiva messianica attuale. Come recita un diffuso adagio, ogni messia che viene non può essere che un falso messia. Il messia non è mai colui che viene, ma sempre e solo colui che verrà.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.