Un ricordo dello scrittore da poco scomparso a partire dall’elogio a lui dedicato composto da Keret, a sua volta analizzato a partire da Shalev…
Quando un importante esponente della cultura muore, oltre alla significativa perdita prodotta dalla sua scomparsa, ci tocca ormai con una certa frequenza la non trascurabile seccatura di dover sopportare una ridda di elogi funebri vacui o fuori luogo. Un fastidio che si è oltremodo intensificato nell’era di internet e dei social network: la “corsa al R.I.P.” sembra essere, infatti, un’altra delle manifestazioni dello smodato desiderio di presenzialismo dei nostri tempi. Ciò nonostante, anche in circostanze simili, individui intelligenti e sensibili sanno regalarci momenti di rara bellezza.
Lo scrittore Meir Shalev, tra i più amati in Israele, tanto dal pubblico quanto dalla critica, è scomparso nei giorni scorsi ed Etgar Keret ne ha scritto l’elogio funebre perfetto. Se ve lo siete perso, potete recuperarlo qui, nella traduzione inglese. Non soltanto le parole di Keret rispecchiano perfettamente l’immagine dello scrittore di Nahalal, ma rappresentano altresì una testimonianza aggraziata e densa di umanità, un omaggio commosso e frutto di un’ammirazione autentica. Eppure a prima vista Etgar Keret e Meir Shalev non potrebbero apparirci più diversi.
Scrittore Tel avivi per eccellenza il primo, contemporaneo se non addirittura post-moderno, proiettato nel futuro, laddove il secondo, nato lo stesso anno della fondazione dello Stato ebraico nell’iconico moshav di Nahalal, è più che mai legato alla storia delle origini di Israele, con i suoi richiami alla generazione degli haluzim, di cui nei suoi romanzi ha ricostruito magistralmente gioie, dolori e piccole manie. Etgar Keret ci racconta la solarità un po’ rude della città con le sue mille solitudini. Meir Shalev ci offre, invece, la contemplazione della Terra d’Israele e la sua bellezza quasi incantata. Come dimenticare, ad esempio, il delizioso libriccino Il mio giardino selvatico, l’ultima opera di Shalev comparsa in italiano nel 2020, una cronaca innamorata del succedersi delle stagioni nella valle di Yizrael tra i profumi di fiori selvatici e le melodie di uccelli. I personaggi di Etgar Keret sono figure fugaci, quasi imprendibili nella rapidità con la quale attraversano le pagine. Non c’è tempo di approfondirne la psicologia, di analizzarne le motivazioni, eppure ci restano incastrati dentro, nella loro perenne ricerca di un briciolo di amore e di felicità in questo mondo freddo e ostile. Le loro azioni spesso smarginano nell’illogico, nel surreale (ricordate la giovane donna che si incolla i piedi al soffitto per scongiurare l’addio dell’amato nel racconto Colla pazza?), tuttavia, in maniera del tutto paradossale, sono mille volte più sagge della ragione stessa. Ben diversi sembrerebbero i personaggi costruiti da Meir Shalev, i piedi ben piantati sul suolo di Israele, anche quando portano il nome di Abramo e Giacobbe, in un meraviglioso attorcigliarsi di mito e storia reale, di passato biblico e attualità. Anche nelle opere di Meir Shalev si possono rintracciare evidenti segni di attrazione per l’immaginario e il fantastico, i quali derivano tanto dal retaggio folclorico-popolare di inizio Novecento, quanto dalle prove successive di Shemuel Yosef Agnon e A.B. Yehoshua, cui inoltre avrebbe attinto David Grossman. Sin dal celebrato Roman russi (“La montagna blu”, in italiano), dedicato proprio alle vicende dell’insediamento ebraico nella Palestina del Mandato, Meir Shalev tende a farci riconsiderare la possibilità di cose che abbiamo automaticamente classificato come irrealizzabili. E in effetti, come si sono chiesti alcuni critici, che cosa potrebbe essere più impossibile del compimento del sogno della costruzione della casa ebraica in Terra d’Israele da parte di un pugno di sognatori dell’Est Europa? A questo proposito, Etgar Keret ha raccolto, per così dire, un testimone già presente nella letteratura israeliana, elevandolo all’ennesima potenza.
E ancora: come lo stesso Etgar Keret nota nel suo elogio funebre, Meir Shalev, da laico qual è, possiede una notevole conoscenza dei testi biblici, dei quali è stato appassionato interprete in alcuni volumi che purtroppo non sono mai stati tradotti in italiano. Mi piace ricordarne uno in particolare, il geniale Reshit, “Principio”, che documenta tutte le prime volte della Bibbia e raggiunge profondità interpretative sconcertanti e bellissime. Al contrario, nei racconti di Etgar Keret non troviamo traccia del passato della lingua ebraica. Il suo stile di scrittura sembra essersi liberato dal peso della tradizione per restituirci una lingua nuda, precisa, semplice. Questo perché nelle opere di Etgar Keret il legame con la tradizione opera su piani differenti, nella struttura stessa del racconto e dei suoi legami con la letteratura sovente visionaria dello shtetl.
Un’ultima osservazione: nel discorso commemorativo dedicato a Meir Shalev, Etgar Keret scrive che gli scrittori sempre gli ricordano animali di diversa natura. Meir Shalev però gli ricorda un albero, “saldamente radicato nella propria lingua, nella propria eredità e nella natura entusiasmante che lo circonda”. Mentre scrivo queste righe, provo a pensare a Etgar Keret, a cosa mi ricordi la sua penna così precisa ed emozionante. Probabilmente non un animale, ma una sorgente di acqua fresca che zampilla allegra su pietre antiche, levigate e lucide, e scorre scorre e nessuno sa dire fin dove arriverà.
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).
Straordinario intreccio interpretativo di Shalev e Keret. Dove non c’è una sola riga scontata. Grazie Sara Ferrari
Molto interessante, scritto in modo preciso e significativo, ma molto ben comprensibile.