Scritta dagli israeliani Rotem Shamir e Yuval Yefet, ci porta ad Anversa, nel distretto ebraico. Dove si parla in yiddish e fiammingo, si commerciano diamanti e si risolvono questioni famigliari tra scazzottate, mizwot e funerali….
La famiglia dei diamanti è un thriller che mescola il genere poliziesco con il dramma, gli intrighi d’affari con l’azione. Ma i momenti più coinvolgenti non sono le scazzottate, gli inseguimenti e le sparatorie, bensì le scene più intimiste, quelle ambientate tra le mura domestiche. La nuova serie di Netflix racconta in otto episodi di poco meno di un’ora l’intricata storia della famiglia Wolfson, quella a cui fa riferimento il titolo italiano, da generazioni commercianti di diamanti ad Anversa. Come buona parte delle principali aziende storiche impegnate in questa attività nella città belga, anche quella protagonista di Rough Diamonds (il titolo originale) è guidata da ebrei ultraortodossi. E la fiction ha tra i suoi meriti quello di muoversi in quello che è considerato l’ultimo shtetl d’Europa, il distretto ebraico, all’interno di una delle principali comunità haredi fuori da Israele. Certo, come fanno notare i diversi articoli usciti sull’argomento, al pari di altre produzioni analoghe, anche questa non si fa mancare cliché, inesattezze e incongruenze. Ma, a differenza che altrove, se qui si esprimono giudizi non è sulle scelte religiose dei protagonisti e sulle loro pratiche. Presentate forse a volte con imprecisione, ma in buona fede, senza quella sgradevole morbosità volta più ad attirare polemiche e spettatori che a rappresentare un mondo.
Scritta dagli israeliani Rotem Shamir e Yuval Yefet, già autori delle serie Fauda e The Cops, e prodotta da Keshet International con la belga De Mensen, Rough Diamonds ha tra le sue particolarità quella di essere recitata in un mix di yiddish e fiammingo, con un po’ di inglese e di francese qua e là. Lo stesso mix di lingue che gli ebrei di Anversa parlano da generazioni, a differenza dei creatori della fiction. Consapevoli dei propri limiti, i due si sono affidati a un team di consulenti e di traduttori sia per scrivere e dirigere i dialoghi sia per rendere più credibile l’ambientazione chassidica, mondo estraneo al loro background.
Poi, certo, siamo comunque nel regno dell’invenzione. E la storia di Noah, figliol prodigo che rientra a casa dopo avere abbandonato famiglia, azienda e religione, non è proprio originalissima. Se a questo aggiungiamo che l’occasione del ritorno è un funerale (del fratello minore morto suicida), l’effetto déjà-vu è assicurato. Definito da The Times of Israel come l’incontro tra Shtisel e Il Padrino, Rough Diamonds è in realtà un drammone classico con qualche punta di originalità. Tanto per cominciare, il protagonista si fa presto benvolere, ma non è privo di ambiguità morali. E non solo per le sue scelte religiose. Interpretato da Kevin Janssens, belloccio ma, va detto, con il minimo sindacale di espressività, Noah si ritrova suo malgrado coinvolto nella vita della comunità abbandonata 15 anni prima. E fin qui tutto procede come da copione. Quello che colpisce è la delicatezza con cui l’uomo recupera i contatti con la famiglia abbandonata, ma soprattutto la figura del figlio, Tommy. Nato dalla sua unione con una donna inglese morta da alcuni anni e subito accolto a braccia aperta da zii e nonni, il ragazzino sembra non fare alcuna fatica nell’inserirsi in un mondo per lui totalmente nuovo. Né la famiglia del padre pare avere problemi di sorta con questo nipotino figlio di una donna non ebrea. Tommy indossa allegramente la kippah durante la shiva e aiuta il nonno nelle sue opere di beneficienza, assistendo con interesse ai riti e imparando le benedizioni di Shabbat. Da parte sua il padre ci mette poco a ricordare le preghiere che dichiarava di avere dimenticato e a recitarle in quelle che sono forse tra le scene più commoventi delle prime puntate.
Tutto intorno si muove il mondo degli affari. Con le difficoltà di un settore in crisi al pari di tanti altri anche meno prestigiosi, minacciato dalla concorrenza straniera e da rinnovati equilibri interni ed esterni. Non ultimo il confronto, perlopiù indiretto, tra il patriarca Ezra, che ha il volto e la voce di Dudu Fisher, apprezzato attore nonché cantore israeliano, e i due figli che conducono l’azienda, Eli e, soprattutto, Adina. La presenza di una donna in una posizione di comando in un mondo dominato dai maschi è un altro dei motivi di interesse del racconto, giustificato anche dalla convincente interpretazione di Ini Massez, affascinante nonostante l’abbigliamento castigato e l’immancabile parrucca che le incornicia il bel volto. L’elemento femminile è del resto posto ai vertici di tutti i settori descritti, da quelli appunto imprenditoriali a quelli investigativi (con una pm a dir poco diffidente nei confronti degli ebrei) fino, ahinoi, a quelli criminosi, rappresentati dalla gelida nonna inglese di Tommy.
Come ha fatto notare Mira Fox in un articolo pubblicato da Forward, a Rough Diamonds va riconosciuto il merito di mostrare e condannare il lato oscuro del mondo degli affari lasciando fuori l’ebraicità dei suoi protagonisti. Che, se sono coinvolti in giri loschi, lo sono in quanto inseriti in un ambiente marcio, non certo perché ebrei. La loro appartenenza alla comunità, il senso di identità sono anzi descritti come l’unica loro salvezza dall’avidità e dalla corruzione, così come il richiamo alle mitzvot e gli insegnamenti del padre, pur nella sua intransigenza, rappresentano gli unici punti di riferimento in un mondo che va a rotoli. Intervistati da Times of Israel, gli autori della serie hanno ammesso di aver corso dei rischi, consapevoli che mostrare degli ebrei ortodossi collegati con la criminalità organizzata potesse suscitare reazioni antisemite. Anche per questo, si sarebbero sforzati nel mostrare la comunità dal punto di vista più realistico e umano possibile, mettendone in evidenza gli aspetti positivi: “Questo film parla di famiglia, di obblighi, di lealtà”, ha dichiarato Shamir. “Non è affatto un’opera su persone che hanno perso la morale o hanno perso la strada, in questo senso. C’è una consapevolezza molto forte in tutti i personaggi… su quali siano i loro ideali e quanto rispettino la loro storia, i loro genitori, la loro eredità”.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.