Uno spettacolo unico, in lingua ebraica, che, dopo la prima mondiale a Tel Aviv, è pronto per i teatri del mondo. Intervista al compositore Yonatan Cnaan
Herzl: Ogni luogo dove fuggiremo, sarà veleno.
Theodor: Trova un posto in cui fuggire.
Herzl: In ogni luogo dove fuggiremo, saremo sempre estranei.
Theodor: Sarò sempre straniero, sarò sempre “l’ebreo.
Theodor: Dobbiamo andarcene.
Herzl: Dove?
Theodor: Pensaci…
Herzl: In uno Stato per gli ebrei
Tutti conoscono e associano l’Affare Dreyfuss all’evento cruciale nella carriera e nella vita di Theodor Herzl che, nel 1894, si trovava a Parigi come corrispondente.
È in quei giorni bui per l’Europa che il giornalista austriaco, di origini ebraiche, comincia a interrogarsi sul destino del suo popolo.
Forse, ipotizza nelle pagine del suo diario, gli ebrei dovrebbero convertirsi al cristianesimo in massa, cercando di assimilarsi al resto dell’Europa, come ci viene suggerito nell’iconica immagine di un giovane Herzl crocefisso e fatto calare dall’alto sul palcoscenico.
Sul palco tutto è possibile. Questo è l’incredibile potere che ha l’arte in generale e, in questo caso, l’opera contemporanea che, grazie ad un ambizioso progetto prodotto dall’Israeli Opera House di Tel Aviv, condotta dal direttore d’orchestra Nimrod David Pfeffer, porta in scena la vita di Theodor Herzl e la sua visione del sionismo moderno, come nessuno aveva mai fatto finora.
Tutti, infatti, conoscono la sua storia come giornalista e quanto questo lo abbia influenzato nella stesura di Judenstaat, pubblicato nel 1896 – due anni dopo la condanna dell’ufficiale franco-ebreo – e del suo capolavoro Altneuland che, già nel 1902, porrà le basi per la costruzione di uno Stato per il popolo ebraico, in Terra di Israele.
In pochi, tuttavia, sanno quanto le origini austro-ungariche di Herzl, e il suo forte legame con il nazionalismo tedesco e la costruzione – il bildung – di una grande Germania lo abbia, a sua volta, influenzato nel progetto nazionalista di costruire lo Stato ebraico.
La Kultur tedesca aveva talmente forgiato la visione utopica di Herzl che una delle figure che lo hanno maggiormente ispirato è stato Richard Wagner attraverso la sua opera lirica. E proprio a partire dall’opera Tannhauser di Wagner, che tanto ispirò il visionario austriaco, ci viene raccontata in questa opera la visione di Herzl. Non in modo lineare, ma attraverso un processo di flashback e flashforward che ci porta a conoscere molti dei suoi dubbi e delle sue perplessità, riguardo alla questione ebraica, fin dalla sua giovinezza.
Grazie allo stratagemma del teatro, dove tutto è possibile, e la realtà si mescola con il sogno, le aspirazioni, e i dolori, il compositore Yonatan Cnaan e il librettista Ido Ricklin sono riusciti a raccontare la visione di Herzl in un piccolo capolavoro nella storia dell’opera: Theodor.
La scelta stessa di chiamare l’opera con il nome – e non con il cognome con cui tutti conoscono il grande visionario – vuole affermare la decisione di raccontare un percorso più intimo, meno conosciuto: quello del giovane Theodor, studente presso l’Università di Vienna, che assieme al suo compagno Paul Von Portheim, ebreo come lui, vuole entrare a far parte della confraternita Albia, una burschenschaft “associazione studentesca” di matrice germanofila per giovani studenti patriottici.
Proprio nel corso di questa esperienza di “iniziazione” il giovane Theodor sperimenterà le prime esperienze di antisemitismo, fino a scontrarsi, da adulto, con il caso Dreyfus, che lo porterà, nel 1897, a fondare il Primo Congresso Sionista a Basilea, nel corso del quale, e negli avvenire, fino alla sua morte nel 1904, verranno gettate le fondamenta del futuro Stato ebraico.
Per raccontare questo percorso parallelo fra il giovane e il più maturo Herzl, sul palco i due caratteri vengono impersonati da due attori diversi: quello giovane, sbarbato e ancora ingenuo – interpretato da Noam Heinz – e quello adulto, con la celebre barba lunga, e ormai disincantato, interpretato da Oded Reich.
In occasione della prima mondiale presso l’Opera di Tel Aviv, abbiamo intervistato il compositore Yonatan Cnaan che ci ha raccontato le tappe principali, le maggiori sfide e il grande successo di questo ambizioso progetto.
Quando e come è stato concepito?
“Tutto è cominciato più di tre anni fa quando, alla luce della precaria situazione politica in cui Israele si trovava già allora, Daniel Jusidman, noto filantropo israeliano, ha proposto al Direttore dell’Opera di Tel Aviv di scrivere la storia del grande visionario sionista attraverso un’opera musicale. Quando sono stato contattato dall’Opera sono inizialmente rimasto perplesso, perché non volevo limitarmi a raccontare la storia a tutti già nota, quella dell’uomo con la barba lunga che si affaccia dal balcone durante il congresso di Basilea, così come la mia generazione aveva imparato a conoscerlo sui banchi di scuola. Poi mi hanno proposto di incontrare il futuro librettista e regista, Ido Ricklin, e la prima cosa che ci siamo detti era che dovevano portare sul palco l’Herzl “senza barba”. Andando a cercare tra i suoi diari e nella celebre biografia scritta da Amos Elon, siamo venuti alla conoscenza di questo poco noto, ma cruciale, episodio della sua vita da studente europeo a Vienna, sotto l’influenza della cultura e della musica tedesca, che ci ha molto influenzato, oltre che nella storia del ‘dietro le quinte’ di questo uomo – icona dalla barba lunga, anche nel comporre la musica”.
Nel farlo, vi siete ispirati fortemente a Wagner, da sempre grande tabù nella storia di Israele e dell’opera israeliana.
“Il motivo principale per cui, ancora oggi, è vietato eseguire opere di Wagner in Israele non è dovuto alla sua ideologia antisemita, che allora prevaleva tra la maggior parte dei compositori tedeschi, ma poiché le sue opere venivano spesso trasmesse nei campi di concentramento e, per questo, sono sempre state considerate traumatiche per i sopravvissuti alla Shoah e, per tanto, bandite dallo Stato di Israele. Eppure Herzl, sia a Vienna che a Parigi, non si perdeva mai un’opera di Wagner tanto che nei diari, racconta di aver concepito l’idea di uno Stato per gli ebrei proprio mentre assisteva al Tannhauser”.
Quali altre influenze musicali vi hanno guidato nella stesura dell’opera?
“Theodor cerca di descrivere il lungo percorso intrapreso dal giovane Herzl fino alla visione dello Stato ebraico. Invece di concentrarsi solo sugli eventi storici, l’opera cerca di approfondire la sua lotta interiore ed emotiva. Questo mi ha ispirato nella composizione di una musica pulsante, ripetitiva e cupa. Personalmente la definisco ‘musica cinematografica’, perché cerca di esprimere lo spazio tormentato in cui si muoveva Herzl, tra la disperazione per l’amara situazione politica in Europa e un sentimento di completo fallimento nei confronti del suo matrimonio e della sua famiglia, trascurate in virtù del suo ambizioso progetto sionista. Da questa oscurità, affiorano i ricordi della sua giovinezza e l’Herzl adulto incontra il giovane Theodor, lo studente carismatico, determinato a integrarsi, ad appartenere alla maggioranza. Nel corso dei flashback la musica tende a ravvivarsi, con un ritmo incalzante, dettato dalla gioia di vivere della giovinezza che rivivono nelle melodie e nelle danze dello spirito austro-tedesco del tempo. La musica in Theodor è decisamente ‘operistica’, ma al tempo stesso melodica, dai toni più ‘leggeri’ rispetto alle opere tradizionali, poiché abbiamo cercato di ispirarci anche al grande successo internazionale del musical storico di Lin Manuel Miranda, Hamilton”.
Come nel celebre caso di Hamilton, vi aspettate di far viaggiare la vostra opera in tutto il mondo?
“Come ha detto Zach Granit, il Direttore dell’Opera, il giorno della premiere: “prima di tutto facciamo nascere il bambino, poi gli insegneremo a camminare”. Io non mi occupo direttamente della produzione e dell’internazionalizzazione del progetto all’estero, ma durante la stesura dell’opera abbiamo pensato, oltre ad un pubblico internazionale, soprattutto al pubblico dei giovani, alle nuove generazioni, da cui la scelta di integrare, assieme al personaggio storico noto a tutti, anche quello più intimo del giovane Theodor e del suo amico Paul – interpretato da una donna, Shaked Strul – personaggi fondamentali per permettere ad un pubblico giovane di immedesimarsi in loro.
A proposito delle nuove generazioni, in che modo quest’opera vuole essere anche un messaggio politico?
“Quando ho iniziato a comporre Theodor circa tre anni fa, non potevo immaginare che nel giro di così breve tempo la nostra generazione si sarebbe trovata in un punto di svolta nella storia del Paese, in cui viene messo in discussione il futuro della democrazia e, con essa, dello Stato ebraico. Con il progredire della scrittura, gli eventi reali hanno pervaso la creazione, rendendola più rilevante che mai. Questo ci ha offerto l’opportunità di attingere dai testi di Herzl e dagli alti principi liberali che formavano la base della sua dottrina e che oggi sono più rilevanti che mai. Quando nello spettacolo Herzl descrive lo Staro ebraico come un Paese aperto a tutti e a tutte le religioni, il pubblico del teatro ha applaudito nel bel mezzo della performance, quasi interrompendola, e in quel momento ho capito che ero riuscito nel mio intento. E in quello di Herzl: salvaguardare la democrazia del popolo ebraico”.
Un’opera coraggiosa, dunque, sia dal punto di vista narrativo che musicale, con una serie di omaggi alla storia dell’opera, da Chopin a Kurt Weil, ma anche ai primi compositori ebrei che hanno voluto creare una musica autoctona in Terra d’Israele, a partire da Sasha Argov, passando per la musica israeliana contemporanea di Aviv Gefen e del gruppo rock Mashina.
Solo alla fine dell’ultimo atto le due “anime” si incontrano sul palco per fare i conti la propria identità, doppia, che si risolverà nella stesura del primo manifesto sionista con le cui pagine, fatte volare sul palco, si conclude l’opera. E comincia la storia, con la S maiuscola, dello Stato ebraico.
A Tel Aviv, nel corso delle due settimane di anteprima, è stato tutto sold out.
Sarà interessante vedere la risposta da parte del pubblico straniero, soprattutto perché si tratta di un’opera eseguita interamente in ebraico, forse unico “neo” di questa ambiziosa produzione, poiché la lingua di Herzl, con cui è stato scritto il primo manifesto sionista, era il tedesco. E poiché la cultura tedesca è stata uno dei perni nella sua visione sarebbe stato interessante sentirlo cantare nella sua lingua madre, che è poi una delle lingue madri dell’opera.
Eppure, come ci spiega il compositore, scrivere l’opera in ebraico è stato anche un modo per dare vita all’ebraico moderno, quello dello Stato di Israele tanto sognato da Herzl, sia nella musica che nel ritmo.
Forse, scrivere l’opera in ebraico è stato anche un modo per omaggiare la visione di Herzl, morto nel 1904, molto prima di veder nascere lo Stato ebraico, che oggi ha un suo teatro per l’opera, capce di accogliere emettere in scena la sua storia più intima, meno conosciuta, più profonda, che fa di questa opera un capolavoro unico nel suo genere.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.