Come funziona e cosa si impara tra i banchi del villaggio alle porte di Tel Aviv
«La sfida principale che stiamo affrontando ora è senz’altro quella dell’assenza di speranza che le cose cambino». Al telefono dal suo ufficio, Roi Silberberg, direttore della Scuola per la pace del Villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam, parla in modo piuttosto diretto. «Il settore del peacebuilding, nel contesto in cui viviamo, si sta misurando con una notevole carenza di sostegno», continua. «Gli attivisti per la pace vengono trattati come ingenui, talvolta addirittura come “traditori”. Cerchiamo pertanto di sostenerli il più possibile, e di reclutare un supporto morale a livello internazionale».
Roi ha alle spalle un dottorato in filosofia dell’educazione e una lunga esperienza come facilitatore di gruppi in conflitto. Il suo ufficio è all’interno della Biblioteca del Villaggio, dove la Scuola è stata temporaneamente trasferita in seguito all’incendio doloso che il 31 agosto 2020 ne ha distrutto la sede storica. Il nuovo edificio, in costruzione grazie a una campagna di solidarietà internazionale, è previsto entro il prossimo anno.
Istituita ufficialmente nel 1979, la Scuola per la pace è nata in realtà all’inizio degli anni Settanta insieme al Villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam, «come i due lati della stessa medaglia». Sono parole del fondatore, il padre domenicano Bruno Hussar, convinto che la pace «non si improvvisa, ma deve essere insegnata» (B. Hussar, Quando la Nube si alzava, Marietti 1996).
Il contesto in cui si colloca è quindi quello dell’unica comunità presente oggi in Israele – posta su una collina a mezz’ora da Tel Aviv – nella quale famiglie ebree e arabe vivono insieme per scelta. Attualmente sono un centinaio, equamente divise dal punto di vista numerico. Fanno crescere e studiare i propri figli fianco a fianco e rappresentano un modello concreto di coesistenza democratica e nonviolenta.
Oggi la Scuola per la pace è un punto di riferimento riconosciuto, sia in Israele che all’estero, per la formazione nell’ambito della gestione dei conflitti.
Intende promuovere un cambiamento sociale su larga scala che porti a relazioni pacifiche ed egualitarie tra il popolo israeliano e quello palestinese. Per realizzare tale obiettivo, organizza corsi annuali e workshop intensivi di educazione al dialogo rivolti a giovani e adulti di entrambi i popoli. A questi si accompagnano dibattiti pubblici, momenti di riflessione accademica, programmi presso alcune università (otto quelli realizzati nell’ultimo anno, tra cui si segnalano ad esempio il corso in collaborazione con il dipartimento di Scienze politiche della Hebrew University e con il dipartimento di Psicologia della Tel Aviv University).
Si lavora con diverse categorie professionali, tra cui psicologi, architetti, avvocati, giovani politici, leader delle città miste, membri di organizzazioni non governative, donne impegnate nel tessuto sociale, attivisti per l’ambiente.
Le attività comprendono giochi di ruolo, discussioni di gruppo, momenti di semplice osservazione. Prevedono momenti sia uninazionali che binazionali e mettono in primo piano l’importanza di una conoscenza della propria identità di persona e di popolo. Sviluppano inoltre nei partecipanti la consapevolezza dei reciproci pregiudizi, del conflitto, del ruolo che ciascuno – volente o nolente – gioca al suo interno.
A condurre i laboratori sono sempre, insieme, facilitatori ebrei e arabi. «Abbiamo un team misto composto da dodici facilitatori freelance – spiega il direttore – che collaborano con il nostro staff interno, il quale a sua volta si occupa di amministrazione, valutazione, pubbliche relazioni e logistica. Tale suddivisione del lavoro è possibile solo grazie alla profonda identificazione e al rapporto di lunga data che esiste tra il team e l’organizzazione».
Chiediamo a Roi come funziona il “metodo del dialogo” – come viene chiamato – nei suoi momenti essenziali. «Nella maggior parte delle nostre attività», risponde, «vi sono tre componenti: il dialogo, l’apprendimento (per lo più sulla connessione tra una certa professione, o disciplina, e le relazioni ebraico-palestinesi), infine l’azione». Quindi aggiunge: «Sosteniamo e incoraggiamo il più possibile i nostri allievi a essere attivi nel “mondo reale” al di fuori, possibilmente nelle loro comunità o in altri ambiti, per cercare di cambiare il conflitto e le relazioni asimmetriche che segnano la nostra società».
Negli anni, il metodo è stato perfezionato, studiato e pubblicato: tra gli altri, nel volume di Nava Sonnenschein, co-fondatrice della Scuola e sua direttrice fino al 2020, The Power of Dialogue between Israelis and Palestinians. Stories of Change from The School for Peace (Rutgers University Press 2019). È stato poi esportato in altre situazioni di conflitto, tra le quali Irlanda, Kosovo, Cipro, Costa Rica, Stati Uniti.
A supportare i diplomati dei corsi – molti dei quali sono oggi a capo di organizzazioni non governative miste e di realtà che si occupano di diritti umani – c’è una rete di ex alunni, che ha contribuito a dare vita a diversi progetti, in particolare in relazione alle tensioni nelle città miste.
In conclusione, forse più che nei numeri, che pure ci sono (è stato calcolato che siano oltre 70 mila le persone che hanno frequentato, finora, i programmi della Scuola), i risultati vanno “misurati” attraverso le storie di cambiamento riportate dagli ex allievi. È il caso, ad esempio, di quanto affermato di recente da Ishmael Ben-Israel, divenuto facilitatore: «I corsi della Scuola per la pace mi hanno portato ad analizzare la mia identità. Chi sono? Chi voglio essere? Anche se la situazione è difficile, penso che nel futuro possa migliorare se siamo consapevoli di quanto ci circonda e di cosa prova la controparte. Credo di avere acquisito diversi strumenti: quello più importante è dire la verità. Se qualcosa è difficile, se ne discute. Più siamo autentici, più la controparte lo apprezza ed è propensa a fare un passo avanti».
Laureata in Lettere Moderne lavora come editor di saggistica.
Segue dal 2004 la realtà israelo-palestinese e dal 2014 coordina la comunicazione e le attività dell’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam, che sostiene l’omonimo Villaggio (‘Oasi di pace’) in Israele.
Scrive articoli di approfondimento e recensioni di libri per Terrasanta.net.
E’ autrice della guida Grecia. Luoghi cristiani e itinerari paolini (Terra Santa Edizioni, 2019).
Per fortuna i numeri intorno a Neve Shalom stanno crescendo,brava e molto chiara! ciao