Emancipazione, interdizioni di natura feudale e poi ancora aperture illuminate: la complessa storia della presenza ebraica della regione
La svolta, anche nei territori piemontesi, si ebbe con la presenza napoleonica. Alla convocazione dell’assemblea parigina del notabilato ebraico in terra napoleonica, nel luglio 1806, una trentina degli oltre cento esponenti presenti proveniva dal Regno d’Italia. Tra i primi, una quindicina erano piemontesi. Un riscontro non da poco. La ventata rivoluzionaria che arrivava d’oltralpe, di fatto consolidò per tutto l’Ottocento i rapporti tra le comunità presenti nella regione – soprattutto in quell’area meridionale dove particolarmente accentuati erano i legami con il nizzardo, e la medesima cultura francese – destinata ad esercitare un’influenza duratura. Alla definitiva sconfitta di Napoleone, quindi, era inevitabile che si esaurisse anche la prima grande fase di emancipazione, con il sopravvenuto ripristino di sudditanze, servitù e obbligazioni che erano altrimenti appartenute all’Ancien Régime. Nelle disposizioni emanate a partire dal Regio editto del 21 maggio 1814 venivano infatti reintrodotte misure come la concentrazione coatta nei ghetti urbani (laddove già fossero esistiti), il divieto di istituire nuovi luoghi di culto (nonché il vincolo di esercitare in proprio credo in forma privatistica, ovvero senza echi all’esterno delle medesime sinagoghe, come se pensieri, voci e canti potessero “sedurre” la maggioranza cristiana), l’impedimento nell’acquisto di immobili, l’impossibilità di avere a servizio personale cristiano, l’imposizione di un segno distintivo sugli abiti, il vincolo alla libera circolazione durante la Pasqua ed altro ancora.
Più in generale, con un significativo passo all’indietro, ritornava in auge un sistema di interdizioni di natura feudale, alimentato dal sospetto che la stessa identità ebraica portasse con sé i tratti di una vocazione eversiva degli ordinamenti cristiani. Poiché il fantasma dell’antigiudaismo si alimentava, tra le altre cose, della falsa convinzione per cui gli ebrei si sarebbero definitivamente proclamati «popolo eletto», e come tale dominante, non solo soggiogando la maggioranza non ebraica ma anche, in qualche mondo, “giudaizzandola”. Peraltro, il medesimo antiebraismo cristiano si alimentava di una logica competitiva e, al medesimo tempo, di contrapposizione. Qualcosa del tipo: “se non saremo noi stessi, diverremo come loro; per non essere come lodo, dobbiamo isolarli”. Lo spettro della contaminazione era un tratto fondamentale della contesa antigiudaica. La polemica, oramai di antica data, contro il Talmud si inscriveva in questo clima, a tratti pesantemente torbido, dove alle inibizioni legali si accompagnava l’istigazione della popolazione contro la minoranza ebraica, additata come una sorta di corpo estraneo rispetto al resto della collettività. Un meccanismo perverso, quest’ultimo, poiché in Piemonte come soprattutto in altri parti dell’Europa, serviva da facile – nonché fallace – collante rispetto a maggioranze cristiane altrimenti divise al loro interno. Per ragioni storiche, territoriali, culturali come di altro genere ancora.
Detto tutto ciò, torniamo ai dati demografici, nella loro dimensione grezza. I quali seguono sia le trasformazioni delle singole sovranità territoriali così come l’ospitalità, al pari dell’ostilità, che dal XVI secolo si alternarono, in un gioco di tandem, per così dire. Apertura e chiusura, infatti, contraddistinsero i luoghi dell’Italia settentrionale e occidentale. In Piemonte, soprattutto. Non ci fu mai una politica unitaria, tra i diversi sovrani che si succedettero. I quali, beninteso, assecondavano i loro interessi del momento. Non si trattava, come invece pensiamo nel nostro presente, della presenza (o dell’assenza) di un indirizzo umanitario bensì dei complessi calcoli politici, espressi di volta in volta. In altre parole, se una qualche minoranza poteva risultare “utile e necessaria”, allora si era prodighi nei suoi confronti. Altrimenti si chiudevano, di volta in volta, le cateratte. L’antisemitismo, storicamente, si è manifestato anche in una tale dimensione. Poiché è uno strumento per governare non tanto le singole minoranze bensì la medesima maggioranza, in questo caso cristiana (ma il discorso potrebbe essere esteso anche al mondo musulmano), attraverso la mistificazione della presenza di una minoranza, comunque necessaria che, per il fatto stesso di esistere costituirebbe una minaccia in sé.
Nella storia moderna (1492-1789) si registrano andamenti altalenanti. Già si è detto come il sistema del prestito a interesse (le «condotte», della durata di dieci anni, rinnovabili o estendibili secondo criteri discrezionali) costituisse un fattore strategico: l’interdizione cristiana al pegno, in tale senso, era dirimente. Poiché divideva (e decideva) i rapporti tra minoranze e maggioranza, rendendo le prime non solo concretamente subalterne agli interessi delle seconde ma anche compattando quest’ultime di contro alla presenza di componenti non cristiane. Non si trattava, a ben vedere, di questioni religiose e, ancora meno, di elementi “identitari” in senso stretto. Semmai era un conflitto di ruoli sociali, legati al materiale controllo delle risorse. Non solo di quelle economiche e monetarie. Sta di fatto che la sequenza demografica ci dice che se nella seconda metà del Seicento la presenza ebraica in Piemonte era di circa duemila unità. A Torino ne erano concentrati circa 750. L’istituzione del ghetto urbano, nel 1679, fu opera della duchessa reggente Maria Giovanna, madre di Vittorio Amedeo II. Va comunque rilevato che ciò successe a più di un secolo di distanza dalla sua diffusione in altre città dell’Italia. Dal 1723 la disposizione divenne esecutiva anche per la parte restante dei centri sabaudi. Nei fatti, la struttura fisica del ghetto si riduceva alla concentrazione in un paio di strade cittadine, perlopiù poste in quelle aree che ne costituivano il centro urbano, con la disseminazione di piccoli commerci e banchi. Molto spesso, soprattutto nelle municipalità minori, non era facile trovare un luogo dove raccogliere gli ebrei. Pertanto, non era raro che, nei fatti, le famiglie non fossero obbligate a risiedere in una qualche zona a loro imposta, rimanendo invece nei luoghi d’abitudine. Le norme segregazioniste, quindi, furono in alcuni casi disattese, se si fa l’eccezione per il regno di Carlo Emanuele III (1730-1773). Nel 1761, il censimento segnalava comunque la presenza di 4.192 ebrei entro i confini sovrani, riuniti in 808 famiglie. Al tempo, la maggiore concentrazione era a Torino (1.317 persone) a fronte, tuttavia, di una presenza ebraica in regione raccolta in almeno una ventina di centri urbani. Basti ricordare, tra le cose già dette, il cosiddetto triangolo Appam, tra Asti, Fossano e Moncalvo. Beninteso, luoghi che, a tutt’oggi, preservano solo l’ombra di ciò che fu nel passato. Tra le pietre e i silenzi.
Le professioni prevalenti, a fronte dei vincoli dettati dalle interdizioni antigiudaiche, erano non solo quelle di ordine commerciale, peraltro spesso assai povere, al pari di quelle di prestatori di denari, ma anche di produzione e distribuzione dei tessuti, una competenza nella quale l’ebraismo piemontese eccelleva (se si può ragionare, a tutt’oggi, sovrapponendo confini regionali e quindi – in tempo costituzionale – del tutto amministrativi, e come tali ad oggi vigenti, ai trascorsi delle sovranità dell’età moderna e contemporanea), del pari alla medicina, sospesa tra cerusici, cura degli animali e una qualche forma irrisolta di spiritualismo. I ghetti, in Piemonte, non furono solo un luogo di nequizie. Peraltro, nulla avevano a che fare con ciò che in nazisti, tra il 1940 e il 1944, istituirono nell’Europa centro-orientale da essi occupata (e dilacerata). Nonostante i vincoli, le interdizioni, le persecuzioni (in Piemonte tuttavia meno cruente che in altri parti dell’Europa), i ghetti furono anche la circostanza per coltivare una cura di sé, e della propria tradizione, che altrimenti avrebbe subito una diversa piegatura. Non importa se da considerare come migliori o peggiore. Non a caso, le sinagoghe (che non costituivano solo il luogo del culto bensì il centro condiviso di un’attività sociale e relazionale di lungo periodo) conobbero proprio in quel tempo il loro maggiore sviluppo. Così a Casale Monferrato, Carmagnola, Mondovì, Cherasco e in altri luoghi.
Per l’appunto: se il 1779 era stato l’anno della prima emancipazione, e il 1814 quello della nuova dipendenza, con il 1821 il Regno di Sardegna statuiva che «la religione cattolica apostolica romana sarà quello dello Stato, non escludendo però quell’esercizio di altri culti che fu permesso insino ad ora». Nel successivo Codice albertino si dichiarava che «gli altri culti attualmente esistenti nello Stato sono semplicemente tollerati, secondo gli usi e i regolamenti che li riguardano». In Piemonte, tuttavia, dinanzi allo stato delle cose (la «tolleranza») si stava sviluppando un cenacolo illuminista, non meno che rivoluzionario, per il quale la condizione (ossia la liberazione delle minoranze dalle ataviche e anacronistiche servitù) degli uni era presupposto per l’emancipazione degli altri (ovvero le maggioranze). Nella libertà religiosa (e sociale) di ebrei e valdesi, polemisti e opinionisti come Angelo Brofferio, Lorenzo Valerio, Vincenzo Gioberti ed altri ancora, andavano caldeggiando le ragioni degli italiani, di origine ebraica ma non solo: nell’emancipazione dei primi – infatti – vedevano riflessa, con grande preveggenza, la liberazione dell’intera collettività nazionale. Anche da questi complessi processi culturali, oltre che politici e sociali, si arrivò quindi allo Statuto albertino (adottato dal Regno il 4 marzo 1848) e, con esso, alle successive disposizioni legislative sia del 29 marzo che del 7 giugno (la cosiddetta «legge Sineo») che ne integravano e ne specificavano i contenuti in tale senso: «la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed alla ammissibilità alle cariche civili e militari». Per parafrasare altri eventi a venire, poteva forse sembrare un piccolo passo per la legge (costituzionale) ma era, nei fatti, un’evoluzione gigantesca per le società. Non solo quella sabauda e piemontese, non esclusivamente quella italiana ma, in fondo, per tutta l’Europa come tale. Massimo D’Azeglio (e suo fratello Roberto), tra i maggiori sostenitori della liberazione dalle antiche superstizioni, servitù e dipendenze, si coniugava idealmente, nel suo pensiero riformatore, a quanto già aveva scritto Carlo Cattaneo nel merito delle «interdizioni israelitiche» (1835-1836).
Ciò che, in tutta plausibilità, costituì un punto di non ritorno fu il fatto che la condizione della minoranza ebraica assumesse, nel corso della prima metà dell’Ottocento, al pari di altri gruppi autoctoni di antico radicamento, la decisiva fisionomia su cui riscontrare l’effettiva situazione della maggioranza cristiana: qualora i vincoli per la prima fossero stati mantenuti, nessuna reale evoluzione ed effettiva progressione sarebbero state registrate per la maggioranza non ebraica. Poiché la linea di divisione non doveva correre tra le appartenenze religiose, o di qualsivoglia genere, bensì sulla separazione dettata dal riconoscere definitivamente che l’esistenza umana implicasse semmai il possedere diritti naturali inalienabili e insindacabili, ossia esistenti a prescindere dal successivo riconoscimento di ciò che chiamiamo oggi con il nome di «Stato» (quindi il potere politico come tale organizzato per gestire le società). Il liberalismo piemontese, sulla scorta del magistero politico di Camillo Benso conte di Cavour, si andava sempre più spesso indirizzando in tale senso. Non a caso, la condizione ebraica fu quindi sempre più spesso definita come «una questione in cammino», per più aspetti riconducibile ad un percorso, spesso accidentato ma comunque indispensabile, di evoluzione delle società nazionali. Da allora in poi, la partecipazione dell’ebraismo piemontese alle vicende collettive, fu una sorta di suggello ripetuto: dal Risorgimento agli anni della Costituzione, in due secoli, costituì un dato incontrovertibile. Va da sé che non fosse vissuto come un aspetto di ordine locale, regionale e quindi campanilistico. C’è chi ha parlato, al riguardo, di «nazionalizzazione parallela» (Arnaldo Momigliano, nel 1933, in ciò poi ripreso da Antonio Gramsci): gli ebrei divennero italiani nel momento stesso in cui altre collettività regionali conobbero un percorso, a tratti molto tortuoso, di identificazione con la vita e il respiro di una nuova nazione. Le due guerre mondiali, e ciò che ad esse si accompagnò, costituirono quindi un trapasso imprescindibile. In altre parole, la minoranza ebraica preservò i suoi tratti non malgrado ma soprattutto grazie all’unificazione peninsulare. Da cui non fu assorbita e disintegrata, portando semmai calchi propri, a tutt’oggi sussistenti. Quand’anche i singoli ebraismi regionali, alla resa dei conti, si fossero poi rivelati, ad oggi tanto più, tra di loro per nulla omogenei sul piano delle idee, delle sensibilità, delle propensioni. Non è allora un caso se singole realtà locali (ad esempio il Collegio Foà di Vercelli, nato grazie ad un lascito testamentario del Settecento) divenisse nel volgere degli anni risorgimentali il cenacolo di ideali mazziniani nonché patriottici ed egalitari, portando non pochi giovani alla militanza politica. Dal 1848 al 1861, per capirci, in campo ebraico fu infatti un fermentare di ipotesi, speranze, illusioni e cospirazioni.
Come i tempi, anche i luoghi hanno avuto la loro importanza: a fronte della mastodontica e a lungo incompiuta Mole Antonelliana (1863-1889), enfatico e fallimentare tentativo di edificare un «duomo degli ebrei», il vero centro della vita ebraica torinese fu a lungo piazza Carlina (al secolo piazza Vittorio Emanuele II), dalla quale trasse ispirazione anche Antonio Gramsci e della quale ebbe a scrivere Angelo Brofferio: delle piazze di Torino «era la più classica e più romantica, la più seria e la più faceta, più plebea e più imponente»). Quel baricentro sociale ed umano, dopo la fine della Grande guerra si sarebbe frantumato in innumerevoli rivoli, tra la zona precollinare, il quartiere della «Crocetta», le aree maggiormente accoglienti per gli ultraortodossi di San Salvario e dell’asse di via Nizza, prospicienti la sinagoga presente, da allora ad oggi, in via Pio V. L’ebraismo torinese, fortemente influenzato dalla lezione politica dell’azionismo come poi, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, anche dalla robusta presenza comunista e socialista, diverrà quindi una delle architravi delle culture cittadine, giungendo ad oggi.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.