Ohad Naharin, coreografo e ideatore di Anafaza, ha deciso di riportare sul palco, in chiave contemporanea, l’opera che lo ha reso famoso in tutto il mondo
Anafasa, “anafase” in italiano, in biologia rappresenta la terza fase della mitosi, ovvero la divisione del nucleo cellulare durante la quale ogni cromosoma si scinde nei due cromatidi che lo costituiscono, per poi spostarsi dall’equatore verso i poli del fuso mitotico.
Se questa metafora da un lato allude alla trasformazione del corpo individuale, così come quella di ciascuno dei 30 ballerini che compaiono sul palco di quello che è sicuramente il marchio di fabbrica della Batsheva Dance Company, la più importante compagnia di danza israeliana, oltre che a una delle più rinomate su scala mondiale, al tempo stesso allude anche alla trasformazione del corpo collettivo: quello di Israele nei suoi costanti mutamenti storici.
Non sorprende dunque che, in un delicato momento come quello che sta attraversando negli ultimi mesi il Paese, Ohad Naharin, coreografo e ideatore di Anafaza, nonché uno dei più importanti coreografi a livello internazionale, dopo trent’anni dalla sua prima edizione, abbia deciso di riportare sul palco, in chiave contemporanea, l’opera che lo ha reso famoso in tutto il mondo. “Il campo di sperimentazione offerto da Anafaza in questa sua nuova edizione è più vasto che mai. Sono passati 13 anni dall’ultima volta che l’abbiamo riportato in scena. Ora lo riproponiamo in una nuova edizione, con un nuovo gruppo di ballerini desiderosi, quanto me, di sperimentare questo ‘parco giochi’. Insieme, esploreremo, scopriremo e reinventeremo Anafaza: mescolando idee, ricordi e movimenti che si incontreranno e si scontreranno con le loro menti creative. Pur rivisitando ciò che già conosciamo, cercheremo soprattutto di scoprire ciò che ancora non sappiamo…”
Sono queste le parole di Naharin, che è stato anche Direttore Artistico di Batsheva fino al 2019, e che aveva portato Anafaza sul palco per la prima volta nel dicembre 1993, in occasione del 30° anniversario della Fondazione Batsheva e dell’inaugurazione dell’Israel Festival a Gerusalemme. Il giorno dell’apertura del Festival, l’allora Ministra della Cultura Shulamit Aloni così aveva aperto le danze: “Apriamo il festival, l’espressione più armoniosa tra corpo e spirito, perché non c’è nulla che sposi queste due dimensioni più delle arti del palcoscenico, prima fra tutte la danza: dove il corpo è lo spirito e lo spirito è il corpo, e l’essere umano risulta il padrone di entrambi”.
Da quando è stato portato sul palco per la prima volta, Anafaza è stato visto da circa 300.000 spettatori in Israele, e altrettanti nel mondo, avendo girato tra Stati Uniti, Australia, Giappone, Spagna, e Germania. Nel corso del tour mondiale questo spettacolo d’avanguardia ha sicuramente cementato un nuovo linguaggio nella danza, che ancora continua a guidare le comunità di danza locali e internazionali, consolidando il primato israeliano nella danza contemporanea, su scala globale. Oggi Anafaza 2023 è simile alle sue versioni precedenti per portata ed energia ma, al tempo stesso, è completamente diverso, in un certo senso più ludico, pensato ad un pubblico più giovane e dal linguaggio più contemporaneo.
Anche questa volta Naharin ha chiamato il suo collaboratore di lunga data Avi Belleli – che, assieme Danni Makov, anche lui sul palco, fanno parte della rock band Tractor’s Revenge – e hanno eseguito la musica dal vivo per accompagnare gli oltre 30 danzatori. Master of ceremony, il primo ballerino Billy Barry, attualmente alla sua dodicesima stagione con la compagnia, con cui ha già collaborato in precedenti lavori, tra cui Momo, Last Work e 2019. Con la sua corporatura alta, i lunghi capelli biondi e il suo movimento “serpentino”, Barry è già diventato un’icona della stessa opera artistica, oltre ad aver preso parte al processo stesso di produzione, con il ruolo di assistente alla coreografia.
Come ci racconta Gianni Notarnicola, uno dei ballerini che sette anni fa ha lasciato l’Italia per realizzare il suo sogno nel cassetto di diventare parte del corpo di ballo di Batsheva: “Il processo di riallestimento di Anafaza ha incluso sia l’apprendimento di vecchie sezioni, già note al pubblico, sia la creazione di nuove, attraverso i nuovi linguaggi della danza contemporanea. L’esperienza che si prova attraverso questo spettacolo, sia per il pubblico che per noi ballerini, è un’esperienza a 360 gradi che include, oltra alla danza, musica, canto e recitazione, attraverso una rottura degli schemi tradizionali della danza. La stessa interazione con il pubblico, ci spiega Notarnicola, non solo rende gli spettatori performer ma, soprattutto, rende ogni spettacolo diverso dall’altro, permettendo anche a noi ballerini di vivere ogni sera un’esperienza unica.”
Pur essendo, nella sua struttura, fortemente ispirato alla sua versione originale, nella sua versione contemporanea Anaphase 2023 si adatta non solo ai nuovi linguaggi della danza contemporanea, ma ai diversi linguaggi e alle diverse problematiche del nostro tempo, citando, per esempio Instagram; l’impossibilità di trovare l’amore; le difficoltà di vivere in Israele da cittadini stranieri e altri temi così attuali che, anche chi lo aveva già visto allora, è voluto tornare a rivedere il suo revival, che nel corso dei suoi 14 show è risultato un evento straordinario, con 1600 posti sold-out ogni sera.
Come nella maggior parte delle opere di Naharin, i ballerini di Batsheva si muovono in modo “imprevedibile”, che richiede all’osservatore uno sguardo, anzi, più occhi, per riuscire a seguire tutti e 30 i ballerini, assieme allo stesso Naharin che, in questa occasione, mentre suona e canta, indossa un abito lungo di velluto rosso, quasi in stile Ottocento, mentre il primo ballerino Billy Barry è ricoperto di glitter e paillettes.
Persino nei costumi e nella scenografia Anafaza 2023 si fa meno minimalista e più “instagrammatica” nonostante, proprio all’inizio dell’opera, lo stesso Naharin salga sul palco chiedendo a tutti di spegnere i telefoni per 95 minuti, per godersi l’esperienza a 360 gradi, senza l’utilizzo del cellulare e di tutte le sue funzioni. La parte ludica dello show è lasciata ai momenti in cui si celebra l’innocenza, lo “smembramento della cellula” attraverso la gioia della scoperta, la meraviglia insita nell’infanzia: sul palco si festeggia il compleanno, a sopresa, di uno degli spettatori, e il pubblico si trasforma in rockstar durante la performance “Story Time” in cui viene chiamato a rispondere, attraverso l’utilizzo del proprio corpo, alle irriverenti domande sollevate da Billy Barry.
Anafaza 2023 è anche un momento di interazione con i ballerini che, durante le loro solo performance, rivelano alcuni dei loro dettagli biografici, i propri sogni e le proprie paure: quella, pur facendo parte del Batsheva Ensemble, di non riuscire ad entrare a far parte della Batsheva Dance Company; quella di rimanere single, al punto di fornire al pubblico il proprio contatto Instagram; quella di non essere cittadini israeliani e di dover vivere lontani dalla propria famiglia; quella di essere stranieri e non riuscire ad esprimersi propriamente in ebraico.
Il tema dell’estere stranieri o diversi – come quasi la metà del corpo di ballo di Batsheva – si contrappone, e diventa al tempo stesso complementare, a quello del senso di appartenenza alla cultura ebraica – israeliana, come dichiarato fin dalla prima, spettacolare, immagine di apertura, in cui i 30 ballerini vestiti da ultraortodossi, sulle note di “Ehad Mi Yodea”, uno dei testi dell’Agada di Pesach, vengono travolti da un’ondata di eccitazione che attraversa i loro corpi, man mano che si spogliano delle proprie vesti fino a rimanere quasi nudi.
Gli stessi “bambini ortodossi”, yaladim charedim, come viene recitato nel testo interpretato dal vivo da Naharin – tornano sul palco verso la fine dello show muniti di serbatoi d’acqua vuoti, che verranno poi trasformati in percussioni, con la stessa capacita con cui i bambini improvvisano i loro giochi quotidiani, così come quando irrompono sul palco cantando la cova sheli shalosh pinot, il celebre testo per bambini “Il mio cappello ha tre angoli”, abbinando i movimenti delle mani ad ogni parola, come nei giochi d’infanzia.
Il confine tra gioco e guerra rimane sempre al margine, come quando i ballerini si precipitano sul palco con in mano diverse bandiere nazionali – tra cui spiccano quella israeliana e quella palestinese – che diventano come un compagno di ballo. Le avvolgono, le fanno roteare, le sbattono sul pavimento, le lanciano ovunque, sulla colonna sonora di Bullet in the Head dei Rage Against the Machine. I ballerini saltano, si ribellano, crollano, in una performance a tratti violenta e disinibita, che si conclude con la sepoltura di uno di loro sotto le bandiere, questa volta esposte al rovescio, per cui, di fatto, bianche, come il telo che copre un milite ignoto: altro inequivocabile segnale di avvertimento. L’alternativa, suggerisce Anafaza, è celebrare la molteplicità, la diversità, pena la morte, la solitudine.
La posizione politica che emerge richiede che gli spettatori pensino anche ai bambini del futuro, grazie alle commoventi parole di David Grossman, la cui voce accompagna sul palco il corpo di ballo, sulle note di Spiegel im Spiegel di Arvo Part.
Il testo di Grossman There Was Always This Shadow, Always This Doubt (2022) si contrappone al triplo accordo del pianoforte, danzando con la melodia lenta e fluttuante del violino, che rimane sospesa nello spazio del vasto palcoscenico, quasi a tracciare il percorso dei danzatori che vi si aggirano con una precisione matematica, mentre il testo recita: “Noi, tutti noi qui, ci siamo riuniti da tutto il mondo, per assorbire il potere e la bellezza della creazione umana. Siamo molto fortunati, poiché ci sono stati coloro che hanno combattuto affinché potessimo essere liberi nel corpo e nello spirito, così da essere persone libere. [… ] C’è stato chi ha lottato e ha dato la vita per proteggere la libertà di espressione e di creazione; chi ha lottato per il diritto di essere diversi, essere altro, essere speciali, eppure essere uguali davanti alla legge, avendo una voce uguale. Ci siamo riuniti, qui e ora […] liberati dalle catene dell’ignoranza, dalle catene dell’autorità, da un moralismo ipocrita che sminuisce il valore degli esseri umani..”
Grazie alle potenti parole di Grossman, Naharin riesce a portare l’attenzione degli spettatori sulla bellezza che risiede nell’umanità stessa: il corpo e i suoi mutamenti. Ciò che i danzatori e gli spettatori hanno in comune e in ciò che li distingue allo stesso tempo. All’inizio di questo pezzo, a danzare sul palco è una sola performer. Man mano che il testo di Grossman va avanti, aumentano il numero dei ballerini, fino a diventare cinque e a muoversi tutti insieme, all’unisono, proprio in concomitanza con la definizione di Grossman della collettiva’ ebraica che, come qualcuno che prima non si era mai sentito a casa, ora prova un profondo senso di appartenenza, che emerge dal lavoro congiunto – in terra di Israele, ma anche nel mondo – come se fosse qualcosa di profondamente radicato nello stesso corpo di chi ci vive, qui rappresentato dal corpo di ballo di Batsheva.
Questa collettività si sente e diventa sempre più forte, man mano che i loro movimenti si sincronizzano tra loro. Le intense emozioni che questa immagine evoca nel pubblico, ci ricorda come, attraverso il corpo, tutti comprendiamo, tutti percepiamo la complessa e profonda connessione con questo luogo: nello spirito, nel linguaggio, e nel corpo. L’insistenza nel distillare l’unicità fisica di ogni ballerino e danzatrice risulta quindi non solo una posizione estetica, l’ormai nota impronta artistica di Naharin, ma anche una posizione etica, una dichiarazione di fede nell’umanità, un appello politico, un riconoscimento che la nostra forza non è solo nell’unione ma anche nella differenza, nella capacità di riconoscere la diversità e la pluralità come punto di forza.
Un messaggio e uno spettacolo che, a distanza di giorni, ma anche a distanza di anni, come provato da chi è tornato a rivederlo, rimane fortemente impresso, nel corpo e nella mente. Un capolavoro tanto Made in Israel ma universale. Come l’essere umano.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.