Cultura
Franz Kafka negli occhi di Alice Miller

Una proposta di lettura dello scrittore praghese in occasione del suo compleanno

Qualche giorno fa, il 3 luglio, era il compleanno di Franz Kafka. Thomas Mann scrisse di lui che era un sognatore e che i suoi scritti erano spesso concepiti e costruiti appunto come dei sogni. “Essi imitano alla precisione, sino a destare il riso, l’assurdità logica e angosciosa di questi singolari specchi della vita”. Ma cosa si intende con “lo stile dei sogni”? Secondo la psicoanalista Alice Miller che nella sua opera “Il bambino inascoltato” ha dedicato un bel capitolo allo scrittore, Kafka sognava mentre scriveva; senza che ne fosse consapevole rielaborava la sua infanzia, proprio come le persone fanno con le esperienze accadute durante la giornata.

Sicuramente è stato un grande visionario, un autore capace di prevedere perfino alcune pagine buie della nostra storia (basta pensare alla Colonia penale, quasi una profezia dei campi di concentramento), di smascherare le strutture assurde della burocrazia, della religione e della politica della società; ma secondo Miller la ricchezza della sue opere, ciò che le rende così disturbanti e allo stesso tempo vicine, sta proprio nel sapere attingere al dolore provato nei primi anni della sua vita. In questo senso è probabilmente lo scrittore novecentesco che ci colpisce in modo più personale e profondo, che ha il coraggio di rivelarsi senza filtri chiedendo al lettore un coinvolgimento totale nelle vicende che tratta. David Grossman in un’intervista sosteneva che senza sofferenza è impossibile la creazione artistica, è da lì che tutto nasce. Quindi chi scrive è destinato a restare imprigionato nella nevrosi? Che cosa sarebbe successo se Kafka fosse andato in analisi? Molti probabilmente storceranno il naso davanti a questa frase, vista come l’ennesimo tentativo di applicare teorie psicoanalitiche all’opera di uno scrittore geniale e forse risponderebbero che sarebbe scappato dopo la prima seduta. Ma io non credo. Penso che forse sarebbe rimasto frastornato, colpito, incredulo di aver trovato per una volta una persona disposta ad ascoltarlo, dato che nel corso della sua esistenza dovette sempre lottare per ottenere comprensione, a partire dai genitori, la madre Julie, totalmente sottomessa al marito, il terribile padre, destinatario della famosa Lettera che non lesse mai, fino alla prima donna amata Felice Bauer con cui ebbe un lungo carteggio e che spesso non gli rispondeva lasciandolo nel panico e nello sconforto.

La vita di Kafka non fu segnata da traumi particolari (a parte forse un abuso sessuale che riecheggia in quello subito da K. a opera dei due sbirri e l’odio per la scuola) ma fu proprio la sua sensibilità esacerbata a fargli vivere le offese, le umiliazioni, le angosce e i sentimenti di abbandono di quella fase come traumi che poi ritroveremo in tutta la sua produzione. E dato che li ha provati con tanta intensità sulla sua pelle nella primissima infanzia riesce a farli percepire anche a noi, rendendoli davvero universali: nel Processo riviviamo i nostri sensi di colpa, nel Castello la nostra impotenza, nella Metamorfosi la solitudine. E usciamo da queste opere arricchiti, con un sentimento grato di catarsi dato dalla differenziazione: la nostra vita non è quella dei personaggi di Kafka.
Ma tornando invece allo scrittore, se si considera la summa dei suoi racconti e dei suoi romanzi, non si può non percepire un devastante senso di isolamento, che è proprio quello, dice Miller, che prova ogni bambino dotato, interessato, sensibile, non malato, quando viene lasciato da solo davanti ai grandi interrogativi della vita, affidato a domestici avidi di potere e poco attenti ai bisogni autentici di chi dovevano tutelare (anzi, spesso erano proprio loro, i suoi guardiani, a terrorizzarlo a morte o a punirlo crudelmente come lui stesso racconta). Quanto doveva essere grande la sua fame (penso al Digiunatore) di trovare una persona disposta a condividere il suo mondo interiore, a capirlo, a non deriderlo, un amico sincero.
Kafka non andò in analisi e non ebbe consapevolezza lucida del proprio disagio, ma ne percepiva con acutezza le ragioni. Quando la madre si rifiutò di consegnare al padre quella Lettera che Franz aveva avuto il coraggio di comporre, riversando tutti i sentimenti di rabbia, paura e impotenza che lo legavano al genitore, a lui non restò che ammalarsi di tubercolosi, ben sapendo che quella malattia era psicosomatica e lo avrebbe comunque portato alla morte. Era dotato di un grande intuito per la vita, che gli consentì di lasciare Felice e convivere con Milena, una donna più disposta ad accoglierlo e comprenderlo. Forse la lettura della Miller ci vuole convincere eccessivamente che siamo influenzati dall’inconscio, che condiziona il nostro destino? Io credo che comunque saggi come il suo siano utili al lettore. Percepire quanto la crudeltà altrui condizionò la sofferenza di Kafka può farci riflettere su come un’educazione sbagliata, castrante, possa soffocare e assassinare un’anima e un talento in formazione. Kafka riflette la crudeltà subita e la espande a livello sociale, facendone specchio collettivo e inducendoci a una riflessione sulle modalità con cui si sviluppa e si diffonde. E in questa ottica la sua opera acquista una luce nuova, offrendo spunti di interpretazione anche per la nostra esistenza e il nostro passato. E quando questa integrazione tra opera e lettore avviene e apre una dinamica così intensa si può davvero parlare di alta letteratura.
Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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