L’ebraismo, nei fatti, non è stato solo un insediamento diasporico (e quindi percepito, perlopiù erroneamente, come nomade, transitorio, interlocutorio, quindi tendenzialmente inessenziale rispetto al resto delle collettività stanziali), bensì una cellula di fondazione di comunità permanenti
Per capire di chi, e cosa, si stia parlando, bisogna sempre e comunque comprendere su quali e quanti uomini (nonché donne, beninteso) un tale ragionamento si sorregga. La dimensione numerica, ossia demografica, ha storicamente la sua importanza. L’ebraismo, nei fatti, non è stato solo un insediamento diasporico (e quindi percepito, perlopiù erroneamente, come nomade, transitorio, interlocutorio, quindi tendenzialmente inessenziale rispetto al resto delle collettività stanziali), bensì una cellula di fondazione di comunità permanenti. Quest’ultimo elemento, a conti fatti, è quello che invece fa premio su tutto il resto. Cerchiamo di capirci, su un tale passaggio, che altrimenti potrebbe rimanere in sé contraddittorio: ciò che fonda i gruppi umani, quelli che poi si autodefiniscono, nel corso del tempo, come «nazioni», non è quanto sussiste da lunghissimo tempo ma- piuttosto – ciò che nella storia di essi medesimi, si è sovrapposto e integrato nel trascorrere del tempo. Il calco dell’ebraismo diasporico conta moltissimo, da questo punto di vista. Sembra un paradosso ma non è così: per capire l’essere stanziale di ogni realtà (il «popolo» come una sorta di comunità primigenia, che si pensa come eterna nonché immodificabile, tale poiché radicatasi per sempre su un lembo di territorio), bisogna quindi indagare sui processi immigratori. L’ebraismo della diaspora, nelle sue infinite lacerazioni storiche, è la quintessenza di una tale condizione. Migrare per non scomparire, in altre parole, è non solo un movente che si rifà alla sopravvivenza di sé stessi, quindi del proprio gruppo familiare, bensì del gruppo comunitario inteso come popolo a sé.
Tutto ciò, dal lontano passato ad oggi, come si riflette nei fatti? I dati non sono per nulla certi, non almeno una volta per sempre. Tuttavia offrono una linea di interpretazione, ovvero un trend sufficientemente chiaro. Veniamo quindi all’Italia, che è il vero oggetto di queste righe a venire. Se ci riferiamo all’arco di tempo che va dal primo secolo dell’era volgare fino al XII, si intende che la consistenza dell’insediamento ebraico sia intuitiva nonché ipotetica. I calcoli di Sergio Della Pergola, colui che ha meglio definito la sua evoluzione, ci segnalano la corposa presenza che va dal Cento al Duecento dell’era volgare, dove in plausibilità gli ebrei peninsulari erano circa 60mila, rispetto ad un Impero romano ancora potente ma già demograficamente in via di declino (la popolazione italiana dell’epoca ammontava complessivamente a 8 milioni e mezzo di soggetti). Un aspetto da sottolineare era che le linee di confine, al tempo, non corrispondevano con quelle presenti. La stressa nozione di appartenenza territoriale (ossia, circoscritta ad un ambito non solo territoriale – quindi geografico – ma anche definito sul piano sovrano e quindi amministrativo), era ben lontana dall’aderire a quella del tempo corrente. Un tale insediamento è già nettamente declinante due secoli dopo quando, dopo il 450 dell’era volgare, si verifica più che un dimezzamento, per poi raggiungere la soglia più bassa, quella al di sotto dei quindicimila elementi, tra il 600 (6.200mila italiani) e l’800 (4.200mila). Il trend, da quel momento, avrebbe tuttavia conosciuto una lenta e faticosa ripresa, superando di nuovo la soglia limite dei trentamila dopo il 1200 (8 milioni e mezzo di abitanti della penisola). Le espulsioni dalla penisola iberica, e la dispersione mediterranea, avrebbero quindi concorso a portare a quasi un raddoppio numerico intorno al XVI secolo (9 milioni di italiani), seguito poi da un nuovo netto declino dopo il Concilio di Trento (1545-1563) fino alla crescita demografica dell’Ottocento.
Le stime di massa indicano, per l’avvio dell’era volgare, la presenza di 45mila ebrei su una popolazione peninsulare di 7 milioni di individui e un insediamento ebraico mondiale di 4 milioni e 200mila soggetti. Nel 700, quando si tocca il numero più basso (15mila) la stessa antropizzazione italiana ha subito un secco decremento, passando a 4 milioni di individui (gli ebrei ne costituiscono il 3,8%), nel mentre la presenza ebraica mondiale va verso i suoi minimi storici (700mila individui complessivi). Gli andamenti nei secoli successivi si riveleranno altalenanti, anche e soprattutto in rapporto alle macrovicende politiche (espansione araba, progressivo migrazione verso l’Europa settentrionale, consolidamento sefardita e poi sua successiva distruzione nella penisola iberica, trasferimento verso l’Est europeo). Nel corso del 1800 la presenza ebraica nazionale transita da 34.300 a 43.100, mentre la popolazione nazionale cresce dai 18 milioni ai quasi 34 milioni. È significativo il fatto che il XIX secolo sia l’arco di tempo in cui il numero di ebrei presenti nel mondo quadruplica, passando da 2 milioni e mezzo a più di 10 milioni. Si tratta dell’incremento storicamente più significativo, mai eguagliato nel passato, come anche nel tempo corrente. Non è solo il risultato di processi di crescente integrazione ma il riflesso e il riversamento, nello stesso campo ebraico, di fenomeni più generali di trasformazione che interessano l’ecumene antropica nel suo insieme, tra i quali i molteplici effetti dei processi di industrializzazione, la trasformazione delle campagne e degli insediamenti rurali, l’incremento – sia pure molto lento – dell’aspettativa di durata della vita così come il decremento della mortalità alla nascita, la definitiva colonizzazione europea delle Americhe (a partire dagli Stati Uniti), la progressiva integrazione dell’ebraismo europeo nella vita civile, sociale e politica dei rispettivi paesi di appartenenza. Va da sé che tutte queste variabili, qualora siano singolarmente considerate, non spieghino nulla. Nei processi socio-demografici non c’è mai un solo fattore decisivo bensì la somma, e il reciproco influenzarsi, di elementi diversi, tra i più disparati, quindi solo in parte prevedibili e computabili. Vale per i popoli del mondo, conta per l’ebraismo in quanto tale. Quindi, è decisivo anche per le dinamiche della presenza ebraica in Italia.
Il trend ascensionale in Italia continuerà – pertanto – fino al 1938 (45.700 ebrei su una popolazione di oltre 43 milioni di individui e una presenza di 16 milioni e mezzo di ebrei sull’intero pianeta). Nel 1945, dopo gli effetti devastanti le leggi razziste e la Shoah, se nel mondo vivevano 11 milioni di ebrei, in Italia ne erano rimasti circa ventottomila (su oltre 45 milioni di connazionali). La ripresa demografica sarà poi molto lenta e incerta, resa peraltro più corposa dall’arrivo di parte delle comunità sefardite espulse, ovvero fuggite, dai paesi arabi (come nel caso assai noto della Libia), con 31.200 soggetti al 1990 e l’incerta cifra di 30mila elementi negli anni a noi più prossimi. Sul piano numerico, ci fermiamo a questi riscontri, posto che essi servono soprattutto a darci l’idea di una dimensione di grandezza, prima ancora che un computo preciso. Peraltro, e non da oggi, anche se l’ebraismo italiano si rifà ad osservanze cosiddette «tradizionaliste», che incorporano l’interpretazione halachica, non c’è assoluto e definitivo consenso sul «chi è ebreo». Anche se ognuna delle potenziali parti chiamate in causa, dichiarerà a priori l’inattendibilità dell’eventuale controparte. In una sorta di gioco di neutralizzazione reciproca.
La peculiarità propria all’Italia è tuttavia la presenza continuativa di una comunità ebraica autoctona in almeno ventidue secoli di storia peninsulare. Anche se le diverse migrazioni interne, motivate nel corso del tempo da ragioni politiche, da persecuzioni, da processi di redistribuzione interregionale delle popolazioni, da percorsi economici, fa sì che solo Roma possa vantare un insediamento pressoché ininterrotto. A volte corposo, in altri momenti più circoscritto. Peraltro, quel che si può affermare con un buon margine di sicurezza è che a lungo fu il Mezzogiorno d’Italia a costituire il territorio elettivo di tale presenza. Se non altro per la sua maggiore proiezione verso il Mediterraneo, cosa che facilitava le attività di commercio e scambio verso il sud e l’est marittimo. La cessazione definitiva della sovranità ebraica nella Giudea, nella prima metà del II secolo, innescò evidentemente effetti di lungo periodo e di ampia scala anche sul versante socio-demografico, generando concretamente un progressivo declino numerico degli insediamenti autoctoni. L’arrivo di prigionieri ebrei in Italia, a seguito delle truppe romane, costituì comunque, almeno per un certo lasso di tempo, una sorta di elemento di riequilibrio nella presenza peninsulare, mantenendola vivace. Ma non in quella mediterranea, che andava invece restringendosi.
Tra il declino dell’Impero romano e l’avvio dell’età medievale la traiettoria ebraica si inserisce all’interno di un più generale ridimensionamento della popolazione peninsulare. È il caso, a tale riguardo, di parlare di vera e propria decadenza, determinata dal lungo, laborioso e sofferto trapasso verso diversi assetti, non solo politici ed amministrativi ma anche di ordine civile, economico e sociale, per l’intero territorio nazionale. Gli impatti di lungo periodo sulla popolazione si trasferirono anche sulla componente ebraica, con una plausibile denatalizzazione ma anche con possibili processi di assimilazione che si accompagnavano, nel qual caso, alla cristianizzazione del Paese e al sorgere di interdizioni antiebraiche di varia natura. Ovviamente non si hanno serie statistiche certe ma solo deduzioni di massima. Tuttavia, i demografi reputano i secoli VII-VIII come il punto di minimo, assestando sui 15mila soggetti l’effettiva presenza giudaica in Italia.
A parziale riequilibrio di una tale tendenza intervenne tuttavia l’espansione araba verso Occidente, che nel tempo portò con sé la migrazione di ebrei verso il Continente e, quindi, nei riguardi della stessa ’Italia, così come la genesi e lo sviluppo del centro sefardita iberico, destinato a sostituirsi, fino al XVI secolo, ai trascorsi cuori pulsanti mediorientali. La conquista arabo-musulmana della Sicilia, durante il IX secolo, e lo sviluppo di una fiorente comunità isolana, ne è di ciò testimonianza. Tanto più che ancora una volta un tale trend rafforzava la centralità del Mediterraneo nell’identificazione del ruolo attivo dell’ebraismo. Non di meno, a citare ancora una volta Sergio Della Pergola, «la maggiore densità demografica nel sud dell’Italia e l’incipiente tendenza nella popolazione a spostare il centro di gravità più a nord sono altresì conformi a un processo generale di popolamento del continente europeo che tendeva a espandersi dal sud mediterraneo dell’Europa verso nord-ovest». Quel che si può rilevare, dopo l’anno 1000, è che l’incremento di popolazione ebraica rispondesse soprattutto all’immigrazione nella Penisola di individui così come, eventualmente, di interi nuclei famigliari. Anche in questo caso si ha comunque a che fare con dati incerti e con ipotesi interpretative. Gli uni e le altre, tuttavia, ci offrono ancora una volta delle linee di indirizzo nella comprensione dei processi storici.
Così come, per comprendere gli sviluppi successivi, dal Basso e dal Tardo Medioevo fino al Seicento, è necessario considerare le frammentazioni politiche, istituzionali e amministrative che caratterizzano l’Italia nel suo insieme. Parlare, nel qual caso, di un «ebraismo italiano» ha senso solo se ci si confronta con le marcate diversità territoriali che dividono il territorio. Poiché il primo esiste solo ed esclusivamente in funzione dell’idea che ci si fa dell’unità nazionale prima che essa si compisse nel 1861. La stima dell’evoluzione della presenza residenziale nei raggruppamenti sovra-regionali indica comunque, in sé, specifiche sequenze. Se al Nord vale il transito, in mille anni, dal 2% del 1170 al 43% del 1995 (15% nel 1491; 57% nel 1600; 62% nel 1861; 55% nel 1938), per il Centro si va dal 5% al 56% (con i passaggi intermedi rispettivamente del 14%, del 42%, del 36% e del 43%, rispetto agli anni indice in oggetto), per il Sud dal 62% all’1% (20%, 1%, 2% e ancora 2%) mentre le isole, dopo una fase di espansione, si scostano dal 31% del 1170 al 51% del 1491, successivamente tracollando, con una presenza irrisoria.
Torniamo ancora una volta sui meta-trend generali, quelli della popolazione italiana, per comprendere l’evoluzione dell’insediamento ebraico. Il XIV secolo fu il tempo della peste, la «morte nera». Nei tre secoli successivi, fino al 1600, la demografia nazionale registra un incremento del 60/70%. Se l’evoluzione della componente ebraica non segue, in proporzione, la stessa traiettoria, tuttavia conosce anch’essa un significativo sviluppo. Contano in ciò anche fattori culturali: il cattolicesimo, sfidato dalll’eresia protestante, rivendica per sé una sorta di “purezza” che chiama in causa anche gli ebrei, in ciò intesi come fattore di distorsione, soprattutto per la rinnovata enfasi che invece la Riforma introduce in ambito cristiano rispetto al patrimonio vetero-testamentario. Non di meno, ed è il secondo passaggio, gli ebrei erano comunque “necessari”, svolgendo funzioni sociali, a partire dal prestito ad interesse (le «condotte»), che si riflettevano sulla vita delle stesse società cristiane. Il transito ineludibile, per la presenza regionale ebraica, si consuma quando le comunità ebraiche meridionali, tra il XV e il XVI secolo, iniziano a muoversi verso il nord del Paese. Per necessità come anche per scelta. I processi di espulsione, peraltro, si avviarono già con l’esclusione degli ebrei dall’allora Regno di Napoli nel 1291, fatto che ne indebolì la presenza in Campania e Puglia. Tutto ciò si incontrò – quindi – con le immigrazioni, nel Nord d’Italia, di ebrei di origine provenzale e germanica. Durante il 1400, ancora prima dell’espulsione dei giudei, dei «marrani» e dei «moriscos» dalla penisola iberica, la stabilizzazione dei nuovi insediamenti peninsulari vedeva già una prevalenza (basata sull’onomastica ebraica, attraverso la quale cercare di ricostruire traiettorie e percorsi collettivi) dei germano-provenzali nell’Italia nord-occidentale; dei germanofoni nell’Italia nord-orientale; dei profughi ispano-portoghesi nell’intera area peninsulare.
Anche per un tale effetto congiunto (immigrazione da Oltralpe) e spostamento dal sud del Paese, si ramificarono ex novo le comunità territoriali. Con un’ulteriore dispersione territoriale – ossia, con una minore concentrazione urbana – e con la prevalenza, a questo punto, delle micro-realtà localistiche, caratterizzate da un elevato tasso di dispersione dell’ebraismo italiano sul piano spaziale. Al medesimo tempo, a cavallo tra il Quattrocento e il Seicento, la predicazioni anti-ebraica soprattutto degli ordini francescani, fu un elemento che incise nelle conversioni al cattolicesimo, costituendo, «a lungo termine, un fattore di erosione demografica non marginale, anche se non facilmente quantificabile» (Della Pergola). Alla vigilia dell’espulsione dei sefarditi dalla penisola iberica, in Italia dovevano risiedere già circa 50mila ebrei (si calcola, a tale riguardo, di 6.300 famiglie), metà dei quali ancora in Sicilia, un terzo nelle regioni centro-settentrionali e la parte restante in quelle centrali. L’area padana, a quel punto, era già divenuta rilevante. Dopo il 1492, con l’estromissione di ebrei e musulmani dai territori iberici, e la conseguente disseminazione nel Mediterraneo, almeno 25mila dei primi arrivarono in Italia. Il medesimo fenomeno, sul piano delle migrazioni peninsulari, si manifestò con la fuga dalla Sicilia, quando si andò determinando una disseminazione, nell’intero Mediterraneo, della peculiare componente siculo-giudaica. Con la cacciata dal Regno di Napoli (1591), si determinò comunque la progressiva estinzione dell’ebraismo italiano nel Mezzogiorno.
Non a caso – è stato notato – la nascita, lo sviluppo e il consolidamento di congregazioni, poi definite di «rito sefardita», nelle regioni da Roma in su, rispondevano a tali dinamiche di lungo periodo. Un simile percorso, storicamente parlando, si interseca peraltro con la cristianizzazione dell’insediamento ebraico peninsulare, soprattutto attraverso le conversioni (quasi sempre forzate), che nel tentativo di prosciugare la presenza giudaica, in realtà concorsero ad una sorta di irrisolta, ancorché implicita, giudaizzazione del cattolicesimo. Fenomeno, quest’ultimo, assai poco riconosciuto ma senz’altro presente a tutt’oggi. Di ciò, ovvero del calco demografico, come ancora in quello di segno culturale, rimangono indici e indizi tanti diffusi quanto, per più aspetti, impercettibili. Come nel caso dei cognomi, sui quali si potrebbe ricostruire, non senza infinite difficoltà ed equivoci, le traiettorie non solo della minoranza ebraica bensì, soprattutto, della maggioranza cristiana nel suo rigenerarsi attraverso due millenni di storia peninsulare. Di tali cose, in fondo, testimonia anche il fatto che nel Sud d’Italia, negli ultimi due decenni del nostro nuovo secolo, si sia assistito ad un vero e proprio processo di «Jewish Renaissance», con il riformarsi di gruppi, comunità nonché con la richiesta di conversioni, a volte di gruppo.
Per terminare l’età trascorsa, quella che si chiude non con la scoperta delle Americhe bensì con il XVII secolo (una diacronia, quest’ultima, non solo di ordine temporale ma anche relazionale e cognitivo, che quindi attraversa l’intera storia del rapporto tra musulmani, ebrei e cristiani nel Mediterraneo, a volere anche proporre una diversa periodizzazione delle epoche storiche, a seconda di chi osserva il comune passato), ciò che nella storia dell’ebraismo italiano conta è l’istituzione dei «ghetti», avviatasi a Venezia (1516), proseguita a Roma (1555, chiusosi poi solo nel 1870) e diffusasi un po’ ovunque preesistessero comunità ebraiche. L’evento indice, a tale riguardo, è l’espulsione della componente giudaica dal Ducato di Milano nel 1597. Poiché in tale modo si definì una volta per tutte un regime segregazionista, basato sull’appartenenza territoriale intesa non come domicilio reale bensì come residenza coatta. Dalla quale derivavano, in ricaduta, molte limitazioni professionali, civili, sociali. La ghettizzazione in età moderna (che rimane tuttavia cosa ben diversa da ciò che accadde nell’arco di tempo tra il 1940 e il 1944, con l’occupazione nazista dell’Est europeo), incentivò le migrazioni ebraiche verso mete più ospitali, sia dal punto di vista civile che economico. Poiché ciò che più contava, in questi percorsi, non era solo il processo di esclusione relazionale ma anche l’inibizione all’autonomia economica. Le famiglie, in buona sostanza, rispondevano all’una come, non meno, all’altra.
Con la seconda metà del XVI secolo, la presenza ebraica in Italia diminuisce seccamente, determinando, per il gioco delle circostanze, una progressiva prevalenza dei residui insediamenti nelle regioni settentrionali. Un riscontro, quest’ultimo, che dura ancora ai giorni nostri, con l’eccezione di Roma. Nel 1600 l’insediamento ebraico ammontava, in tutta probabilità, a non più di 21mila elementi (di contro a 13 milioni di connazionali e a un milione e duecentomila ebrei presenti in tutto il mondo). Nella distribuzione geografica allora prevalente, cinque delle città più importanti avevano espulso le rispettive comunità (a Palermo, Napoli, Bologna, Genova e Milano), mentre tre avevano costituito i ghetti (Venezia, Roma e Firenze). Per le parti restanti delle società ebraiche, rimanevano alcune zone di insediamento “amichevole”, a partire dal Monferrato e dal Mantovano, dove interdizioni, segregazioni e limitazioni erano diffuse in misura di molto minore. Pero, in età moderna compiuta, a quel punto la presenza ebraica peninsulare era stata già completamente redistribuita. Se si eccede il caso peculiare di Roma, era l’Emilia Romagna (Modena, Ferrara, Reggio Emilia e molti centri di dimensioni inferiori) a fare la parte del leone.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
GRAZIE
Mi ricordo di lei al Parenti
Grazie anche per la sua presenza
Articolo interessantissimo
Ho seguito il percorso degli Ergas nel Mediterraneo e io sono tornata in Spagna