Cultura
Storia demografica e territoriale dell’ebraismo italiano (seconda parte)

Dal 1600 ad oggi: numeri, analisi, tendenze

Per tutto il 1600, in età moderna oramai consolidata, la chiusura nei ghetti della popolazioni ebraica italiana fu pressoché totale. Ossia, ne riguardò la grande maggioranza, con le poche eccezioni di alcuni nuclei familiari, o individui, che per particolari condizioni (di censo così come di collocazione geografica, in genere in luoghi che non si prestavano a forme di netta segregazione spaziale) ne furono invece temporaneamente esclusi. Peraltro, le ondate di peste che flagellarono la Penisola (tra il 1630-32 e il 1656-57) concorsero ad un ristagno della demografia nazionale. In un secolo, infatti, la popolazione complessiva rimase assestata sui 13 milioni e mezzo di individui, mentre la componente ebraica passò da circa 20.700 elementi a 26.800. (All’inizio dell’Ottocento, quindi già un paio di secoli dopo, i numeri sarebbero ancora variati, arrivando a 34.100 soggetti per poi, alla fine dello stesso secolo, raggiungere i 43.100). Nella composizione dell’ebraismo seicentesco nostrano senz’altro ebbero influenza alcune correnti immigratorie. A Venezia si stabilirono gruppi provenienti dall’Europa centro-orientale. Nell’Italia settentrionale, comprendendovi Firenze, Pisa, Livorno, Ferrara Ancona, la stessa Venezia, l’insediamento iberico, quindi ispano-portoghese, fu particolarmente significativo. Flussi si registrarono anche dall’Impero ottomano, all’epoca ancora in espansione territoriale e politica. È in questo arco di tempo, non a caso, che la comunità di Livorno assurse a centro propulsivo dell’ebraismo italiano, sia per la sua vocazione mediterranea sia per il costituire punto di approdo, così come di partenza, di traffici e commerci. In ciò assunse anche peculiari vesti culturali e liturgiche, destinate a resistere nel corso della storia italiana.

In generale, benché la ghettizzazione cristiana in età moderna abbia avuto poco o nulla a che spartire con quella brutalmente praticata dai nazisti durante l’occupazione dell’Europa orientale, rimane il fatto che per molti di coloro che ne dovevano subire i rigori costituisse un’esperienza pregiudizievole. La segregazione comportava molti costi, in termini non solo di mancata libertà personale ma anche sul piano delle relazioni sociali e, quindi, delle possibilità di corroborare economicamente e sostenere culturalmente qualsiasi progetto di autonomia. In generale, l’intero XVII secolo fu quindi segnato da una stagnazione profonda. Il Settecento fu invece accompagnato, per parte ebraica, dalla crescente contraddizione tra il permanere, in molti casi, dei vincoli territoriali, professionali e civili, quindi dalla politiche di esclusione, e la generale evoluzione demografica del resto della collettività peninsulare, dove invece si registrava un progressivo incremento di popolazione. Di fatto, come è stato fatto ripetutamente notare da demografi quali Massimo Livi Bacci e Sergio Della Pergola, al pari di altrui gruppi numericamente minoritari ma ancorati ad una funzione sociale rigida (come nel caso della nobiltà e di alcune élite, per le quali la scelta di fare figli era legata a calcoli relativi ad assetti patrimoniali ed ereditari, nonché da circostanze di status), anche per gli ebrei valse l’assunzione di una condotta demografica ispirata dalla necessità di non figliare in eccesso, dovendosi confrontare, in quest’ultimo caso, sia con il pauperismo dominante che con la limitazione nelle libertà di movimento. Le strategie demografiche che ne derivavano, infatti, erano ispirate ad una sorta di «razionalizzazione» (Della Pergola) delle scelte, basata sulla consapevolezza dell’impatto dei vincoli oggettivi, di sistema, sulle condotte di gruppo e sulle possibilità individuali presenti e a venire.

Non di meno, lo stesso istituto matrimoniale, presupposto per la formazione di nuove famiglie, era fortemente condizionato non solo dall’endogamia ma perlopiù dalla difficoltà di tradurla in concreta nuzialità, laddove i soggetti cadetti erano limitati ad un numero perlopiù ristretto. Anche l’attività di sensali svolte dalle confraternite comunitarie, poté ovviare fino ad un certo punto ad un tale stato di cose. L’eccezione era costituita da quei centri urbani (Livorno, Ancona, Mantova) dove la concentrazione numerica delle famiglie era tale da arrivare a costituire un decimo della popolazione locale. Per l’appunto, era tuttavia un’eccezione. L’insieme di queste considerazioni doveva poi incontrarsi con l’impronta della tradizione religiosa e con il dibattito che ad essa si accompagnava – a volte in forma pubblica, più spesso nelle molteplici comunicazioni private – sull’evoluzione degli istituti comunitari, a partire dalla stessa funzione della famiglia. Il rispetto della tradizione, con una minore propensione a fare figli, d’altro canto contribuì, a partire soprattutto dalla seconda metà del Seicento, a diminuire il tasso di mortalità ebraica. Benché ciò venisse controbilanciato, per così dire, dagli effetti negativi della «ristretta base genetica di cui si alimentavano le comunità del ghetto, in un regime di endogamia religiosa pressoché totale e di frequenti matrimoni consanguinei» (Della Pergola). Sul lungo periodo, infatti, una tale politica sociale si traduceva in un impoverimento dei tratti biofisici della popolazione ebraica nel suo insieme, ossia in una maggiore debolezza del gruppo in quanto tale dinanzi ai fattori di morbilità.

Tra il XVII e il XVIII la contrazione della natalità in campo ebraico andò evolvendo, in ciò anticipando quanto sarebbe successo, su più larga scala, nel resto della società italiana. Una tale condotta, unita al decremento della mortalità – e quindi anche da un innalzamento dell’età media come dell’aspettativa di durata della vita – comportò nel tempo il ridimensionamento della presenza di giovani adulti e di bambini. Che era tanto più limitata laddove le conversione al cattolicesimo riguardavano soprattutto queste specifiche coorti d’età.

Sta di fatto che ciò che è stato poi conosciuto come «transizione demografica» sia stato anticipato in campo ebraico di almeno cento anni rispetto al resto della società peninsulare. Così recita l’Enciclopedia Treccani nel merito: «fenomeno consistente in una diminuzione della mortalità seguita da una diminuzione della natalità e da un aumento dell’incremento naturale (differenza tra natalità e mortalità); una volta raggiunto il massimo, l’incremento naturale tende a comprimersi, perché la diminuzione della natalità avviene più velocemente di quella della mortalità, fino al ripristino di una situazione di equilibrio analoga a quella originaria. Il processo di transizione demografica è iniziato nei paesi europei o di origine europea verso la fine del XVIII secolo e si è praticamente concluso nella seconda metà del Novecento; nei paesi in via di sviluppo è avvenuto in ritardo, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, ed è tuttora in corso».

In altre parole, anche in una vicenda così importante – l’andamento demografico collettivo misurato nel corso di ampi intervalli cronologici, come tale destinato a mutare il volto di intere nazioni – le minoranze (culturali, religiose, civili, linguistiche e sociali) hanno precorso condotte destinate successivamente a diventare comuni. Non è una questione di virtù intrinseche e neanche di consapevolezza bensì di capacità, condivisa dal gruppo di appartenenza, di adattarsi a fattori oggettivi, extrapersonali, che come tali rivelano un’incidenza di lungo periodo. Nel caso ebraico la segregazione spaziale, i vincoli alla mobilità sociale (ossia professionale e di status), le ridotte capacità di relazionarsi tra omologhi laddove il numero di essi è limitato, il bisogno di interagire comunque con la società non ebraica, le politiche nuziali e la matrimonialità come anche l’elevato grado di alfabetizzazione, una diffusa attitudine al pensiero critico e problematizzante – quindi all’astrazione delle proprie esperienze quotidiane – ebbero la loro rilevanza nel determinarne gli indirizzi di lungo periodo. Altrimenti, tutto ciò si sarebbe esaurito nel tempo, tra assimilazioni e denatalità, egemonia del gruppo dominante (i cristiani) e passività di quello dominato (la minoranza).

Anche da un tale background deriva in successione lo scenario innovativo dell’Ottocento. Tale poiché ben diverso dal passato, in quanto prodotto del cumularsi di fattori precedenti, non solo sommatisi nello scorrere di quasi un paio di secoli ma interagenti. Due elementi traspaiono: «nei primi decenni dell’Ottocento, gli ebrei vivevano in media 10-15 anni più a lungo [dei loro connazionali], soprattutto grazie ad una minore mortalità infantile, ma anche come riflesso di una differente tipologia di svariate altre cause di malattia e morte. Gli ebrei anticipavano di circa 80 anni la popolazione totale italiana nel raggiungere una longevità media di 45 anni, e la precedevano ancora di 10-20 anni nel raggiungere una longevità media di 60-70 anni. Un definitivo riassorbimento di un tale differenziale […] doveva verificarsi solamente alcuni decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale» (Della Pergola). Il secondo aspetto è quello della dimensione (dei componenti) del nucleo famigliare. Le sequenze statistiche, meglio note dal 1861 in poi, indicano che se nel XVII e XVIII secolo le famiglie ebraiche erano in genere composte da un numero minore di soggetti rispetto a quelle cristiane, con il XIX secolo si consuma una sorta di trapasso. Infatti,  a verificare i dati disponibili, il rapporto era di 5,3 (ebrei) a 3,9 individui (non ebrei) per ogni nucleo domestico. Un tale dato non va assunto in sé come un indice assoluto. Poiché, per comprendere la complessità del discorso, se nelle famiglie ebraiche più modeste la composizione era di 3,59 membri, in quelle più ricche raggiungeva anche il 7,58 (i dati, si intende, sono del tutto parziali, riportando sempre e comunque le fonti disponibili; in questo caso, ancora una volta, quelle relative a Firenze). Il lettore deve essere avvertito del fatto che non sussistono riscontri incontrovertibili. Semmai, si danno indirizzi di massima, ossia di tendenza dominante.

La stessa nozione di «famiglia» poteva mutare nella sua interna costituzione nel corso del tempo, essendo – allora come oggi – legata soprattutto alla collocazione sociale, così come alla sua concezione culturale prevalente: nel caso del conteggio dei nuclei maggiormente benestanti, si poteva comprendere anche la presenza, continuativa e assidua, di parenti in linea retta, così come di elementi aggiuntisi nel tempo (ad esempio, eventuali domestici di antica data e così via, quindi non necessariamente legati da un vincolo di filiazione biologica); mentre per le famiglie modeste, valevano gli indici numerici derivanti dalla discendenza biologica medesima e null’altro. La qual cosa, in questo come in altri casi, ci dice come le statistiche siano spesso contraddittorie, ovvero legate a valutazioni, computazioni, inferenze ed interpretazioni del momento. Poiché tra le molte cose che entrano in gioco c’è, ad esempio, la maggiore capacità di regolare, in base anche a calcoli di interesse patrimoniale, la numerosità della prole, con il controllo della natalità. E non solo. Indici imprescindibili, in questo come in altri casi, erano (e rimangono) lo status sociale, la condizione economica e finanziaria, il livello d’alfabetizzazione e d’istruzione (poi di scolarizzazione) nonché l’età di contrazione del vincolo matrimoniale.  Più tali indici risultano elevati (ossia, più avanzati sono) minore è, in genere,  la propensione a fare figli. Non è una “legge della natura” ma il prodotto del comportamento sociale nel tempo, perlopiù in ambienti urbani.

Peraltro, nel XIX secolo, con il diffondersi in Italia delle emancipazioni giuridiche (il superamento delle interdizioni legali nei confronti delle minoranze nazionali, che si estese dal nord-est verso l’ovest, per poi, infine, interessare nel 1870 i territori dell’ex Stato pontificio), alla decadenza delle segregazioni istituzionali (i ghetti) si accompagnarono condotte demografiche progressivamente differenti. Se i tassi di mortalità andavano ancora diminuendo, si generò un modesto incremento delle nascite, senza tuttavia registrare un’esplosione della natalità. In altre parole, il numero di ebrei italiani nati nel mentre era inferiore a quello, altrimenti in espansione, dei non ebrei. Al medesimo tempo, va registrato il fatto che l’imponente emigrazione che ebbe corso, dal 1881 in poi, dall’Europa dell’Est non investì la Penisola italiana come invece avvenne per altre parti del Continente, come nel caso degli Imperi centrali (il guglielmino e l’austro-ungarico). L’Italia, infatti, più che costituire terra di approdo era semmai paese di emigrazione.

Sul versante ebraico, tutto ciò generò un processo di separazione delle comunità italiane da quelle di altre diaspore, soprattutto in Europa come negli Stati Uniti. Gli innesti infatti verificatisi in queste ultime, non interessarono invece la Penisola. La stessa evoluzione demografica ne fu quindi interessata: se nel 1861 gli ebrei erano 30mila, nel 1938 non superavano la cifra di 45mila. Qualcosa di completamente diverso da quanto invece avveniva in altri luoghi. Poiché, nell’arco di tempo considerato, a fronte di un incremento della componente ebraica che non andò mai oltre il 16%, nel caso dell’Europa occidentale si giunse al raddoppio e nelle Americhe ad un incremento del 202%. Quindi, «alla fine dell’Ottocento la transizione demografica degli ebrei in Italia era virtualmente compiuta, con il conseguimento di un accrescimento naturale praticamente nullo, in anticipo di molti decenni rispetto alla popolazione italiana totale» (Della Pergola).

E non fu quindi in caso se nel Novecento, assecondando un tale trend, l’evoluzione dell’insediamento ebraico italiano conoscesse un risultato negativo, con un chiaro decremento della sua popolazione. Nonché, un suo progressivo invecchiamento. Qualcosa che giunge fino ai giorni nostri, per capirci. E che venne influenzando, nelle sue dinamiche, la stessa natura identitaria, culturale e religiosa, consegnandola a quella che, ad oggi, è conosciuto come «tradizionalismo», un insieme di pratiche (e credenze) fondate sull’orto-prassi rabbinica quando il suo vero fuoco è – soprattutto – la preservazione di un nucleo socio-demografico altrimenti a rischio di scomparsa. Incidevano in ciò, soprattutto per ciò che concerne il passato recente, anche quei processi di mobilità sociale ascendente che hanno interessato un numero crescente di ebrei italiani, destinati ad essere inglobati nei ruoli apicali dello Stato unitario. Ma non era solo una questione legata ai singoli individui. Nel suo effetto di trascinamento, infatti, un tale andamento produceva la mobilità territoriale di molte famiglie verso le città di maggiore importanza. Poiché in esse si potevano riscontrare crescenti possibilità di promozione economica (e non solo). L’Italia era in movimento, l’ebraismo italiano stava al passo. Anche da ciò, quindi, derivò la crescente urbanizzazione ebraica, rivolta verso i capoluoghi regionali, dove maggiore era la concentrazione di opportunità. Tanto per capirci, una tale transizione collettiva comportò che il numero di comunità presenti sul territorio nazionale si contraesse drasticamente, dalle 87 riconosciute nel 1840 alle 31 del 1931. Una trasformazione pressoché epocale.

Tra il XIX e il XX secolo, se le comunità di Roma e Milano, grazie anche ad innesti esterni, continuarono ad essere due poli strategici nella vita ebraica, tutto il resto, invece, mutò. Il declino numerico si verificò, entro il 1850, ad Ancona, Casale Monferrato e Ferrara (fino ad allora centri pulsanti dell’ebraismo peninsulare); negli anni successivi, e fino al 1871, in centri come Livorno, Modena, Verona, Mantova, Alessandria, per poi interessare, entro l’inizio del XX secolo, Vercelli, Padova, Gorizia, Pisa, Parma; proseguendo, fino al 1938, con Merano, Bologna, Torino, Napoli, Genova, Trieste e Firenze. Solo per citare i casi più noti. In quanto l’Italia, dall’Unificazione in poi, è la terra di un continuo rimescolamento (e sparigliamento) delle carte nella composizione regionale. Gli ebrei italiani seguono un tale indirizzo collettivo, sia pure a modo loro.

Per più aspetti, come già si è detto, addirittura lo anticipano. «La significativa identità di segno che esiste tra i movimenti migratori interregionali degli ebrei e della popolazione generale italiana indica chiaramente essersi trattato di un tardivo processo di convergenze e di adeguamento della presenza ebraica alle nuove, più ampie e complesse strutture socioeconomiche dell’Italia postunitaria» (Della Pergola). In altre parole ancora, almeno due terzi dei flussi migratori ebraici interni al paese, tra il 1900 e il 1960, seguirono gli andamenti di quelli del resto della popolazione nazionale. In ciò secondando la più generale evoluzione del Paese, che si stava non solo industrializzando ma definitivamente urbanizzando. Ci si recava, per risiedervi stabilmente, in un centro urbano, soprattutto se di grandi dimensioni, poiché esso, in quanto cuore propulsore delle trasformazioni, offriva maggiori occasioni di mobilità economica e sociale. La differenza premiante, in questo caso, non era necessariamente dettata dalla preesistenza di una consolidata presenza ebraica ma perlopiù dalle opportunità che derivavano per il proprio accrescimento di status, individuale così come famigliare. Una condotta, quest’ultima, tipica dei percorsi di modernizzazione, che tendono a rompere progressivamente i vecchi legami di gruppo, per sostituire ad essi nuove identità individuali, maggiormente ibridate alle diverse identità professionali, sociali, culturali e relazionali. Comunque, nel loro insieme, trasversali. Dove s”si è anche ebrei” ma non solo ciò.

In un tale quadro, la rilevanza della comunità di Roma, ad oggi più che mai incontrovertibile, a partire dal dato numerico delle presenze ebraiche, più che registrare una centralità di ordine socio-economico, nonché per il suo essere un insediamento di millenaria presenza, derivava dal suo costituire parte della nuova capitale nazionale. È stato infatti ripetutamente registrato che «i processi demografici interni alla comunità romana si evolvevano in tempi più lenti rispetto alle comunità italiane e in modo più conforme alla popolazione italiana nel suo insieme. La risultante profondamente paradossale di tale confronto è che chi aveva voluto più duramente emarginare gli ebrei romani rispetto alla maggioranza della popolazione […] aveva finito col farne da un punto di vista demografico un gruppo relativamente più simile alla maggioranza cattolica del paese» (ancora Della Pergola).  Poiché esso, incontrandosi con la secolarizzazione culturale del resto della popolazione ebraica peninsulare, garantiva ai suoi membri una relativa compattezza, non tanto religiosa quanto civile. Un aspetto, quest’ultimo, che ai pari di molti altri, non si presta ad una qualsivoglia semplificazione. Posto che l’intero ebraismo italiano, dal 1861 al 1938, conobbe un processo di emancipazione e di partecipazione alla vita civile quale mai si era registrato nei secoli antecedenti. Non solo nella nostra Penisola. Tuttavia  confrontandosi, del pari, con similari accadimento in campo cattolico.

A interrompere questo complesso mutamento, che faceva interagire gli ebrei con i non ebrei, ovvero italiani con altri italiani, intervennero prima le leggi del ’38 e poi la deportazione nazifascista, dal 1943 in poi. Con una secca riduzione della popolazione ebraica da circa 45mila a 28mila. Nonché, con conseguenze sociali e demografiche destinate a durare per decenni. L’Italia, dal 1945, non costituì terra di immigrazione. Fu attraversata da cospicui flussi di emigranti, provenienti perlopiù dall’Europa centro-orientale, diretti verso il nascente Stato d’Israele e le Americhe. Semmai i flussi in ingresso si ebbero con l’espulsione o l’abbandono delle comunità ebraiche sefardite e orientali dall’Egitto, dalla Libia e poi dall’Iran. La parziale compensazione quantitativa che si venne determinando in tale modo, non compensò l’emorragia che nel mentre si era determinata nell’ebraismo autoctono. In quanto si stava assistendo ad un’altra transizione demografica, questa volta tutta interna allo stesso ebraismo peninsulare, dove andava assottigliandosi la componente che più, e meglio, si era invece impegnata, durante le trascorse generazioni, nell’assolvimento di una funzione di “nazionalizzazione degli ebrei”, ovvero di inserimento dei medesimi dentro i quadri dirigenti del Paese. Non come corporazione o gruppo di pressione (due elementi completamente inesistenti, soprattutto nel caso italiano), bensì come parte di quel più generale processo di costruzione di un’identità nazionale altrimenti difettante. Per tutti, non solo in alcuni.

Anche per un tale quadro andavano affermandosi elementi compositi, ma tra di loro interagenti nel tempo, come l’innalzamento dell’età media, una secolarizzazione incompiuta, il ritorno progressivo di particolarismi identitari così come la concentrazione ebraica tra Milano e Roma (tre quarti dell’intera popolazione nazionale), a fronte del progressivo deperimento delle comunità di medie e piccole dimensioni e le crescenti difficoltà di legittimazione delle élite laiche in molte realtà locali. I due grandi centri metropolitani italiani, il primo in particolare, a tutt’oggi risultano maggiormente attrattivi per quanti intendano cercare occasioni di promozione personale. Essendo, sia pure per diverse ragioni, snodi ineludibili del circuito delle «città globali», come tali inserite nei processi di globalizzazione mesoregionale e continentale tipici delle economie digitali.

Rimangono a tutt’oggi diverse questioni aperte, di cui la demografia è, per più aspetti, una sorta di ritratto di tendenza dell’Italia. La prima di esse è «la crescente erosione sul piano della riproduzione demografica e culturale». Ovvero, bassi tassi di natalità, la volubilità territoriale dei giovani (abituati sempre più spesso a muoversi negli spazi intercontinentali, senza per questo necessariamente stabilizzarsi in un dato luogo), un rilevante invecchiamento delle comunità, la frequenza di matrimoni misti (una questione che è stata quasi sempre affrontata in termini di mero rigetto oppure di cooptazione acritica), l’incapacità, nel XXI secolo, di dare risposte convincenti ai processi di assimilazione evitando di ricorrere ad un vuoto fondamentalismo delle regole e delle appartenenze precostituite. Così come anche un più generale, a tratti impalpabile ma non per questo incomprensibile, vuoto di elaborazione culturale. Se non esiste una via italiana all’ebraismo non si può neanche pensare che, posti questi trend di lungo periodo, l’ebraismo italiano possa continuare ad esistere nelle sue pur incontrovertibili peculiarità storiche.

La qual cosa, a conti fatti, posti gli oltre due millenni di sua esistenza, non è tanto il problema della sopravvivenza di una minoranza consegnata ad una sorta di riserva indiana, bensì la domanda principe su quale sia il vero destino dell’essere italiani nell’età dell’indistinzione, dell’uniformazione, dell’indifferenziazione, dell’eterna intercambiabilità. Tema che chiama in causa tutti e non, di certo, in misura marginale. Poiché si è quel che si è divenuti nel frattempo e non quello che si pensa di potere essere rimasti, a prescindere dai grandi mutamenti del tempo.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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