Storia con ricetta di un pesce tanto umile quanto saporito che compare sulle tavole ebraiche dai tempi antichi e ha fatto la storia economica del Nord Europa
A guardarle, con quell’aria così dimessa, non si direbbe. Eppure intorno alle aringhe si sono combattute guerre, formate coalizioni e create divisioni. Sono pesci poveri, ma non per questo insignificanti. Non lo sono per il palato ma neppure per l’economia. Secondo quanto scriveva una ventina di anni fa RW Apple Jr su un articolo uscito sul New York Times, le aringhe sarebbero state all’origine niente meno che della Lega Anseatica, quell’alleanza che dal tardo Medio Evo all’era moderna ha monopolizzato i commerci su gran parte dell’Europa del Nord e del Mar Baltico. Secondo l’esperto di enogastronomia del giornale statunitense, sarebbe stato proprio il bisogno di sale per conservare il proprio pescato a spingere gli olandesi ad accordarsi con i tedeschi. E tra tutti, l’aringa era il pesce con il più alto potenziale di pesca unito al bisogno di miscela salina.
Alla voce Herring della sua Encyclopedia of Jewish Food, Gill Marks ricorda come le aringhe siano tra le poche specie in grado di sopravvivere nelle acque ad alto tasso salino del Mar Baltico e al tempo stesso come la loro abitudine di viaggiare in banchi immensi e di deporre le uova in prossimità della superficie ne faccia da millenni una facile preda per i pescatori. Unico limite, trasformato brillantemente in risorsa, la grassezza delle loro carni. Super salutari, trattandosi perlopiù di acidi grassi, i lipidi contenuti in questi pesci azzurri ne rendono le carni facilmente deperibili. Come è noto, il grasso ha infatti il brutto vizio di irrancidire in fretta se conservato male.
Per un certo periodo della storia umana, si può immaginare che ad approfittare dei benefici di questo pesce fossero solo le popolazioni costiere del Nord, in grado di procurarselo in gran quantità in primavera, la stagione della deposizione delle uova, e di consumarlo quasi immediatamente. Una pratica questa che risale ai tempi più remoti. Sempre Apple ricordava che resti di aringa erano stati ritrovati in sepolture scandinave risalenti al Neolitico. Quando si sia iniziato a conservarle non si sa, ma da quanto riporta Miriam Borden su The Canadian Jewish News , già nel X secolo i mercanti islandesi esportavano pesce essiccato e salato in Europa. Facendo un salto di mezzo millennio, nel XV secolo gli olandesi avrebbero iniziato secondo Marks a conservare le aringhe appena pescate ed eviscerate tra strati di sale, e mentre Apple si spinge a dire che la potenza marittima britannica e olandese era stata costruita sul commercio delle aringhe, l’autore dell’Encyclopedia ricorda come nel XVI secolo l’appetito europeo per le aringhe aveva portato a ben tre guerre tra olandesi e inglesi. Alla fine, i britannici si erano aggiudicati l’esclusiva della pesca al largo delle proprie coste, costringendo gli olandesi ad andare a cercare altrove le proprie aringhe.
Ai tempi, gli ebrei erano già da tempo entrati in scena. Lo storico del cibo John Cooper ricorda che nel Quattrocento la dieta tipica degli ebrei austriaci era composta da latte, burro, pane nero, uova, formaggio, zuppa, verdure, crauti, riso e, appunto aringhe. Si trattava di abitudini alimentari condivise da gran parte delle popolazioni povere di tutta Europa, ma che nel caso degli ebrei erano diventate una questione identitaria. La cultura yiddish è infarcita di riferimenti al consumo di questo umile pesce, che compare nelle barzellette (si veda la bella raccolta Un’aringa in paradiso di Elena Loewenthal), così come nei proverbi (“Dove non c’è uomo degno, anche un’aringa è un pesce”), nelle canzoni (in Lomir ale zingn si dice: “Per i ricchi, il dogim è un luccio così fresco che ancora galleggia. Per noi – ohi, povera gente – il dogim è una piccola aringa rovinata”) e nelle opere d’arte. Uno per tutti, Marc Chagall. Nel villaggio bielorusso di Vitebsk, suo padre Zachar trasportava barili di aringhe per conto di un commerciante e il pittore gli avrebbe reso omaggio proprio inserendo occasionalmente questi pesci nei propri lavori. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, portandoci dall’Est Europa all’America di inizio Novecento, ma quello che preme qui capire è perché un prodotto comunque diffuso in una fetta così ampia del mondo sia così spesso e con tanta enfasi associato alla cucina ebraica. Le ragioni sarebbero sostanzialmente legate al trasporto e allo scambio commerciale. Secondo Claudia Roden, sarebbero stati gli ebrei a occuparsi della diffusione nell’Europa dell’Est delle aringhe salate provenienti da Norvegia, Olanda e Inghilterra fino Polonia e Russia, prima sui treni, poi direttamente sui carretti trainati a mano nei mercati dei paesi.
Dalla seconda metà dell’Ottocento le aringhe sarebbero arrivate in America sempre grazie agli ebrei che vi emigravano dai Paesi dell’Europa Orientale. Sempre Miriam Borden cita un articolo pubblicato nel 1916 sul quotidiano yiddish di New York Der Tog e intitolato Herring Antisemitism. Partendo dalla notizia che i fornitori di aringhe ebrei di Lower Manhattan erano stati esclusi da un accordo commerciale tra mercanti non ebrei e il governo canadese, l’autore del pezzo ricordava come negli Stati Uniti il consumo di aringhe fosse appannaggio di ebrei, russi e polacchi e di come fossero da ringraziare gli ebrei se questo cibo era approdato in America. In particolare, sarebbero stati proprio gli importatori ebrei di aringhe ad aver salvato il commercio di aringhe a New York durante la prima guerra mondiale. Visto che il prezzo dei pesci in arrivo dalla Scozia e della Norvegia era salito del 30 per cento, gli abili commercianti avevano stabilito nuovi contatti con l’Alaska e la Nuova la Scozia, salvando le importazioni.
A tanta importanza della materia prima non poteva non accompagnarsi un’ampia letteratura gastronomica. E se da una parte l’allora direttore del Canadian Jewish Rewiew lamentava nel 1928 che i giovani ebrei stavano dimenticando le proprie origini tradendo le aringhe con volgari panini alla carne (quando non addirittura al prosciutto!), dall’altra i libri di cucina europei di inizio secolo proponevano ricette a base di questi pesci, sia freschi sia conservati. È la Roden a citare il gastronomo franco-polacco Édouard de Pomiane secondo il quale gli ebrei polacchi degli anni Venti mangiavano un’aringa al giorno. Stesso discorso per l’Inghilterra, dove il giornalista Chaim Bermant raccontava che presso gli ebrei per ogni giorno della settimana c’era un modo diverso di consumare lo stesso prodotto.
E a proposito di conservazione e di servizio, sono davvero tante le vie per gustare questi saporitissimi pesci azzurri. Tralasciando il fresco, i principali metodi di conservazione sono tre e impiegano rispettivamente il sale, il fumo e l’aceto. Per quanto oggi la salatura non avvenga più al momento della pesca ma solo una volta giunti in porto, questa resta comunque un passaggio imprescindibile. Ammollate e dissalate, le carni si presentano più gustose rispetto al fresco e sono pronte a essere ulteriormente trattate. Il metodo più diffuso è la marinatura in aceto, zucchero e, spesso, cipolle crude, le cosiddette aringhe alla Bismark, da arricchire eventualmente anche con panna acida.
L’acciuga Schmaltz è propriamente un’aringa grassa, contenente almeno il 18% di lipidi, che viene ricoperta con sale grosso, pressata da un peso e lasciata riposare fino a quattro giorni. Prima dell’uso va ammollata per un paio di giorni, cambiando l’acqua più volte per eliminare ogni residuo di sale. Ci sono poi le Majes, in olandese “fanciulla”, aringhe giovani generalmente sfilettate e conservate in salamoia. Tra le più vicine al prodotto fresco, sono pronte al consumo dopo un breve ammollo in acqua o, meglio, nel latte. Gli intenditori sembrano comunque preferire le varianti più mature, i Milch, pesci maschi adulti, sempre conservati in una salamoia che risulta però più cremosa.
Tradizionalmente, le aringhe venivano mangiate dalle popolazioni ebraiche con pane nero e patate bollite. Cibo quotidiano, non mancavano anche nelle occasioni di festa, finendo a volte persino con il comporre una versione speciale del gefilte fish. Marks ricorda che le aringhe in salamoia erano servite dagli ashkenaziti durante il kiddush del sabato accompagnate da biscotti all’uovo chiamati kichel. Piatto tradizionale di Hanukkah per gli Chasidim, le aringhe in salamoia compaiono anche nel Gehakte Herring, una preparazione fredda diffusa tra gli ebrei polacchi e lituani e nota presso russi e ucraini con il nome di Forshmak. Più semplicemente, le aringhe sfilettate, spellate e ammollate possono essere mangiate anche così come sono, condite con appena un filo di olio e una spruzzata di succo di limone.
Gehakte Herring
Ingredienti
2 aringhe in salamoia di medie dimensioni
1 cucchiaino di zucchero
2-3 uova
1 mela verde
2-3 fette di pane bianco
3-4 scalogni
1 cucchiaio di aceto
4 cucchiai di olio extravergine d’oliva
Ammollare il pane in acqua o latte, poi scolarlo, strizzarlo con le mani e sminuzzarlo. Sbucciare gli scalogni e tritarli. Sbucciare la mela e tagliarla a spicchi privandola del torsolo. Rassodare le uova in acqua inizialmente fredda per 8 minuti dall’ebollizione, raffreddarle in acqua fresca, poi sgusciarle e separare i tuorli dagli albumi.
Sfilettare le aringhe e metterle nel bicchiere di un tritatutto con gli spicchi di mela, gli albumi e il pane. Frullare per qualche istante per sminuzzare gli ingredienti, poi aggiungere l’olio e l’aceto e azionare ancora l’apparecchio fino a ottenere un composto omogeneo.
Trasferire la crema ottenuta in una ciotola, briciolarvi sopra il tuorlo d’uovo, cospargerla con lo scalogno e lasciarla raffreddare in frigo fino al momento di servirla, accompagnata a piacere da pane nero o da cracker integrali.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.