Viaggio intorno al tema della bellezza nella letteratura ebraica mitteleuropea
La bellezza, tema scelto quest’anno per la Giornata europea della cultura ebraica, attraversa come un filo rosso la letteratura novecentesca ebraica e di matrice ebraica. C’è una stagione, in particolare, una delle più alte e una di quelle in cui il contributo di autori ebrei è massiccio e decisivo, che aiuta a riflettere sulla bellezza colta nel suo momento massimo, che è anche quello in cui comincia impercettibilmente ma inesorabilmente a sfiorire. Si tratta della letteratura – ma anche di altre manifestazioni artistiche di cui non ci occuperemo qui, dalla pittura alla musica – di lingua tedesca e di area danubiana nei decenni a cavallo della disgregazione dell’impero asburgico. Se questa letteratura è diventata un mito – Il mito asburgico è d’altra parte il titolo di un’opera in cui Claudio Magris ha restituito il lascito di questa civiltà scomparsa – si deve anche alla centralità del tema del bello.
Perché la riflessione sul bello è centrale in autori come Schnitzler, Hofmannsthal, Werfel o Roth? In generale in questi e altri autori ebrei o di origine ebraica la bellezza rappresenta lo splendore di un istante destinato presto a svanire. Una delle immagini che la descrivono con più immediatezza è quella del fiore la cui bellezza è passeggera e presto appassisce. Il massimo splendore diventa così l’annuncio della decadenza, del declino irrevocabile, della senilità incipiente. Attraverso una serie di quadri incentrati sull’effimero gli scrittori mitteleuropei descrivono non solo la bellezza individuale che viene meno, per esempio attraverso il trapasso da una età all’altra della vita, ma anche il declino dell’impero multinazionale degli Asburgo di cui si rendono i cittadini fedeli per eccellenza. Ciò che colpisce è che l’immagine dell’impero austroungarico come un relitto di epoche ormai passate della storia sopravvissuto a se stesso come un rudere che un soffio di vento appena più forte del consueto può far rovinare al suolo in qualsiasi momento, questa immagine è diffusa già nelle opere precedenti la fine dell’impero al termine della prima guerra mondiale, e non solo in quelle successive. In questo caso unico il mito della decadenza, in altre parole, precede la decadenza politica. La letteratura e le arti precedono la storia. Non è insomma soltanto un mito retrospettivo, ma che si sviluppa in presa diretta. Non è solo nostalgia di ciò che non è più, ma anche nostalgia di ciò che non sarà più.
Un altro aspetto rilevante per capire la centralità della bellezza nella letteratura del tardo impero asburgico e in quella subito successiva è il porsi di questa letteratura fuori dal tempo storico, quello dell’attualità e della politica. I fautori del mito asburgico non fanno politica, non sono interessati alla politica e nella maggior parte dei casi ritengono arte e politica strade che conducono in direzioni diverse o addirittura opposte. Non manca chi rivendica la secondarietà della politica rispetto all’arte, intesa come ciò che più conta nella vita. Non sono estranei a questa percezione alcuni elementi strutturali, a cominciare dal forte conservatorismo della struttura burocratica dell’impero, che cerca di preservarsi grazie alla stabilità dei propri quadri. Inoltre ha un peso rilevante che tanti degli autori mitteleuropei siano ebrei, i quali hanno raggiunto la piena emancipazione soltanto da pochi anni e negli ambienti politici e militari continuano perlopiù a essere esclusi. Gli ebrei, tranne rari casi, di politica in Austria non si occupano. La palpabile assenza o addirittura il rifiuto dell’impegno politico aiuta a capire sia l’insuccesso sia il successo di questa letteratura in Italia. Insuccesso fino agli anni settanta del Novecento, quando prevale negli ambienti colti un’idea di arte e letteratura impegnata – di solito sotto il segno di socialismo e comunismo – per il cambiamento in meglio della società. Il successo arriva dopo la fine della stagione dell’attivismo, alla fine degli anni settanta e poi in modo marcato negli anni ottanta, allorché un crescente disincanto nei confronti della politica e dell’impegno in genere decreta l’affermazione di quegli editori come Adelphi che avevano precocemente investito sulla letteratura danubiana (Alberto Arbasino in un articolo proponeva scherzosamente di cambiare il nome dell’editore da Adelphi a Radetzky).
“Hugo von Hofmannsthal”, ha scritto Thomas Mann, “ha amato l’idea della morte assieme a quella della bellezza e della signorilità: fatto tipicamente austriaco”. Hofmannsthal, il giovane prodigio della Vienna fin-de siècle, nella Lettera di Lord Chandos riflette su bellezza, parola, linguaggio. Tutto ciò che esiste appare come “una sola, grande unità”, una coerente bellezza fatta di oggetti ciascuno dei quali può costituire una porta di ingresso nel tutto. Ma di fronte agli oggetti, anche quelli della quotidianità – “un annaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole, un cimitero desolato, uno storpio, una piccola casa di contadini” -, mancano le parole. La bellezza c’è, forse, soltanto fino a quando non si prova a descriverla; quando si cerca di farlo, come per incantesimo, svanisce, mutando l’oggetto in semplice, futile strumento. Le cose per Hofmannsthal sono mute. Gran parte del teatro dell’autore, di stampo neoclassico, consisterà in un consapevole tentativo di preservare la bellezza scattando di essa un’istantanea che astraendola dalla storia la salva dallo scorrere del tempo.
Ma è davvero possibile fermare la decadenza o si tratta di una illusione? Arthur Schnitzler prova a dare una risposta in bilico tra amore e morte immaginando l’ultima avventura di Casanova ormai alle soglie dell’età senile nel Ritorno di Casanova. Per altri scrittori la bellezza è l’attimo che passa e il cui significato è determinato dal ripensarlo e riviverlo negli anni e in tutta la vita seguente. In quanto tale viene spesso legata a figure femminili esili e pallide, figure fragili in balia di eventi che le sovrastano e non di rado le annientano. Così Vera in Una scrittura femminile azzurro pallido di Franz Werfel, Mizzi nella Milleduesima notte di Josef Roth e la narratrice nella Lettera di una sconosciuta di Stefan Zweig (e nel film capolavoro che dalla novella ha tratto nel 1948 il regista Max Ophuls). La bellezza come meraviglia dell’effimero trova il suo specchio nei corpi, prevalentemente femminili ma non solo. Altrove è messa a tema la bellezza degli oggetti, per esempio nel racconto Il Leviatano contenuto nel Mercante di coralli di Roth, in cui si coniuga con una riflessione sul vero e sul falso. Che cosa distingue gli autentici coralli di mare da quelli di celluloide? Per il mercante di coralli Nissen Piczenik i coralli, quelli veri che crescono in fondo all’oceano, sono la vera patria. La sua sventura ha inizio quando cederà alla tentazione di mescolare ai coralli autentici quelli altrettanto belli ma fabbricati dagli uomini e molto più economici. Ma i coralli falsi sono davvero belli come quelli di mare?
In autori che evocano la civiltà danubiana decenni dopo la sua scomparsa sovente la bellezza è di tipo paesaggistico e ambientale. Nell’Amata perduta e in Trittico praghese l’amico di Kafka Johannes Urzidil evoca la sua città di origine, Praga, la bella Praga d’oro che soltanto per uno scherzo della geografia non è bagnata dal Danubio. È innanzitutto la città l’“amata perduta” del titolo, epicentro di quella ormai sommersa civiltà hinternazionale che sta “né sopra né sotto” e neanche “tra” bensì “dietro” le nazioni. Bello e sublime appartengono anche a una pagina memorabile delle Voci di Marrakesh, il diario di un viaggio in Marocco del premio Nobel Elias Canetti. Quando il viaggiatore visita la mellah, il quartiere ebraico, e si addentra nei suoi meandri sempre più miseri in cui si accalcano i mendicanti, le parole sembrano significanti incapaci di condurre significati. La luce accecante fa luccicare la polvere del deserto e richiama gli oggetti muti di Hofmannsthal: “Un annaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole, un cimitero desolato”. Alla domanda se sia bella la mellah di Marrakesh non è facile rispondere.
Anche scrittori del Novecento appartenenti ad altre aree e altri tempi hanno naturalmente riflettuto sul tema della bellezza. In alcuni autori ebrei non danubiani il bello è compreso come in Urzidil e Canetti in riferimento ai paesaggi all’insegna della nostalgia per un mondo che non è più o da cui si è stati rifiutati o non si sente più proprio. Tre esempi lontani uno dall’altro basteranno a rendere l’idea. Amos Oz in Una storia di amore e di tenebra evoca i racconti ascoltati dalla madre Fania a metà tra il magico e l’incomprensibile – almeno per un bambino che cresce a Gerusalemme negli anni quaranta. Sono racconti pieni di grandi foreste in cui gli abeti crescono alti e fitti, laghi alpini, tetti spioventi, neve e cappotti che proteggono dal freddo dell’inverno. Con Il giardino dei Finzi-Contini Giorgio Bassani immagina una Ferrara alternativamente bianca come un cimitero assolato o nera nelle febbrili corse notturne in bicicletta. Un altrove radicale, un luogo e un tempo da sempre e per sempre impossibili. Irène Némirovsky, infine, ucraina emigrata in Francia dopo la rivoluzione bolscevica, in molti romanzi confronta implacabilmente la tetra, gretta, misera terra dei ghetti e la modernità luccicante dei boulevard – ma anche abbagliante, almeno stando all’ultimo libro incompiuto Suite francese. Il primo mondo è l’oriente barbaro da cui si fugge, il secondo la patria della bellezza e della civiltà. I paesaggi dell’Europa – l’Europa dell’emancipazione e delle arti, ma anche dell’antisemitismo e della Shoah – diventano in questo modo terre del desiderio e allo stesso tempo della delusione. Terre magnifiche ma non più terre di vita, terre che si può guardare da lontano e, al massimo, rimpiangere.