Il primo di una serie di articoli che approfondiscono i rapporti tra gli ebrei e i due eterogenei raggruppamenti che più hanno rappresentato gli interessi, le posizioni, le idee e le opinioni di un numero rilevante di italiani
Iniziamo un piccolo viaggio, in sé senza pretese di esaustività, posto che su certi temi non si potrà mai dire una parola definitiva, rispetto al rapporto, ovvero alle immagini prevalenti (e alle idee che ad esse si ricollegano) tra aree politiche italiane e mondo ebraico. Soprattutto tra sinistra, destra ed ebrei. Si tratta, ancora una volta, di un argomento scivoloso. Nonché di difficile delimitazione e definizione. Non a caso. Per concreto paradosso, proprio perché nel pensiero di senso comune, invece, si è disposti a credere altrimenti. Come se i tre soggetti della riflessione costituissero altrettante “essenze” fuori dalla storia. Per l’appunto, tre unità immutabili. La difficoltà, quindi, parte proprio da un tale, primo riscontro. Se si parla dei rapporti tra sinistra, destra e mondo ebraico si parla di tre soggetti che, per distinte ragioni, sono mutati nel corso del tempo. Non sono tre blocchi marmorei, come tali destinati a rimanere sempre uguali ad un qualche calco originario. Le stesse parole con le quali li definiamo sono, già in sé, destinate a cambiare di significato con il trascorrere di fatti, eventi, età e protagonisti.
Circoscriverne la portata, quindi, non è facile. Proprio perché, contrariamente a quanto molti possono pensare, non racchiudono entità sociali e civili definite una volta per sempre, secondo un unico parametro di riferimento. In questo caso, si è minoranza ebraica, in una società composta perlopiù da non ebrei, trasformandosi nel corso del tempo anche, e soprattutto, in rapporto alle sollecitazioni derivanti dall’ambiente circostante, quello con il quale si interagisce quotidianamente. Le stesse culture politiche raccolte dietro la definizione di sinistra e destra sono mutate nel corso del tempo, ovvero dall’Ottocento in poi. Racchiudendo, inoltre, accezioni e significati tra di loro molto articolati. Ci sono differenze significative, per fare un esempio, tra socialdemocratici, socialisti e comunisti (così come al loro stesso interno); così come il termine «destra», nell’accezione di senso comune, può contemplare una parte del liberalismo, del conservatorismo, del tradizionalismo così come posizioni molto radicali, dichiaratamente antimoderniste e volte all’eversione degli ordinamenti esistenti.
Le famiglie politiche, al loro interno, sono spesso frammentate e poco unitarie; competizioni così come contrapposizioni sono parte integrante della loro storia. Ricostruire in una trama univoca opinioni, idee, atteggiamenti e anche risentimenti, può quindi risultare spesso improprio se non, al limite, tendenzialmente manipolatorio. Ci si deve quindi muovere con cautela, posto anche che se si fa storia, non si possono proiettare le passioni (e le loro eventuali aberrazioni) del presente nel passato. E viceversa. Altrimenti si inquina qualsiasi discorso di comprensione, appiattendolo sul mero giudizio dell’oggi. Fare storia, infatti, implica il cogliere il disegno del mutamento che accompagna le persone, i gruppi, le società e, con essi, le aggregazioni che ne fanno parte. Così come la stessa stratificazione di idee, opinioni, atteggiamenti, un po’ tutti destinati a cambiare nel corso del tempo. L’impostazione di fondo, poste tali premesse, sarà quindi la seguente: quali sono stati, nell’Italia unita, e soprattutto in quella repubblicana, i rapporti tra una minoranza importante della storia nazionale (gli ebrei, per l’appunto) e i due eterogenei raggruppamenti che più hanno rappresentato gli interessi, le posizioni, le idee e le opinioni di un numero rilevante di italiani (la sinistra e la destra, per l’appunto), quanto meno dal momento in cui, con la fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento, una parte importante di questi ultimi ha finalmente avuto accesso alla sfera pubblica, civile, ossia a quella cosa che chiamiamo e riconosciamo con il nome di «politica»?
Con la seconda metà del XX secolo e la nascita dello Stato d’Israele l’intera questione si fa ancora più impegnativa. La frattura della Shoah e la rinascita di una sovranità ebraica sono due passaggi ineludibili anche rispetto all’identificazione degli atteggiamenti che i raggruppamenti politici nutrono verso la «questione ebraica». Espressione, quest’ultima, nata nel XIX secolo, a fronte dei processi collettivi di emancipazione giuridica e che, come tale, a sua volta ha mutato di segno, divenendo per più aspetti del tutto inutilizzabile, se non addirittura inaccettabile, nel nostro presente. Se è improprio stabilire una immediata concatenazione tra ebrei, Israele e Shoah, fingendo che invece sussistano degli immediati nessi di causalità e reciprocità lineare tra eventi storici e soggetti collettivi, del pari non si può trascurare l’impatto, di lungo periodo, che comunque i primi hanno esercitato sui secondi. Non di meno, gli effetti che si sono riscontrati anche sulla percezione pubblica degli ebrei; in questo caso, di una minoranza densa, tale poiché significativamente presente nel tessuto nazionale, soprattutto nei confronti da parte restante dei connazionali, composta pressoché esclusivamente da cattolici. Il lavoro dello storico deve quindi interpolare, ossia mettere insieme e fare interagire, le continuità e le discontinuità dei tempi presi in considerazione, il mutamento delle identità collettive (sia della minoranze così come della maggioranza), le relazioni tra dimensione di gruppo e integrazione nei processi di trasformazione della società nazionale. Qualsiasi discorso sulle aree politiche va pertanto inserito all’intero di queste (ed altre) dinamiche.
Se ad essere primo oggetto di queste righe, nel caso italiano è l’area politica della sinistra (raccogliendo in essa socialisti, socialdemocratici, esponenti liberaldemocratici e liberalsocialisti, comunisti come ancora, antecedentemente alla Prima guerra mondiale, i repubblicani, gli anarchici e alcuni segmenti del sindacalismo rivoluzionario, per non parlare del circuito mutualistico, cooperativistico e sindacale), si ha a che fare con un vero e proprio universo di protagonisti, tra di loro estremamente eterogenei. Per i quali, comuni denominatori erano (e dovrebbero rimanere a tutt’oggi) il rigetto delle diseguaglianze, intese come iniquità ai danni dell’essere umano, insieme ad un progetto di costruzione di una società basata sul superamento delle ingiustizie preesistenti. Da questa prospettiva, “essere di sinistra” ha da sempre implicato il riconoscere che la liberazione dell’uomo dai vincoli materiali debba passare attraverso una trasformazione degli assetti sociali, altrimenti così soverchianti da risultare insuperabili. Quando meno per i singoli individui. Il rimando all’«unione [che] fa la forza» si inscrive in questo orizzonte di speranze (e illusioni). Un tale richiamo è peraltro indispensabile se si parla del rapporto tra una maggioranza e, per l’appunto, il ruolo storico delle minoranze nazionali. Poiché mette sotto i riflettori il ruolo che le seconde possono svolgere nei processi di modernizzazione collettiva. Non è quindi un caso se, all’apporto e ai contributi che queste ultime offrono all’evoluzione di una società, si accompagni anche il crescente interrogativo sulla loro identità. L’ebraismo costituisce “solo” una religione o è il collante di un popolo, di una nazione se non di una classe? Quest’ultimo interrogativo, che rimanda per l’appunto all’«identità ebraica», e quindi alle concrete condizioni di esistenza degli ebrei, si afferma a partire dai processi rivoluzionari borghesi e industriali, dalla seconda metà del Settecento in poi.
Non è quindi un caso se parallelamente a ciò, lo stesso definirsi del campo della politica, ossia della crescente partecipazione collettiva alla sfera pubblica, quella laddove si assumono decisioni che si riflettono sull’esistenza dei singoli, si sia dato come divisione tra destra e sinistra. Poiché le diverse formulazioni sulla presenza ebraica così come sull’organizzazione collettiva degli interessi di gruppo sono il prodotto di società in movimento, quelle per l’appunto che si vanno definendo con l’arco di tempo che chiamiamo come «età contemporanea». Anche per quest’ultima ragione sarebbe quindi molto riduttivo, se non fuorviante, il ricondurre, come invece si propende a fare, il raggio delle riflessioni all’identificazione dell’ebraismo con Israele e il conflitto arabo-israeliano, al pari del ridimensionare ad una mera adesione partitica la convinzione politica e ideologica che si accompagna al riconoscersi in una più ampia area politica. Il punto da cui partire è comunque l’idea di «emancipazione». Se nel caso ebraico essa indica un processo di lungo periodo, dove la minoranza viene liberata dai vincoli giuridici che ne determinavano la condizione di minorità legale e materiale dinanzi al resto della popolazione, per le forze europee che si sono identificate, dalla fine del Settecento in poi, con i diversi movimenti della sinistra, ciò evoca la necessità di un più generale processo di superamento della condizione di subalternità economica, sociale e culturale vissuta dalle popolazioni in quanto tali. Il tutto in un’ottica internazionalista, tale poiché a contare non è l’appartenenza nazionale bensì quella sociale: i lavoratori sono affratellati dalla loro reciprocità di ruoli e funzioni nei processi economici, al netto dei paesi d’origine. La vera linea di divisione nell’umanità non corre tra lingue e culture diverse ma tra la grande massa di chi possiede solo la propria forza lavoro e quei pochi, invece, che si avvantaggiano sfruttandola a proprio beneficio. Per l’ebraismo dell’Europa occidentale, come è risaputo, l’emancipazione si compie entro la fine del XIX secolo. Per quello dell’Europa orientale, invece, l’andamento è molto più sofferto, divenendo uno dei molti fattori che incisero nei processi rivoluzionari degli anni dieci del Novecento. Ai quali una parte dell’ebraismo stesso partecipò attivamente. Quanto meno in una misura non troppo diversa dall’altra opzione che poteva storicamente praticare, ovvero l’emigrazione verso l’Occidente.
Il conflitto che si innesca con l’illuminismo, e che prosegue nel corso del tempo, è peraltro anche quello che accompagna la formazione della moderna idea di cittadinanza: si è parte di una nazione, che si esprime attraverso uno Stato sovrano e quindi unitario, in quanto espressione di una comunione di individui che vanno al di là delle proprie origini di gruppo, per riconoscersi piuttosto in quella lealtà collettiva che prende il nome, tra gli altri, di «popolo sovrano». Le diversità, individuali e di gruppo, possono continuare ad esistere ma non debbono intaccare il legame di fedeltà reciproca che si istituisce tra istituzioni e collettività. Il confronto, e poi lo scontro, tra il particolarismo delle originarie appartenenze comunitarie e l’universalismo dettato dalla nuova condizione, si fa quindi particolarmente acceso. Nel caso ebraico, la stessa politica introduce, accanto ai vecchi temi dell’antigiudaismo classico, nuovi elementi di stigmatizzazione. Se nell’illuminismo una delle accuse più accese era quella rivolta contro l’anacronismo, il patriarcalismo e la superstizione che avrebbero corredato la religiosità ebraica (fenomeni di auto-suggestione che si traducevano in auto-ghettizzazione), con l’Ottocento l’accento si sposta su temi maggiormente “sociali”. Per comprendere la dialettica negativa che fonda il pregiudizio antisemitico nell’età delle masse, ovvero quella della loro ascesa nel proscenio pubblico (attraverso la militanza politica, l’esercizio elettorale, i processi di mobilità sociale), bisogna infatti spostare progressivamente il fuoco dell’attenzione dai fattori strettamente culturali e religiosi, particolarmente accentuati nelle società pre-rivoluzionarie – per il fatto stesso di costituire elementi di divisione e di stratificazione delle collettività – a quelli connessi alle trasformazioni indotte dai processi di transizione da società agrarie a organizzazioni industriali. La mobilitazione di massa e i conflitti per il cambiamento delle condizioni di vita che i mutamenti strutturali – indotti dall’industrializzazione – alimentano nel corso di quasi due secoli, intervengono anche sulla natura e i contenuti dei pregiudizi, laddove questi sono parte integrante del modo in cui si valuta il ruolo della minoranza ebraica.
Una prima ricognizione sulle diverse posizioni della sinistra borghese e rivoluzionaria (1789) e poi socialista (fino alla seconda metà dell’Ottocento) rispetto alla «questione ebraica» deve quindi partire dall’interconnessione di progressiva politicizzazione delle collettività lavoratrici e «nazionalizzazione delle masse». Da un lato i produttori, che chiedevano di avere voce sui propri destini, dall’altro la centralità della «nazione», in sé protagonista recente della storia politica mondiale, diventavano i due poli dell’azione politica e degli stessi processi decisionali. Questi ultimi, per essere accetti dalla collettività – che ne era sempre più spesso giudice ultimativo, comunque sanzionatorio, anche attraverso lo strumento della partecipazione elettorale – richiedevano che la popolazione stessa fosse in qualche modo coinvolta nell’identificazione con le ragioni dell’appartenenza nazionale. Una condizione che, invece, fino alla fine del XVIII secolo era stata vissuta molto diversamente, poiché differenti erano non solo gli istituti del potere e delle amministrazioni pubbliche ma anche il rapporto che essi intrattenevano con le società e il territorio sul quale esercitavano le loro giurisdizioni. Il pensiero socialista ottocentesco si inserisce a pieno titolo dentro queste dinamiche, raccogliendosi intorno ad alcune posizioni ben definite, già circoscritte e descritte dalla studiosa Alessandra Tarquini. La prima di esse era quella che identificava l’ebraismo come espressione di parassitismo (dall’usura individuale alla finanza rapace e predatrice), di contro agli interessi della crescente presenza operaia. Autori come Charles Fourier e Alphonse de Toussenel contribuirono a dare corpo ad un tale costrutto ideologico, che avrebbe avuto poi una grande “fortuna” un po’ ovunque. Non pochi strumenti del laboratorio dell’antisemitismo contemporaneo vengono infatti forgiati nell’officina della sinistra corporativa, tra opifici, sindacalizzazioni e rivendicazionismo anticapitalista. In altre parole, l’«ebreo» come espressione dello sfruttamento ai danni degli altri e non come sfruttato tra gli altri.
Una seconda posizione di taglio socialista derivava dall’opera di Karl Marx, e dal suo celeberrimo pamphlet del 1844, dove si denunciava la coesistenza di libertà politica e di ineguaglianza sociale, due facce della stessa medaglia, quella della società liberale. Il «giudaismo», in questo senso, diventa allora indice e paradigma di alienazione sociale: cementificato da un credo religioso non scalfibile, l’unico modo per andare oltre il suo lascito reazionario è il superarlo attraverso l’assimilazione integrale degli ebrei nella società in via di emancipazione. La soluzione dei problemi degli ebrei consiste nel non essere più ebrei. Peraltro, l’intero libello è privo di qualsiasi supporto storico e sociologico sull’ebraismo medesimo. Verso il quale l’autore nutre scarso coinvolgimento intellettuale. Marx, influenzato dai pregiudizi dell’epoca, si rivela semmai maggiormente interessato a piegare il discorso riguardo alla minoranza ebraica rispetto ai destini della maggioranza, quella delle classi lavoratrici, che non a riflettere sulle dinamiche tra trasformazione rivoluzionarie, pluralismo e integrazione nelle diversità.
Il terzo approccio è quello dell’ebraismo socialista, incarnato soprattutto da Moses Hess, un autore sospeso tra l’amicizia (e la stima) per Marx e l’influenza di Giuseppe Mazzini. L’idea dell’ebraismo come di una religione tanto nazionale quanto solidale (ripresa poi anche, in alcune sue parti, dai fratelli Rosselli negli anni del fascismo), avrebbe concorso a costruire il percorso del sionismo, lasciando tuttavia scarsi segni nel resto del pensiero socialista. Un ultimo passaggio è quello – in sé assai più complesso e composito di quelli precedenti, anche perché si definisce solo con la fine dell’Ottocento – rappresentato dalla Seconda Internazionale, l’organizzazione nata nel 1889. L’elemento di continuità con il pensiero di Marx era il convincimento che l’antisemitismo si sarebbe definitivamente risolto con il superamento dell’alienazione collettiva e dello sfruttamento umano. Per il suo maggior esponente, Karl Kautsky, gli ebrei costituivano degli individui che dovevano ancora emanciparsi dalle servitù, dalle dipendenze ataviche, dall’eccessiva confidenza con le attività improduttive e con il denaro. In un’ottica evoluzionista, progressiva, radicalizzante, gli ebrei erano quindi destinati a superare sé stessi sciogliendosi, per così dire, nel moto popolare e rivoluzionario di trasformazione della società. In Italia, la sinistra, allora perlopiù composta dal variegato arcipelago socialista, avviò quindi – dal momento della sua federazione in un unico partito, nel 1892 – le sue mosse anche riguardo alla condizione ebraica, avendo a retroterra questo dibattito continentale, già particolarmente corposo. Da ciò, nel tempo, ne sarebbero poi derivate posizioni del tutto inedite. L’idea di fondo da cui il Partito socialista partiva era che l’antisemitismo costituisse un fenomeno tanto arcaico (quindi presente nel tempo) quanto reazionario (ossia destinato a ledere gli interessi delle classi lavoratrici, rimettendo all’indietro le lancette della storia), condizionato com’era da una commistione di ignoranza, manipolazione e calcolo d’interessi. Cesare Lombroso, il padre dell’antropologia criminale, socialista positivista, contribuì in prima persona a questo dibattito. Aleggiava su tutti la fortunata formula di August Bebel, sull’antisemitismo come «socialismo degli imbecilli», ossia anticapitalismo degli straccioni e dei plebei, manipolabili dai loro stessi sfruttatori. In una visione di tipo evoluzionista, ossia basata sulla convinzione che il futuro avrebbe riservato alle collettività un miglioramento delle loro condizioni di vita, si riteneva anche che pregiudizi e superstizioni si sarebbero esauriti da sé, nel tempo, con la trasformazione delle società. La vicenda di Alfred Dreyfus (1894-1906), il capitano francese ingiustamente accusato di spionaggio, stemperò in parte i convincimenti rispetto ad un orizzonte di progresso a venire. Anche perché le sinistre europee non si allinearono del tutto sulle posizioni innocentiste. Mentre invece il Psi e il suo organo, l’«Avanti!» le fecero pressoché da subito proprie. Dovendo comunque scontare l’irrisolto intreccio, in sé conflittuale, tra la continua evocazione della ricorso alla «lotta di classe» tra proletari e borghesi e il rigetto di pregiudizi e razzismi che, da molti, erano fraintesi come un problema che non chiamava in causa l’impegno politico diretto.
Non di meno, la convinzione stessa che gli ebrei avessero un ruolo di primazia rispetto ai processi economici, faticava ad essere liquidata come pregiudizio, alimentando quindi diffidenze e ritrosie. L’equazione tra ricchezza ed ebraismo, quindi tra sfruttamento delle società e «borghesia ebraica», era un’idea diffusa. Non solo tra le classi popolari. Rimane il fatto che per una parte del gruppo dirigente socialista, il nesso tra antisemitismo e autoritarismo politico, risultava di per sé chiaro ed evidente. Dinanzi ai violentissimi pogrom nella Russia zarista tra il 1881 e il 1906, diverse furono le manifestazioni di solidarietà. Non di meno, la denuncia dell’uso politico del pregiudizio contro gli ebrei costituiva parte di quella pedagogia politica che le leadership e i mezzi di informazioni socialisti del tempo andavano facendo nei confronti delle collettività. Il rapporto con il movimento sionista si rivelo da subito problematico: il suo impianto nazionalista e anti-assimilazionista, infatti, si scontrava per più aspetti con la concezione internazionalista che era invece il presupposto stesso del socialismo. Non di meno, la frattura tra i sionisti e il Bund, nell’Europa orientale, induceva molti socialisti a riconoscersi nel secondo, il partito operaio territorialista, piuttosto che con un’organizzazione che veniva intesa anche come espressione di una parte della «borghesia», se non addirittura frainteso come un movimento su base religiosa. Il dibattito era peraltro piuttosto contenuto, posto che il movimento sionista faticasse molto ad affermarsi nell’ebraismo italiano. Di riflesso, almeno fino al 1945, non sarebbe stata una piattaforma di discussione rivolta al grande pubblico.
Più in generale, le opinioni sugli ebrei e sull’antisemitismo si incrociavano – e si ibridavano – con le lotte e le fratture intestine al socialismo italiano (ed europeo), soprattutto quelle che dividevano le componenti massimaliste e rivoluzionarie rispetto a quelle riformiste. Clamorosa, in questo caso, la traiettoria del sindacalismo rivoluzionario, legato alla catechesi ideologica di George Sorel, per il quale la critica della “democrazia borghese” e delle diseguaglianze corrispondeva all’assunzione di temi, suggestioni ed elementi ideologici provenienti dall’arsenale della destra più reazionaria e ipernazionalista. Tra di essi, gli stessi pregiudizi antiebraici, identificando nel «giudaismo» soprattutto un elemento di corruzione nella compattezza della partecipazione proletaria alla lotta di classe. L’equazione tra iniquità sociali, capitalismo finanziario e affarismo ebraico prendeva quindi consistenza anche in una parte della sinistra non riformista: «il Semita non conosce altri doveri che quelli verso sé stesso» (in tali termini si esprimeva il medesimo Sorel nel 1910). Più in generale, l’ebraismo era attaccato in quanto vettore della perversione e della decadenza dei costumi e della coscienza di sé delle «masse». Così, tra gli altri, nel caso di Alceste De Ambris e di Paolo Orano. Anche qui, le facili e ammalianti semplificazioni di senso comune, che attribuivano ad una minoranza i disagi, se non i mali assoluti, della maggioranza, trovavano un terreno favorevole. Destinate ad essere ripresi, non troppo anni dopo, con la fine della Prima guerra mondiale, sia dal nazionalismo che dal fascismo, ancorché in forme non lineari ed omogenee; non almeno fino al 1938, quando invece con l’emanazione delle leggi antisemite, a difesa della «razza», il razzismo antisemita divenne invece obbligo di Stato.
Antisemitismo (contro il quale i socialisti italiani continuarono a pronunciarsi) e antisionismo (anch’esso avversato in quanto devianza nazionalistica di contro alla partecipazione alla lotta politica e sociale a prescindere dalla propria identità nazionale) furono i due poli sui quali, almeno fino alla Prima guerra mondiale, e al successivo dopoguerra, si articolarono le riflessioni sulla «questione ebraica» nell’allora sinistra. Le vicende della Grande guerra, così come i conflitti sociali e politici degli anni immediatamente successivi, tuttavia contribuirono ben presto a mutare i termini della discussione. Anche perché all’Internazionale socialista erano nel frattempo pervenute le richieste di ammissione da parte dei socialisti sionisti presenti nella Palestina ottomana (e quindi britannica). Più in generale, per il Psi la posizione da assumere rispetto alla crescente fortuna dell’ipotesi di un futuro Stato ebraico era quella di evidenziarne i limiti, rifiutando l’idea che una nazione indipendente, costituita da ebrei, avrebbe risolto da sé la «questione ebraica» una volta per sempre. La faglia di frattura era, ancora una volta, quella intercorrente tra identificazione con l’internazionalismo classista e accettazione del nazionalismo, anche se di taglio progressista. I temi della specificità ebraica, peraltro, scolorivano del tutto su questo sfondo, trattandosi – per molti – più di argomenti marginali, riconducibili all’assimilazione a venire che non, semmai, l’oggetto di una peculiare riflessione sul ruolo delle minoranze nell’Italia unita (e in via di trasformazione).
Questa prospettiva fu peraltro incentivata dagli esiti dello sconvolgimento rivoluzionario del 1917 in Russia e, quattro anni dopo, dalla nascita, per scissione dai socialisti, del Partito comunista d’Italia (seguita, nel 1922, dalla fuoriuscita di coloro che diedero vita al Partito socialista unitario, di estrazione riformista e anti-massimalista). A questa frammentazione, negli anni dell’esilio, tra il 1926 e il 1943, si aggiunse poi il gruppo di Giustizia e Libertà (formato nel 1929). Di fatto, nel mentre, la politica dei bolscevichi al potere nei confronti degli ebrei russi si rivelò ambivalente: da un lato se ne favoriva l’assimilazione (e la conseguente promozione sociale e di status) nei ranghi del partito e delle nuove amministrazioni rivoluzionarie; dall’altro, progressivamente, vennero assunte misure per le quali, entro la prima metà degli anni Venti, si arrivò alla completa dissoluzione degli organismi ebraici autonomi. A fronte dell’entusiasmo con cui la rivoluzione venne inizialmente salutata, nel corso degli anni Venti e Trenta l’antifascismo italiano diede scarso se non nessun conto delle contraddizioni che si accompagnavano all’atteggiamento sovietico verso gli ebrei. Anche la più generale riflessione sulla minoranza ebraica in Italia e in Europa, nella stampa dell’emigrazione politica, registrò un sostanziale stallo. Con tuttavia alcune significative differenze.
Se il seguito dei partiti clandestini era molto circoscritto (poche migliaia di aderenti), tutta la loro attenzione era concentrata a cercare di arrestare la diffusione del fascismo in Europa. La decadenza degli ordinamenti liberali si ripercuoteva drammaticamente sui residui spazi di manovra delle sinistre italiane ed europee. Per il PCdI (poi PCI dal 1943), il bolscevismo al potere costituiva la soluzione di tutti i dilemmi sociali e politici, presenti e futuri. L’antisemitismo, in tale caso, era letto come parte di un più ampio campionario di false credenze, del tutto residuali, legate a loro volta alle superstizioni religiose e culturali. Il crescere delle persecuzioni antiebraiche fu peraltro sottovalutato da quasi tutti gli antifascisti, posta anche l’incapacità di cogliere la natura specifica del fenomeno fascista prima, e nazista poi, a fronte – invece – dei temi ricorrenti sull’azione politica come lotta di classe e progetto rivoluzionario anticapitalistico. Anche la componente massimalista dei socialisti, vivendo in esilio vicissitudini politiche molto aspre (con la frattura al suo interno del 1930), non solo sottovalutò ma perlopiù si disinteressò alle dinamiche legate al mondo ebraico, sbagliando inoltre di molto nella sua tardiva lettura del significato delle leggi razziali del 1938 (intese come una sorta di regolamento di conti tra il fascismo e una parte della borghesia capitalista). Questo peculiare fraintendimento rivelava anche la scarsezza teorica e dottrinale di una parte del socialismo italiano, incapace di cogliere il segno dei tempi. Non la stessa cosa può invece essere detta dei socialisti riformisti, altrimenti molto sensibili alle pericolose derive antisemite (nelle quali leggevano, di riflesso, anche espressioni antisocialiste). Claudio Treves e Filippo Turati si adoperarono in tale senso, denunciando la specificità razzista del fascismo. Era evidente che per il Partito socialista unitario in esilio (dal 1930 Psi – sezione dell’Internazionale operaia socialista), la sostanziale estraneità agli obblighi crescenti di deferente subalternità verso una dottrina cristallizzata, qual era quella proveniente dall’Unione Sovietica, liberava maggiori energie intellettuali, permettendo in tale modo uno sguardo prospettico più corposo. Soprattutto, la dialettica tra maggioranza e minoranze veniva ora riletta sulla base dell’uniformazione di identità e il livellamento di appartenenze che i regimi totalitari andavano invece praticando non solo in Occidente. Non a caso, quindi, i riformisti colsero la natura dirompente della legislazione razzista, in Germania nel 1935 e in Italia nel 1938. Giustizia e Libertà, infine, nato nel 1929 come movimento rivoluzionario di estrazione socialista (e liberal-progressista) ma non marxista, dedicò una parte rilevante delle sue riflessioni all’antisemitismo. Del pari, denunciò da subito la natura intimamente razzista dei fascismi. Dinanzi alle leggi del 1938 (interpretate lucidamente come il prodotto di un regime politico che faceva della mobilitazione degli italiani lo strumento per puntellare i suoi interessi, fomentando «uno stato permanente di guerra»), quindi, non vi fu troppa sorpresa né, soprattutto, sottovalutazione. Giustizia e Liberta prima, poi il Partito d’Azione (nato nel 1942), d’altro canto costituivano il punto di incontro tra diverse tradizioni politiche, dal repubblicanesimo al pensiero democratico risorgimentale. Anche se da tutto ciò non ne sarebbe derivata un’autentica spinta politica, capace di incidere in maniera permanente sull’Italia nel momento in cui il regime fascista sarebbe crollato.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.