Antisemitismo e rapporti con il mondo arabo dalla nascita di Israele agli anni 80 del secolo scorso
Con il secondo dopoguerra la «questione ebraica» assunse connotati completamente diversi da quelli che le erano stati propri nei decenni precedenti. Senz’altro influivano in ciò due vicende fondamentali, ossia lo sterminio nazifascista e la nascita, nel 1948, dello Stato d’Israele. Non di meno, la conclusione del conflitto mondiale segnò uno spartiacque storico. Il fatto stesso che nel diritto internazionale fosse incorporato il delitto di «genocidio» costituiva una svolta epocale. Non di meno, le tensioni che già si erano manifestate nei tre decenni precedenti, a partire dai difficili, tortuosi ma non più rinviabili percorsi di decolonizzazione, avrebbero inciso d’ora innanzi anche sulle posizioni politiche della sinistra italiana. Più in generale, era l’intero modo di pensare i temi della libertà, della giustizia sociale, dell’organizzazione delle società e, con essi, del rapporto tra maggioranza e minoranze che iniziava a conoscere una profonda trasformazione. Le due guerre mondiali avevano contribuito, con la mobilitazione di intere società, ad accelerare quei processi di cambiamento legati all’affermazione definitiva del sistema di produzione industriale. Questa evoluzione, nei suoi tanti effetti, si rifletteva ora anche su quei paesi che non ne erano stati diretti destinatari.
L’Italia, nel dopoguerra e fino al maggio del 1948, fu protagonista principale delle rotte clandestine con le quali i profughi ebrei, scampati alla Shoah, cercavo di raggiungere la Palestina mandataria. L’Aliyah Beth, così come fu conosciuta l’intera operazione di salvataggio e di immigrazione clandestina, trovava nei porti del nostro Paese uno snodo fondamentale, aprendosi al Mediterraneo. Di ciò, ad occuparsene sulla stampa di partito, furono soprattutto i socialisti. Il Partito comunista, pur evidenziando la tragedia che si era consumata ai danni dei civili nell’Europa orientale durante l’occupazione nazista, risultava molto più reticente (o comunque indifferente) rispetto alla matrice razzista e antisemita, preferendo semmai enfatizzare la risposta sovietica. Più in generale, comunque, l’attenzione era concentrata sia sul nuovo bipolarismo tra Occidente e Oriente sia, soprattutto, sull’esaltazione dell’antifascismo, un tema di cornice dentro il quale ricadeva lo stesso capitolo delle persecuzioni e dello sterminio razzista. Anche per quest’ultima ragione, ovvero il tentativo di rimuovere, o comunque ridimensionare, la specificità della Shoah non per altro calcolo politico di fondo che non fosse quello di recuperare un’immagine dell’Italia mondata, liberata, depurata dal calco fascista, ne derivò una sua sostanziale incomprensione, destinata a durare nel corso del tempo.
Il problema di merito non ruotava intorno alle opinioni nutrite rispetto agli ebrei bensì riguardo al lascito (di lungo periodo) del fascismo: se si voleva estirparne le radici, bisognava allora concentrarsi sul contrasto politico ad esso, tralasciando – invece – una più approfondita riflessione rispetto ai suoi fondamenti socioculturali. Un qualcosa, quest’ultimo, che sarebbe subentrato solo nei decenni successivi. Non di meno era prioritario l’adoperarsi nel consolidamento e nella legittimazione dei nuovi partiti di massa. Questa era la sensibilità prevalente dell’epoca. Peraltro, i due maggiori partiti della sinistra italiana, quello comunista e il socialista, si dividevano tra la concezione stalinista praticata dal primo ed un impianto culturale marxista-leninista piuttosto rozzo e pasticciato nel caso del secondo. Il tema del pluralismo, e con esso delle minoranze nazionali, trovava quindi poco o nessun spazio.
La nascita d’Israele fu comunque accolta con sostanziale favore da tutta la sinistra. Particolare attenzione fu quella offerta dai socialdemocratici (originatisi da una scissione tra i socialisti, nel 1947, con il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani) attraverso il suo quotidiano «L’Umanità», dove non mancarono le ripetute professioni di filo-sionismo (come quelle di Sabatino Moscati, Paolo Vittorelli, Aldo Garosci, Giuliano Vassalli). Più in generale, tutta l’area politica viveva, nel suo insieme, pur con accenti diversi, l’esperienza della giovane comunità politica in quanto manifestazione di un progressismo (ad esempio, con un grande interesse, a volte francamente sproporzionato, comunque idealistico, per l’esperienza dei kibbutzim), che avrebbe aiutato l’intera area mediorientale a fare significativi passi in avanti verso il superamento del colonialismo franco-britannico. All’epoca, va registrato il fatto in sé, l’attenzione e ancora più il giudizio verso il mondo arabo non solo erano influenzati da una scarsa considerazione e da una ancor più diffusa non conoscenza della sua storia ma anche da una sostanziale diffidenza di fondo, motivata dall’opinione che le società locali fossero troppo influenzate dal conservatorismo originario per costituire, da sé, laboratori politici di emancipazione nazionale. Ben presto, come ancora si avrà modo di osservare, un tale giudizio sarebbe radicalmente mutato. Il tutto in un contesto internazionale molto diverso da quello dominante ancora nelle seconda metà degli anni Quaranta, quelli per l’appunto che vedevano la nascita dello Stato ebraico.
Non è un caso, infatti, che già alcuni anni dopo una parte dell’intellettualità della sinistra iniziasse a manifestare dubbi sia su quello che denunciava come un crescente nazionalismo sia sulla presenza di uno spirito religioso che veniva vissuto, con forte disagio, al pari di una negazione dei fondamenti laici e secolarizzati della politica. In altre parole, il sionismo non era più solo sinonimo di «socialismo» ma anche di un qualcosa di potenzialmente classista, comunque sostanzialmente estraneo ad un percorso di decolonizzazione basato su un modello di sviluppo sociale non capitalista. Se l’obiettivo finale della liberazione dell’uomo dalle sue servitù non poteva che essere una “rivoluzione” mondiale, che si sarebbe affermata nei fatti, anche in forme tra di loro diverse ma comunque destinate a superare le diseguaglianze e le ingiustizie esistenti, allora il sionismo rischiava di ancorarsi ad una concezione e a delle prassi «piccolo borghesi» (così già Abraham Léon).
Il punto critico, all’epoca, non era ancora il conflittuale rapporto con il mondo arabo, e ancora meno con le comunità palestinesi, bensì l’indisponibilità di costruire un’economia socialista, semmai preferendole quella di mercato. La presenza di capitali stranieri, a partire da quelli americani, faceva storcere il naso ai corrispondenti delle testate della sinistra italiana. Proprio in un tale frangente, le frizioni con la popolazione araba, dentro e fuori il giovane Stato, iniziarono a divenire ben presto una sorta di cartina di tornasole dell’inadeguatezza del progetto sionista nel suo insieme. Di fatto, con il 1950, mentre il Psi e il Pci andarono sviluppando un atteggiamento sempre più critico, a mantenere una piena solidarietà rimasero solo i socialdemocratici. Nel caso dei socialcomunisti valeva anche la morsa che Stalin aveva imposto ad Israele così come agli ebrei russi. Le accuse non solo di «nazionalismo» ma anche di «razzismo», «cosmopolitismo» e «clericalismo» cominciarono così a circolare sulla stampa di partito, che attribuiva ai laburisti di David Ben Gurion molti dei vizi ideologici e dottrinali che nell’Europa dell’Est, nel campo del «socialismo reale», venivano riservate alle opposizioni riformiste presenti in Occidente. Sempre più spesso Israele veniva in qualche modo accostata alla Jugoslavia di Tito: in entrambi i casi si sarebbe trattato di un tradimento delle originarie aspettative rivoluzionarie, arrivando tali paesi persino a porsi al servizio dell’«imperialismo».
A un tale quadro di riferimento rispetto alle vicende mediorientali si andava ad aggiungere la sostanziale indifferenza che la società italiana, come anche quella europea, ed in essa la medesima sinistra, nutrivano verso la specificità della Shoah. Più che una frettolosa sottovalutazione si trattava di un’incomprensione generalizzata. E cristallizzata. La violenza nazifascista era infatti letta in termini di mera oppressione e repressione politica. L’antifascismo veniva declinato essenzialmente come risposta a questa aggressione e non come parte di un più generale progetto volto ad affrontare la violenza sistematica che i regimi totalitari avevano espresso negli anni del loro apogeo. Le persecuzioni razziali, così come la stessa intelaiatura del progetto nazionalsocialista verso l’Europa, ossia una sua radicale trasformazione nella composizione sociale e demografica, si perdevano quindi in una serie di asserzioni e di considerazioni poco o nulla capaci di andare oltre la polemica spicciola. La stessa analisi intellettuale, di parte marxista (e non), risultava completamente assorbita dal bisogno di riportare pedissequamente ogni aspetto delle dittature al trionfo degli istinti di un capitalismo primordiale, liberatosi, per così dire, delle “finzioni” liberali. Se la lotta di classe era tutto, il resto diveniva nulla. Si parlava apertamente di Auschwitz ma il lager diveniva il paradigma della sofferenza degli «antifascisti», omettendo la natura razziale di buona parte delle deportazioni tra il 1941 e la fine del 1944. Soprattutto, non si avvertiva l’esigenza di comprendere per quale motivo la Germania di Hitler, e i fascismi europei, avessero dovuto fare proprio un antisemitismo al medesimo tempo apocalittico, messianico e catartico. Se gli ebrei non erano una classe (al massimo costituivano un popolo dai tratti indefiniti), mentre il movimento della storia era governato dalla lotta di classe, allora la specificità della violenza antisemita scoloriva dentro un più generale discorso sull’intrinseca brutalità dei regimi fascisti. Le difficili vicende editoriali di «Se questo è un uomo» di Primo Levi, testimoniavano anche di un tale stato di cose.
Da un tale background derivò inoltre l’indisponibilità a comprendere il perché l’antisemitismo – ancora una volta scambiato per un antico e anacronistico retaggio, per più aspetti residuale – ritornasse in circuito, a partire dal conflitto arabo-israeliano. La morsa stalinista contro gli ebrei, e poi la sua onda lunga, destinata a proseguire anche dopo il 1953, fu di fatto disconosciuta e obnubilata dalle sinistre italiane, ancora una volta con l’eccezione dei socialdemocratici. Il tragico e farsesco processo Slansky a danno di incolpevoli dirigenti comunisti della Repubblica cecoslovacca, perlopiù ebrei, accusati di cospirazione «sionista» (filo-imperialista e «cosmopolita»), fu accolto con sostanziale assenso rispetto alle tesi degli accusatori. Nel 1952, il «sionismo» era quindi già divenuto una sorta di bestia nera per la sinistra stalinista. Alla morte di Stalin, dinanzi alla montatura della cosiddetta «congiura dei medici» (che avrebbero tramato contro la vita del dittatore), socialisti e comunisti si rivelarono ancora una volta acriticamente allineati sulle tesi di Mosca. A soprammercato si aggiungeva che l’autentico antisemitismo sarebbe esistito solo negli Stati Uniti.
Con la crisi di Suez del 1956, i preconcetti diffusi si associarono alle crescenti simpatie che, invece, andavano iniziando a ricevere quei paesi, perlopiù recentemente decolonizzati o in via di totale indipendenza, raccoltisi nel movimento dei «non allineati». Il transito ideologico era al medesimo tempo chiaro e netto: passo dopo passo, anche a fronte dell’assunzione, da parte delle nuove classi dirigenti nazionali, di posizioni vicine al «socialismo» (ancorché molto spesso assai confuse), si andò progressivamente delineando un nuovo soggetto rivoluzionario, ossia quel proletariato, perlopiù di origine rurale, che sembrava accompagnare, ed in parte sostituirsi, alla classe operaia industriale dell’Occidente. Quest’ultima, sempre più spesso, veniva invece intesa come in via di «imborghesimento», ossia connotata da una declinante vocazione conflittuale e da una crescente propensione alla mediazione con i poteri economici e istituzionali. In realtà, questo schema culturale, prima ancora che politico, ripeteva in parte lo scontro che aveva già caratterizzato, tra il 1890 e il 1926 – ed in particolare negli anni della Prima guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra – la contrapposizione tra le componenti massimaliste e quelle riformiste all’interno del movimento dei lavoratori. Con una significativa variante, ossia il crescere e il diffondersi di quella subcultura conosciuta come «terzomondismo», che coniugava aspirazioni rivoluzionarie alla ricerca di nuovi soggetti ai quali affidare quella spinta propulsiva dalla quale sarebbe derivato il definitivo superamento degli ordinamenti esistenti. La «rivoluzione» era alla ricerca di un protagonista collettivo.
L’atteggiamento verso l’Egitto di Nasser, tra i capofila dei paesi «non allineati», sempre più prossimo all’Urss, era una sorta di colonnina di mercurio sulla base della quale misurare il cambio di passo in buona parte della sinistra italiana. La guerra di Suez del 1956 fu quindi prevalentemente interpretata come il confronto tra le forze del vecchio imperialismo e le nazioni giovani del nuovo mondo, quelle che avrebbe trasformato gli assetti capitalistici. Più in generale, come anche studi più recenti hanno evidenziato, la posizione dei governi italiani (posto che i social-comunisti erano forze di opposizione) guardava con simpatia non solo verso la decolonizzazione ma anche nei confronti di una parte delle nuove élite arabe. Il «neoatlantismo» nostrano cercava interlocutori nel Mediterraneo meridionale e orientale. Sia sufficiente, al riguardo, rammentare il ruolo dell’Eni di Enrico Mattei. Le valutazioni della sinistra italiana su Israele si fecero comunque divergenti al loro interno. Con i primi anni Sessanta per il Pci e il Psi il paese era ora animato da un eccessivo fervore nazionalista, attraversato a sua volta da spinte religiose; con ciò, quindi, tradendo le sue iniziali premesse e, ancora di più, divenendo potenziale ostacolo alle energie che invece il mondo arabo stava iniziando a sprigionare. Non di questo avviso erano invece i socialdemocratici e i liberalsocialisti. La difesa delle ragioni d’Israele, in quest’ultimo caso, trovò molte occasioni di manifestarsi, a partire dal numero monografico del periodico «Il Ponte», dedicato ai primi dieci anni del Paese, al quale veniva attribuita l’aura di «una delle grandi rivoluzioni democratiche del nostro tempo», in quanto espressione del laburismo, del riformismo e dell’anticomunismo democratico.
In un tale quadro, e dinanzi alle risorgenti manifestazioni di antisemitismo in molte località d’Europa, alla fine di gennaio del 1960 nasceva l’Associazione nazionale Italia-Israele, promossa da politici, giuristi e personaggi del mondo culturale. Nel 1965, l’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, a sua volta si recò in visita ad Auschwitz. Non si può affermare che per parte delle sinistre vi fossero ambiguità nei riguardi della condanna del razzismo antiebraico. Tuttavia, la dipendenza dei comunisti dall’Unione Sovietica, pesava moltissimo nella difficoltà di assumere in toto un’aperta posizione sulle diverse espressioni del pregiudizio. Alimentando semmai una sorta di commistione tra denuncia e reticenza, dove ad appannarsi era proprio la comprensione della specificità della Shoah. È tuttavia negli anni Sessanta che il tema dell’antifascismo, altrimenti già cristallizzato nelle forme retoriche dell’autocelebratività, tornava ad assume spessore, anche in forme nuove se non inedite. L’eco del processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme contribuì all’avvio, ancorché timido, della focalizzazione di una prima attenzione che, fino ad allora era invece mancata, rispetto allo sterminio razzista delle comunità ebraiche europee. Particolare fu l’impegno profuso, in questo come anche in altri casi, da testate come l’«Avanti!», «l’Unità», «L’Umanità» al pari degli altri periodici. Tuttavia, le incrostazioni ideologiche non venivano per questo meno, soprattutto laddove il nazismo era letto ancora una volta come una mera variante del «capitalismo». In altre parole, quando un tassello del mosaico analitico finalmente emergeva, un altro immediatamente scompariva. Il ruolo autonomo del fascismo, ad esempio, veniva sottovalutato o comunque non considerato appieno. La stessa riflessione storiografica tardava peraltro ad avviarsi, con l’eccezione di Renzo De Felice (successivamente assurto a protagonista di polemiche “revisioniste”) che fu il primo a ravvisare la sostanza dell’impianto antisemita, e quindi la sua specificità, nel caso italiano, con un testo denso e ricco, a lungo ineguagliato, quale la sua «Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo» (1961). Sarebbero comunque trascorsi ancora due decenni prima che la ricerca storica, e il dibattito, iniziassero a muoversi verso l’orizzonte aperto dallo studioso reatino.
Diverso fu invece l’andamento della produzione letteraria che già negli anni Sessanta aveva avviato una lunga stagione di opere, a volte dal taglio autobiografico, destinate a rimanere nel tempo.
Israele stava comunque iniziando a dividere i socialisti dai comunisti. Nel primo caso, le simpatie verso l’esperienza sionista, inserita dentro il novero di quelle della sinistra, si ravvivarono. Il Paese tornava ad essere l’espressione di una modernità secolarizzante. Nel secondo caso, i comunisti subivano sia il fatto che il Maki, il partito comunista israeliano (destinato poi a spezzarsi e frantumarsi in diverse componenti), fosse all’opposizione così come l’evidente preferenza da parte di Mosca verso il mondo arabo. La guerra del 1967, quindi, fu un altro spartiacque dentro la sinistra. Il Pci e il Partito socialista italiano di unità proletaria (nato nel frattempo da una scissione nel Psi, consumatasi nel 1964) si espressero a favore degli arabi. Il Psi, nel frattempo diventato Partito socialista unificato, insieme ai socialdemocratici, si mosse a favore d’Israele. Particolarmente impegnati, su questo versante, erano Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, che avvertivano una sorta di affinità elettiva con Gerusalemme. Lo schema era bipolare: Israele con gli Usa, l’Egitto e la Siria con l’Urss.
Il confronto su queste basi influenzò anche il rapporto con il mondo ebraico, realtà altrimenti a sé stante. Per buona parte dei socialisti, il filosemitismo era un naturale prosieguo dell’impegno antifascista, identificando in Nasser la figura di un despota sotto mentite spoglie. In altre parole, più che nazionalista semmai nazionalsocialista. Per i comunisti, al netto del diritto all’esistenza d’Israele, il conflitto era il prodotto (anche) della sua congenita aggressività verso il mondo arabo. Non a caso iniziò proprio in quel periodo l’accostamento tra la condotta israeliana e quella dei nazisti. La qual cosa, derivante anche dalla dottrina sovietica del cosiddetto «nazi-sionismo», diffusa a piene mani per fortificare i rapporti con il mondo arabo, avrebbe inquinato a lungo le riflessioni del Pci sul Medio Oriente. Ad Israele non era attribuito una piena identità ebraica, ossia la natura di peculiare creazione dell’ebraismo; del paese si diceva semmai che aveva assunto una posizione sempre più sospesa tra nazionalismo, filo-imperialismo, teocrazia e religiosità codina e oscurantista. In altre parole, il sionismo era ora divenuto – nei fatti – un prodotto della destra (così periodici come «Rinascita» e il «Calendario del Popolo»). Come tale, ne conseguiva cha andasse combattuto politicamente, evitando tuttavia di sovrapporre il tema della politica di un intero Stato con la questione degli inalienabili diritti degli ebrei nonché della lotta contro l’antisemitismo.
In prospettiva riecheggiavano le suggestione proposte da autori come Maxime Rodinson. Nel suo volume su «Israele e il rifiuto arabo», l’intera traiettoria dello Stato degli ebrei era infatti riassunta sotto l’egida dell’intenzione “imperialista” di tenere sotto scacco le popolazioni arabe, a beneficio dell’Occidente. Franco Fortini, in un sofferto pamphlet, «I cani del Sinai», e nella sua più generale riflessione sui fatti del ’67, arrivò a denunciare «l’assurda idea che ebraismo, antifascismo, resistenza e socialismo [siano] realtà contigue». Si trattava, a tutti gli effetti, di un equivoco, sia peculiare alla sinistra (la ricerca a tutti i costi di un soggetto storico, in questo caso un popolo, nel quale identificarsi appieno) sia più generale, laddove si veniva confondendo nazione, Stato, istituzioni con libertà, emancipazione e giustizia. Israele, in altre parole, aveva rivelato di quale pasta fosse fatto, essendo per l’appunto uno Stato nazionale e non la concretizzazione di un sogno. Su queste ed altre opinioni aleggiava comunque l’ombra del tradimento delle speranze trascorse, quand’anche queste avessero da subito peccato di intrinseco idealismo. Ad Israele, per l’appunto, si conferiva adesso una duplice colpa: il non essere divenuto ciò che si avrebbe invece voluto fosse una volta per sempre (ovvero l’agente dell’emancipazione collettiva, sia di ebrei che non ebrei); il continuare ad esistere per ciò che era nel mentre concretamente diventato (permanendo nella sua esistenza, sempre più spesso vissuta con il disagio con il quale si osserva una realtà in sé storicamente abusiva).
L’insieme di queste posizioni si incontrava, e in parte si scontrava, con la cultura che i movimenti di mobilitazione di massa, durante gli anni Sessanta, come anche nel decennio successivo, stavano cercando di impostare come tratto proprio, riformulando, dal punto di vista della sinistra radicale, i paradigmi interpretativi dell’anticapitalismo e della «lotta di classe». I temi terzomondisti assumevano così ulteriore centralità, di fatto costituendo un rafforzamento dell’ipotesi di un’idea della rivoluzione non come prodotto delle “contraddizioni” legate allo sviluppo delle economie industriali bensì come una generalizzata sollevazione, che avrebbe chiamato in causa le collettività degli oppressi, a partire proprio dai paesi in via di sviluppo. Quindi, dalle società perlopiù rurali, come nel caso del Sud-Est asiatico e poi del Medio Oriente. Una sorta di catarsi e palingenesi che, partendo dai «dannati della terra» (Frantz Fanon), avrebbe investito le metropoli dell’Occidente.
Israele, a modo suo, rientrava nel novero delle imprese neocoloniali che sarebbero state quindi destrutturate dall’onda rivoluzionaria. Non di meno, nella sinistra radicale, diffusa era la diffidenza verso l’Unione Sovietica, avvertita come architrave di un blocco di potere autoritario. La ricerca di un soggetto sociale al quale conferire la fiaccola della sollevazione popolare, si incrociava con il rigetto degli istituti della democrazia liberale e «borghese», denunciati come dei vuoti involucri di legalità dentro i quali, in realtà, allignavano la «repressione» e la sopraffazione dei ricchi sui poveri. Le testate e le formazioni politiche della «nuova sinistra», così come dei gruppi di stretta osservanza marxista-leninista (ed in un primo tempo lo stesso Movimento studentesco) –tra gli altri, Potere operaio e poi Autonomia operaia, Avanguardia operaia rigenerata poi come Democrazia proletaria, Lotta continua, il Manifesto, il Partito di unità proletaria – pur accogliendo perlopiù la critica dello stalinismo in quanto «deviazione», anche nella sua radice di oppressore delle minoranze, sposarono pressoché da subito posizioni rigidamente antisioniste, in alcuni casi caricandole di motivi antisemitici. Nel nome della lotta al nocciolo etno-nazionalista, sciovinista ma al medesimo tempo anche cosmopolita della «borghesia», una classe sociale la cui unica ragione d’essere sarebbe stata la cura dei propri interessi a danno del resto della collettività mondiale. Non di meno, il paragone, la sovrapposizione e la sostituzione delle vittime del passato (gli ebrei) con quelle del presente (i palestinesi) si accompagnava al ribaltamento dei ruoli: i nuovi nazisti erano gli israeliani. In questo violento gioco di raffigurazioni, che si svolgeva usando la doppia polarità simbolica che metteva l’ebreo obbligatoriamente in relazione con il suo persecutore, per la sinistra estrema si trattava di ridimensionare l’impatto del genocidio razzista nella storia (inteso ancora una volta come una delle tante conseguenze delle perversioni strutturali del sistema capitalista), dichiarando inoltre che qualsiasi tentativo di trasformare lo stato di cose esistenti senza impegnarsi in un percorso “autenticamente” rivoluzionario avrebbe rivelato non solo la sua fallacia ma anche quella sostanziale mistificazione che ne costituiva parte integrante.
Durante la lunga fase di evoluzione, affermazione e poi di avvio del riflusso dei movimenti extraparlamentari (1967-1978), i rapporti tra la sinistra e il mondo ebraico si fecero sempre più tesi. L’affermazione, nello scenario internazionale, dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e di Yasser Arafat, considerato il demiurgo della nuova società palestinese, concorse attivamente in tale senso. Conclusosi il periodo della mobilitazione a favore del Vietnam (e della Cambogia, trasformata da subito in un mattatoio), l’attenzione si rivolse verso una nuova figura “rivoluzionaria”, quello del miliziano palestinese, inteso, sulla scorta di molte ambiguità, come una sorta di «soldato politico» di estrazione rivoluzionaria, al pari del partigianato europeo. Si trattava di dare credito ai nuovi attori di una «rivoluzione interrotta», delle tante Resistenze «tradite», di un nuovo ciclo di conflitti non più economici e parlamentari bensì armati. La parabola di questa fascinazione, che trovò addirittura alcuni punti di contatto tra certe sinistre estreme e una parte della destra radicale, si misurò con l’affermazione della «rivoluzione khomeinista» in Iran, tra il 1978 e il 1979. Salvo essere poi sanguinosamente smentita dal processo di violenta clericalizzazione e accelerata desecolarizzazione delle società mediorientali. Una tale strada, dove le diverse posizioni erano accomunate da ambigui richiami all’«antimperialismo», sia di matrice statunitense che israeliana (il «grande» e il «piccolo Satana»), raccoglieva molti fraintendimenti ma anche timidi tentativi di correzione di rotta dinanzi alla percezione, avvertita dai soggetti politici più attenti, che il vecchio bipolarismo stesse progressivamente trasformandosi.
Il Pci, proponendosi al medesimo tempo come maggiore organizzazione comunista occidentale, punto di riferimenti per i movimenti popolari di liberazione e indipendenza nazionale ma anche nella sua qualità di interlocutore istituzionale, fino alla seconda metà degli anni Ottanta fu un leale amico dell’Olp di Yasser Arafat. Giancarlo Pajetta era in prima linea nel definire l’indirizzo del partito (in ciò contrasto solo da Umberto Terracini). Tuttavia non era solo in questa battaglia. Riccardo Lombardi, austero e autorevole esponente del mondo socialista (e prima ancora azionista), insieme a Lelio Basso, fecero infatti proprie le tesi più filo-palestinesi. I rapporti tra sinistra italiana e sinistra israeliana, negli anni Settanta, toccarono probabilmente il punto più basso, in un gioco perverso di reciproco disinteresse. I socialisti, dopo la scissione del Psdi del 1969, mantennero una posizione prossima ad Israele, sia con le segreterie di Francesco De Martino che di Bettino Craxi, che coltivavano robusti rapporti con gli omologhi partiti della sinistra sionista a Gerusalemme (attraverso Giorgio Gangi). Tuttavia, una componente filo-palestinese andò definendosi anch’essa, raccogliendosi intorno alla figura di Michele Achilli. Craxi, nei primi anni Ottanta, accentuò le simpatie socialiste verso l’Olp. Di certo, l’avversione del segretario socialista nei confronti del Likud e di Menachem Begin faceva a quel punto premio su qualsiasi altra considerazione.
La guerra in Libano del 1982, cinque anni dopo la vittoria elettorale del Likud in Israele, costituì un ulteriore tornante. Il diretto coinvolgimento della popolazione civile, la sproporzione tra le forze in campo, le strategie israeliane, fino ai massacri falangisti ai danni dei profughi palestinesi, scavarono un ulteriore solco tra Gerusalemme e i partiti della sinistra, segnatamente non solo di quella italiana. La stessa Internazionale socialista condannò l’operazione militare «pace in Galilea». Più in generale, ad entrare in gioco erano molteplici fattori. Tra di essi, l’evoluzione dello Stato ebraico, il crescente peso politico delle destre nazionaliste, lo stallo intenzionale di qualsiasi iniziativa di pacificazione. In un clima esacerbato, dove le parole come «genocidio» (ai danni dei palestinesi), «terrorismo» (di Stato), «nazismo» (israeliano) si rincorrevano, gli episodi di violenza verbale si accompagnarono ai gesti di crescente ostilità. Ad essere sotto il fuoco delle polemiche non era un’élite dirigente ma un intero popolo, di nuovo considerato come immeritevole di continuare ad esistere in quanto nazione e Stato. Il motto più diffuso era «Israele, discolpati!» (così Rosellina Balbi), soprattutto del fatto stesso di esistere nella sua specificità.
I massacri dei campi profughi di Sabra e Chatila, nel settembre del 1982, provocarono un moto di esecrazione collettiva. In un clima esasperato, il 9 ottobre di quell’anno un attentato terroristico compiuto contro il Tempio maggiore di Roma provocò la morte di un bambino di due anni, Stefano Gai Taché, oltre a un grande numero di feriti. All’epoca, la sovrapposizione tra collettività ebraica e governo israeliano era divenuta pressoché totale. Nonché asfissiante. La radicalizzazione dei temi antisionisti si stava oramai traducendo nel deliberato sdoganamento di motivi antisemiti. In realtà, proprio quando, con gli anni Ottanta, sembrava oramai che il rapporto tra mondo ebraico e sinistre fosse sul punto di una lacerazione non più ricomponibile, altri fattori di contesto sarebbero intervenuti. Il progressivo decomporsi dell’ordine bipolare, con le crescenti difficoltà dell’Unione Sovietica, sarebbe quindi entrato pesantemente in gioco, ridisegnando non solo rapporti e legami ma anche la natura dei loro stessi protagonisti. Tra i quali, la stessa destra, soprattutto quella illiberale ed extracostituzionale, destinata ad entrare in qualche modo in campo.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.