Cultura
“La memoria degli oggetti”, una mostra al Memoriale della Shoah di Milano

Un’esposizione contro l’indifferenza nel ricordo delle vittime del naufragio davanti a Lampedusa del 2013

È successo dieci anni fa. All’alba del 3 ottobre un malandato peschereccio su cui viaggiavano più di 500 persone è affondato a mezzo miglio dalla costa di Lampedusa. I 368 corpi recuperati sono stati un pugno nello stomaco per la coscienza italiana e internazionale. Non si trattava del primo dramma di questo tipo, ma era il primo i cui corpi venivano mostrati al mondo. E che gli stessi giornalisti si trovavano ad affrontare in modo così diretto. Perfino quelli più vicini ai drammi nel Mediterraneo come Valerio Cataldi, corrispondente Rai che già si occupava di immigrazione e che in quei giorni era accorso a Lampedusa.
Oggi Cataldi è tra gli ideatori de La memoria degli oggetti, progetto curato dalle associazioni Zona e Carta di Roma, realizzato grazie ai fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai e ospitato fino al 31 ottobre presso il Memoriale della Shoah di Milano. Si tratta di una mostra, anche se è difficile limitarne la funzione al semplice scopo espositivo. Un po’ come sarebbe impreciso definire il Memoriale solo un museo. È quanto ha ricordato Roberto Jarach in occasione dell’inaugurazione. Il Presidente della Fondazione Memoriale della Shoah ha messo in luce una delle affinità tra il dramma dei migranti dimenticati e quello delle vittime dell’Olocausto: qui non si tratta di visitare una mostra e di proseguire poi imperterriti con le proprie vite, ma di ricordare per poi agire, di rendere omaggio a quanti sono scomparsi a cominciare dalla loro memoria, dal dare loro un nome.

Si tratta qui di combattere quell’indifferenza fatta incidere come monito a caratteri cubitali da Liliana Segre sul muro di ingresso al Memoriale. Quella stessa indifferenza che dopo il clamore suscitato dalla vista di quei corpi pare negli ultimi 10 anni avere ormai risucchiato l’opinione pubblica, i politici e i mezzi di informazione.
Ma come scuotere dal torpore la sensibilità assuefatta alla tragedia?  Seguendo la strada percorsa da quanti si erano mossi in quei giorni per restituire dignità alle vittime e per compiere un dovuto gesto di umanità nei confronti dei loro parenti. Tra le azioni fatte in questo senso dall’allora sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini ci fu il chiedere degna sepoltura a quei corpi ancora senza nome, altrimenti destinati alle fosse comuni come era avvenuto fino a quel momento per altre vittime. Ci furono poi i servizi televisivi di Cataldi per il TG2 volti a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vita nel centro di prima accoglienza dell’isola, poi chiuso.
Soprattutto, accanto ai soccorsi ai sopravvissuti, si intraprese un’azione mai avvenuta prima di recupero di tutte le informazioni possibili sulle persone che avevano perso la vita. Furono fatti arrivare a Lampedusa un’ottantina di possibili familiari da ogni parte d’Europa, ognuno con qualche oggetto, reperto o documento legato al probabile parente scomparso. A genitori, fratelli, mogli, mariti e figli delle vittime era doveroso offrire certezze, per quanto strazianti, accanto a documenti che consentissero loro di poter continuare a vivere, sia psicologicamente, sia burocraticamente. Per molti ci sarebbero voluti fino a 12 mesi per ricevere un altrimenti semplice certificato di morte.
Fondamentali in questo lungo, difficoltoso ma necessario processo di riconoscimento e identificazione (che, auspicano i suoi artefici, dovrebbe diventare legge) sono stati gli oggetti appartenuti alle persone migranti morte in quel drammatico 3 ottobre. Repertati dalla polizia con l’espressione grottesca di “corpi del reato” da portare come prove in tribunale, quei cellulari e blister di pillole, quelle cartoline e collanine, quegli orologi e quelle immagini scolorite di gattini sono stati recuperati per essere sottoposti alle analisi degli esperti del Labanof, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano diretto dalla dottoressa Cristina Cattaneo. Lo sforzo di identificazione ha fatto sì che oltre la metà delle persone giunte a Lampedusa in cerca di risposte ricevessero un certificato e che una sessantina delle vittime ritrovassero un nome.

Oggi il Memoriale della Shoah ospita gli oggetti di quelle persone, esposti in bacheca non come qualcosa da ammirare e basta, ma come un monito perché l’indifferenza non vinca mai sul rispetto per l’umanità. E perché nessuno dimentichi che ognuno di quei morti aveva una storia, una famiglia, un passato e dei sogni. Accanto alle teche contenenti carte SIM, frammenti di lettere, ciondoli e cosmetici, oggetti che ciascuno di noi potrebbe tenere al sicuro in una tasca o in fondo a un cassetto, il percorso offre anche immagini altrettanto strazianti, anche se per altri motivi.
Sono i disegni di Adal Neguse, rifugiato eritreo oggi cittadino svedese. Suo fratello Abraham è una delle vittime del naufragio di Lampedusa, una di quelle che sono state appunto identificate, mentre il suo lavoro esposto rappresenta le atroci torture subite dai giovani del suo paese che come lui hanno tentato di fuggire dal regime. Acquisite come prove dalle Nazioni Unite nella risoluzione che condanna il regime eritreo per crimini contro l’umanità, quelle illustrazioni sono la testimonianza di quanto lui stesso abbia subito in un carcere sull’isola di Dalak, nel Mar Rosso, all’epoca del suo rimpatrio da Malta.

Sempre Adal è protagonista con sua figlia di una delle grandi foto che compongono un’altra sezione dell’esposizione, dedicata al lavoro di Karim El Maktafi. Nato a Desenzano del Garda nel 1992, il fotografo italo-marocchino in parte ha immortalato gli oggetti dei naufraghi in enormi still life, in parte ha ritratto diversi protagonisti della tragedia. Grazie ai suoi scatti si possono così guardare negli occhi alcuni soccorritori, da Simone D’Ippolito a Costantino Baratta fino alla stessa sindaca Giusi Nicolini, così come due sopravvissuti, Solomon e Fanus, e la moglie di una vittima, Aster. E poi c’è lui, il Mediterraneo, fotografato come gli esseri umani in un intenso bianco e nero. Completano il percorso gli audio dei primi che prestarono soccorso, i servizi televisivi di Valerio Cataldi e il video del barcone inabissato, inquietante quanto ipnotico nella sua semplice drammaticità.

La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo
Memoriale della Shoah di Milano, Piazza Edmond J. Safra, dal 27 settembre al 31 ottobre 2023

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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