Il silenzio e la parola in un’indagine psicanalitica e del pensiero ebraico
Il titolo del lavoro di Alberto Sonnino, Trauma della Shoah, ebraismo e psicanalisi, articolato in tre punti mette subito in evidenza le questioni che saranno sviluppate lungo le pagine successive. Prima di tutte “trauma della Shoah” pone al centro la percezione, la condizione e il sentire dei pochi sopravvissuti ai campi di sterminio dopo il 1945. Cioè di coloro che hanno vissuto il clima di odio, di ferocia, di chi ha visto la morte in faccia, di chi è uscito dall’inferno. Di chi successivamente ha constatato l’impossibilità a raccontare l’accaduto per molto tempo.
Trauma è un termine medico che si usa quando qualcosa dall’esterno colpisce il corpo. Qui in senso psicanalitico, trauma significa una straordinaria violenza che incide sulla coscienza. È dolore profondo. È una ferita che l’analisi tenta di inquadrare in un lavoro di rielaborazione. Termine, quest’ultimo, che indica un lungo lavoro dagli esiti incerti. Poi ancora, nel titolo, “Ebraismo” perché la Shoah è per l’esattezza deprivazione, distruzione radicale dell’identità del popolo ebraico. È, secondo la definizione nazista, la “Soluzione finale” di un programma politico che prende l’avvio dalla persecuzione razziale e arriva fino alla cancellazione fisica di un popolo e delle sue tracce.
Poi ancora: “Psicanalisi” come metodologia conoscitiva dell’io e come prassi terapeutica, iniziata da Freud a fine Ottocento verrà poi indagata nel testo nelle sue tangenze col pensiero ebraico. Parallelismo e confronto quindi fra due pilastri nel percorso di formazione di una persona. Il pensiero ebraico come tradizione spirituale millenaria che, se assimilato genera forza e senso della vita autentica e il pensiero psicanalitico, così storicamente recente, anch’esso finalizzato al recupero di un’identità perduta, alla ricostruzione di un io smarrito. In particolare nel pensiero ebraico costante è la sollecitazione a guardare nel profondo del proprio io per cercare il senso del sacro e il rapporto diretto con Dio, senza ricorrere agli idoli; continuo è l’appello al criterio della responsabilità come elemento fondativo dell’etica della persona. Il rispetto di sè e degli altri; la polarizzazione maschile-femminile nell’ordine del creato, secondo la Torah; l’amore e il rispetto per la vita; il criterio della Memoria come attualizzazione e rielaborazione della storia passata.
Come non vedere in questa trama di valori dell’ebraismo, appena sopra accennata, il tessuto di una prassi psicanalitica basata sulle teorie di Freud, sull’io, sull’inconscio; prassi consolidata nel rapporto analista-paziente sulla ricerca della verità del soggetto, sullo smantellamento di false opinioni e certezze, sull’elaborazione del vissuto, sulla memoria, sulla scoperta o la riscoperta della vita!
L’Autore avverte da subito sulla problematicità del concetto di trauma nella psicanalisi: l’indagine del trauma non può prescindere dalla ricostruzione della realtà storica; poi verte sul dolore presente del soggetto, sulle tracce della memoria; sulla necessità, nel caso della Shoah, di elaborare quello che per alcuni terapeuti, in certi casi, viene definito l’“inelaborabile”. Si parla di coloro che sono sopravvissuti e dopo tanti anni di silenzio nel timore di non essere ascoltati nei loro racconti, si sono finalmente disposti a parlare e a testimoniare. Cinquant’anni di ritardo, perché? Al silenzio dei reduci si era da subito aggiunto quello complementare di chi non ha voluto o saputo ascoltare. “Cospirazione del silenzio”, come la definisce l’Autore, come serie concatenata di azioni e non azioni che hanno impedito quel terreno di accoglienza affettiva, in grado di fare maturare una coscienza critica e, nel caso dell’analisi, portare alla luce le ferite e risanarle. C’è poi il silenzio degli artefici dello sterminio che spesso si sono sottratti al giudizio dei tribunali che, con la complicità degli stati e delle istituzioni, hanno vissuto nascosti nell’impunità.
“Congiura del silenzio”, dunque, come ancor più pesante di prima in una sorta di convergenza terribile verso la negazione della verità storica. Alberto Sonnino aggiunge poi il “silenzio di Dio” come una sorta di afasia di un’entità metafisica che non si fa ascoltare, ma che nella cultura ebraica è parola. L’interrogativo su questa afasia trova risposte sorprendenti in due protagonisti della tragedia della Shoah: Etty Hillesum, deportata e morta in campo di concentramento, olandese, di famiglia ebraica, non praticante, ma forte di uno spirito religioso profondamente radicato, di un senso del sacro tutto accolto nell’interiorità, scrive un diario prima e durante la deportazione che, affidato a mani amiche, fortunosamente è giunto fino a noi. Di fronte al male e alla violenza cui assisteva fino alla morte, non c’è mai spazio in lei per l’odio bensì per la volontà del bene che lei poteva operare; mai un grido a Dio per domandargli dove fosse. Dio per lei esisteva nella pienezza della sua vita; quindi oltre alla contemplazione anche l’azione e una vigilanza costante perché il male non la soverchi nel profondo. Cultura e spiritualità ebraica coniugati in lei con forte interesse per la psicanalisi junghiana; passione totale di vita; quindi Dio non muore anche quando si consuma l’estrema violenza nei campi.
C’è un altro personaggio dotato di una straordinaria forza spirituale: il pastore luterano protestante Dietrich Bonhoeffer che ha contribuito a una profonda riflessione teologica alimentata giorno per giorno dall’esercizio di interpretazione della Bibbia. Parla di un Dio che va visto in una nuova modalità. Non come “tappabuchi” di fronte alle mancanza dell’uomo, non come sostituto della nostra responsabilità, ma al contrario, come Colui che ci appella al nostro dovere. E allora qui si chiarisce l’equivoco precedentemente fatto sul “silenzio di Dio” perché è lui a denunciare con forza il silenzio dei molti e delle chiese di ftonte al male. La sua coerenza lo portò alla morte per impiccagione per avere cospirato contro Hitler, gesto a cui partecipa in piena lucidità come dovere di testimonianza. È così risolta l’apparente antinomia tra un Dio che è Parola e un Dio che non parla: risulta in tutta la sua chiarezza il pensiero di Bonnhoeffer: “il silenzio degli uomini di fronte al male è male di per sè”.
È questo il silenzio collettivo e personale che nasconde per tanti anni le responsabilità degli uomini e di fronte al quale si trovano i sopravvissuti. Di qui, avverte Sonnino, l’estrema difficoltà in sede di analisi dove, il rapporto a due analista-paziente, costituisce l’ambito nel quale, se possibile, elaborare il trauma. Il lungo lavoro necessario a fare chiarezza nella coscienza del paziente può avere esito positivo quando le ferite vengono riconosciute e accolte come componenti della psiche. In questo lavoro spesso capita di affrontare lunghi periodi di silenzio. Ma in questi casi è silenzio di attesa, di gestazione che precede l’atto della rinascita. È allora che il silenzio si interrompe e nasce la Parola. È lì che l’analisi raggiunge il suo scopo. ”Le parole per dirlo” è un romanzo autobiografico – citato in questo libro – della scrittrice e filosofa Marie Cardinal con il quale l’autrice racconta il suo percorso analitico fino alla riappropriazione del sé, a trovare la Parola che le restituisce la vita. Significativa l’assonanza tra la parola in psicanalisi come esito e come strumento di conoscenza e la Parola della Torah come norma di orientamento etico con valore universale nel pensiero e nella cultura ebraica.
Nella base etica radicata nei millenni e nella conservazione delle norme e prescrizioni di un popolo, l’Autore intravede la ragione della persistenza della speranza anche dopo la Shoah. A proposito di speranza, constata una apertura nuova quando si affaccia la seconda e la terza generazione attive nella costruzione della memoria e portatrici di un nuovo “slancio vitale”. Dove c’è soffio vitale c’è la possibilità di andare oltre i fantasmi di morte. Speranza, vitalità, creatività sono ingredienti del successo analitico. D’altronde ci sono stati esempi della generazione dei sopravvissuti che da subito hanno disperatamente testimoniato dopo la guerra. È il caso di Primo Levi con la parola scritta, con la letteratura, osteggiata da alcuni letterati. Una vita spesa nella scrittura testimoniale, precisa, lucida che non ha placato la sua angoscia, anzi, per così dire, l’ha resa plastica, fino alla scelta del suicidio di fronte a una memoria insopportabile. È anche il caso del poeta rumeno Paul Celan, sopravvissuto ai campi, il quale con tenacia tiene alta la fiaccola della parola poetica in aperto contrasto con il filosofo Adorno che la riteneva impotente e finita dopo Auschwitz, come se questo dato spazio-temporale fosse il termine dopo il quale non c’è più possibilità di poesia. Anche Celan, però, sceglierà il suicidio sovrastato e sommerso da ricordi di morte indelebili. Resta perciò la testimonianza della sua poesia frutto di un dolore estremo che dice la violenza subita. La sua poesia attinge alla sorgente dell’io, ma non approda a una riconciliazione del trauma, la rivive, ricreandola come grida. C’è un epistolario tra Celan e Ia poetessa Ingeborg Bachmann dal titolo significativo, “Troviamo le parole”, le parole dicono il dolore, non l’annullano.
Alberto Sonnino, Trauma della Shoah, ebraismo e psicanalisi, Franco Angeli 2022.
Architetto, docente di Storia dell’arte