Nel solco del contesto musicale newyorkese e americano c’è qualcosa in grado di coniugare con sorprendente efficacia il jazz con la tradizione ebraica
Sapevate che Willie the Lion Smith e Slim Gaillard affermavano di essere per metà ebrei? Oppure che Cab Calloway ha registrato una versione del popolare brano yiddish “Ot Azoy Neyt a Shnyader”? Che Herbie Hancock, Ron Carter, Thad Jones, Jerome Richardson e Grady Tate hanno suonato un arrangiamento jazz di musica ebraica devozionale nel 1968? (Don Byron. Don Byron: Sitting on the Fence. Interview at American Music Center, New York NY, 1999).
Evidentemente c’è qualcosa nel solco dell’ambient musicale newyorkese e statunitense in genere in grado di coniugare con sorprendente efficacia il jazz con la tradizione ebraica. Le origini, secondo il documentario del 2017 di Robert Philipson “Body and Soul: An American Bridge” (Best Music Documentary, San Francisco Black Film Festival, 2017) che ha aperto la serie cinematografica “Sunday”, promossa dallo Spertus Institute for Jewish Learning and Leadership di Chicago, attingono a correnti sociali e razziali che uniscono afro americani ed ebrei in una cultura urbana americana di tipo diasporico, che nelle parole di Jeffrey Melnick, professore di studi americani presso l’Università del Massachusetts, diventano una sorta di “seducente parentela naturale”. Philipson sottolinea come tale link “di solito la si fa risalire al tempo della schiavitù. Gli afroamericani hanno preso la storia degli ebrei in schiavitù in Egitto facendola propria e creando su di essa canzoni. È una narrazione attraente per molte persone all’inizio del XX secolo, particolarmente per gli ebrei nel mondo della musica popolare, che si consideravano una sorta di alleati naturali degli afroamericani, il che rendeva loro possibile fare musica che veniva ascoltata e promossa come musica nera” (Reich Howard. ‘Body and Soul’ doc explores links between jazz and Jews. Chicago Tribune online, 2018). Un esempio concreto viene ripreso nel Il film del 1927 The Jazz Singer con Al Jolson , al punto che lo stesso scrittore statunitense Ted Merwin ha scritto che il film veniva letto come una glorificazione dell’assimilazione ebraica nella cultura americana.
Negli anni Quaranta e Cinquanta, le negoziazioni in corso sull’identità razziale da parte di “Mezz” Mezzrow, del disc jockey jazz “Symphony Sid” Torin, del trombettista jazz Red Rodney e altri emersero sia dalla storia dell’ambiguità razziale ebraica in America sia dalla specifica miscela di antisemitismo e pressione all’assimilazione che i musicisti hanno dovuto affrontare. Molti jazzisti ebrei del dopoguerra si dedicarono alla musica nera per evitare di “fondersi” in un mainstream americano che consideravano insipido e intollerante, e per “riminorizzare” l’ebraicità. Tuttavia, anche se inizialmente “divennero neri”, questi musicisti spesso alla fine si scontrarono con un’identità ebraica mai completamente sepolta. I modi in cui gli ebrei nel jazz giocavano attivamente e creativamente con l’identità razziale possono essere visti dai modi in cui parlavano, pensavano e sentivano.
Tale miscela è presente e rinvigorita oggi nelle più complesse sonorità del jazz moderno, a partire dal lavoro di Uri Caine, nato e cresciuto a Filadelfia, conosciuto come pianista jazz che ha suonato con grandi nomi come Bootsie Barnes, Hank Mobley, Philly Joe Jones e altri. Ma il desiderio di Caine di spingere oltre i canoni tradizionali la sua struttura musicale lo ha portato a lavorare con John Zorn, con la Radical Jewish Culture series (con l’etichetta Tzadik), con la scena musicale Downtown di New York, con il Jazz-funk/Jazz-soul di maggior successo commerciale di Grover Washington Jr. e una pletora di musicisti classici, diventando noto per aver interpretato in chiave Jazz il Mahler, Beethoven, Mozart, Shumann e Schönberg, emergendo a leader creativo, prolifico compositore, sideman, tastierista (Benatar J.D. Uri Caine and His Jewishly Influenced Music. A dissertation. Rutger University, 2013. 198 pp).
All’eclettismo non inscatolabile di Caine, seguono ad esempio i lavori di Don Byron, in grado di uscire dal limite del clarinetto, per esplorare sonorità klezmer grazie all’influenza dei vicini ebrei del suo quartiere di origine, il South Bronx. Un valido esempio si trova nell’album Don Byron plays Mickey Katz (Nonesuch, 1993), dove il clarinetto incontro le musiche del celebre musicista ebreo Meier Michael Katz. Il figlio di Mickey Katz, l’attore Joel Grey, dichiarò dell’album: “è come se mio padre, morto anni fa, fosse lì dentro, presente”.
Il ricco contesto newyorkese che aveva già influenzato Don Byron anche di recente vede sulla scena l’alternarsi di autori di rilievo quali il chitarrista Saul Rubin che ha pubblicato inizialmente con l’italiana Red Records e poi si è reso autonomo aprendo la propria etichetta Zebulon Sound and Light prima nel 2008 in un loft a Chelsea, poi nella 28esima strada con il nuovo nome Zeb’s: una sala live dove ha prodotto innumerevoli registrazioni, eventi e spettacoli dal vivo, nonché album di ottimo livello quali Zeb’s House e Zebulon Trio.
Sempre dalla milanese Red Records, si trovano due jazzisti di rilievo che fanno della tradizione ebraica la linfa del loro ineguagliabile estro: Dave Liebman e Pablo Bobrowicky. Il primo, un sassofonista nato a Brooklyn la cui musica discende in linea diretta da quella di John Coltrane, del quale approfondisce la vena lirica e spirituale. Nel 1987, in occasione del ventennale della scomparsa di Coltrane, rende infatti omaggio al maestro con Homage to John Coltrane e Tribute to John Coltrane. Attualmente è alla guida del suo progetto elettroacustico Expansion che ha prodotto fino ad ora 3 album innovativi: Samsara (2014), The Puzzle (2015), Expansion live (2015).
L’approccio al Jazz di Bob Bobrowicky, originario di una famiglia ebrea polacca trapiantata in Argentina e poi allievo di Jim Hall a New York, reca l’eco delle sue origini latino-americane dando vita ad un sound particolare e personalissimo, come negli imperdibili brani Casi Seguro, No more no less, Escape o le rivisitazioni fatte su classici di Duke Ellington come Cotton Tail, Idle Moments.
Nella menzione del contesto newyorkese non può mancare il prolifico controbassista Avisahi Cohen, israeliano che vive da quando ha 22 anni a New York. Negli album Arvoles (Razdaz Recordz, 2019) e From Darkness (Naive, 2015), si può cogliere la sua inconfondibile mixitè sonora fatta di idiomi musicali mediorientali, dell’Europa orientale e afro-americani. Proprio le sue composizioni aggregano tradizioni, culture, lingue e stili diversi, passando dal jazz standard al pulsante jazz contemporaneo. Così come l’album del duetto Dan Block&Ted Rosenthall, Duality (2012), fatto di richiami continui ad Ellington, Gershwin, Styne, Beiderbecke, Kern, Dameron, fino a Shostakovich, passando per sonorità latine. Un grande disco in cui ogni pezzo e ogni performance hanno logica e splendore, in veste ebraica, senza mai cadere nell’autoindulgenza o nella banalità.
In questo alveo, anche il sassofonista, clarinettista e flautista italiano Gabriele Coen merita una particolare attenzione, con i suoi album che esplorano in chiave jazz brani della cultura Yiddish, nell’album Yiddish Melodies in Jazz (Tzadik Records, 2013), di quella sefardita nel recente lavoro Sephardic beat (Parco della Musica Records, 2023), spingendosi con suoni sperimentali a cogliere i reconditi misteri della mistica ebraica nel sound delle tracce di Sephirot, Kabbalah in Music (Parco della Musica Records, 2017).
Autori che, nel contesto moderno del jazz contemporaneo, continuano quindi la loro sperimentazione, fondendo generi, esplorando sonorità innovative, reinterpretando sia le tradizioni culturali che i classici del passato. Con la sola differenza rispetto ai musicisti degli anni 50 che questa ricerca ora non è più limitata da una società che necessita di rigide categorie etniche (Hersch Charels. Swinging Hava Nagila: “Jewish Jazz” and Jewish Identity. 2015. Shofar, 33(3), 1–26). Questi artisti oggi sono liberi di portare il jazz su nuovi illimitati spazi musicali. Ciò permette di evolvere di continuo il contenuto e gli stilemi e di far rivivere a chi li apprezza quel mood notturno e metropolitano tipicamente newyorkese, intimista ed attrattivo al contempo.